55 (versione italiana)
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55 (versione italiana)

  1. 384 pagine
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55 (versione italiana)

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A Wilbrook non c'è quasi nulla. Pochi abitanti, qualche casa, una chiesa. Strade polverose bruciate dal sole, come in un vecchio film western. E lì dietro, sull'altopiano di Gardner's Hill, caleidoscopiche sequenze di alberi e rocce affilate come lame disorientano chi passa; un esperimento di Dio, per mettere alla prova la capacità di adattamento dell'uomo alla natura. Ancora non ci crede, Gabriel, di essere riuscito a scappare. Di avere trovato una via di fuga giù per l'altura ed essere arrivato in quella sperduta stazione di polizia per raccontare la storia agghiacciante delle sue ultime ore: le catene ai polsi, il capanno nel bosco, lo psicopatico di nome Heath che voleva fare di lui la sua cinquantacinquesima vittima. Mai, in tanti anni di servizio nel paesino immobile di Wilbrook, annidato nell'entroterra australiano, il sergente Chandler Jenkins ha dovuto ascoltare un racconto del genere. Ma quando nel suo ufficio mette piede un altro uomo ferito, insanguinato, che dice di chiamarsi Heath e di essere stato sequestrato da un maniaco di nome Gabriel, sono due i racconti straordinari. La verità, però, è una sola, e Jenkins la deve trovare mettendosi sulle tracce quasi scomparse di un passato ancora irrisolto. E noi con lui ci avventuriamo sull'altopiano, sentiamo il caldo che scioglie la pelle e la terra che crepita sotto i piedi mentre camminiamo lungo sentieri vertiginosi e riarsi, infidi come certi segreti.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2019
ISBN
9788858698259

1

I polmoni gli bruciavano, come se al posto dell’ossigeno respirasse la soffocante polvere rossa che sollevavano i suoi passi. Passi che non lo portavano da nessuna parte perché – poco ma sicuro – era in mezzo al nulla. Eppure il mondo gli si chiudeva addosso, i rami bassi si protendevano per ghermire la loro oncia di carne, per accogliere in via definitiva il nuovo arrivato.
C’era mancato un pelo, ma era fuggito. Si salvi chi può. Un modo di dire trito e ritrito che non avrebbe mai creduto di dover mettere in pratica. Si sentiva tutt’altro che vivo. Il terrore di essere catturato lo logorava, la sua attenzione era concentrata sui singoli passi, su ogni roccia o scarpata fra gli alberi. Si sentiva come un animale, ridotto a elementari istinti di sopravvivenza, ogni cosa intorno a lui contraddistinta solo da un’etichetta: pericolo o via libera.
Il sole insinuava le sue lunghe dita tra gli alberi cuocendo il suolo senza pietà, chiazzando di luce la terra nuda senza però tracciare un sentiero luminoso verso la libertà. C’erano alberi e pietre, alberi e pietre di merda. Non sapeva nemmeno se si stava muovendo verso la civiltà o se invece si addentrava nell’outback.
All’ennesima roccia bollente i polpacci si indurirono come se fossero ancora trattenuti dalle catene. Aveva creduto che quel freddo metallo arrugginito l’avrebbe imprigionato lì finché lo psicopatico non avesse deciso che era ora di ucciderlo. Non poteva fermarsi. Nonostante i dolori, l’affaticamento e la mancanza d’aria nei polmoni, non poteva farlo. Se si fermava era morto.
Scorse un’apertura fra la boscaglia davanti a sé. La via d’uscita dall’inferno – sperò – dove avrebbe trovato una strada, una fattoria, una pista di terra battuta, qualunque cosa che lo riportasse nel mondo reale. Buttò a forza altra aria nei polmoni e si costrinse a seguire quello spiraglio. Urtò un sasso che doveva essere rimasto incastrato nel terreno per secoli, tranquillo fino ad allora. Perse l’equilibrio e d’istinto allungò un braccio in cerca di appigli, afferrando solo aria. Poi la spalla sbatté contro un tronco, che tremò ma restò in piedi. In qualche modo, lui fece altrettanto.
L’orizzonte fatto di alberi s’interruppe. La luce del sole lo accecò e il sogno d’imbattersi nella civiltà s’infranse definitivamente. Davanti a lui si apriva una piccola radura con cinque o sei rettangoli di terra smossa; riquadri che sembravano… tombe. Doveva raccogliere di nuovo le forze, o ce ne sarebbe stata una anche per lui.
Raddrizzò la schiena. Il suo corpo era un fascio di nervi dolenti. I vestiti erano intrisi di sudore. Aggirò il piccolo cimitero senza mai distogliere lo sguardo e rientrò in un groviglio ancora più fitto di alberi e rocce. Come se non avesse fatto altro che girare in tondo.
Il terreno riprese a salire, le gambe si unirono ai polmoni nel protestare contro i continui maltrattamenti. In lontananza l’azzurro sbiadito del cielo terso gli segnalò la sommità di una collina: un buon punto di osservazione per orientarsi.
Ignorò le proteste di gambe e polmoni ma non si accorse della radice ricurva che spuntava dal suolo. E andò giù. Niente terra smossa ad attutire la caduta, solo una superficie compatta e riarsa, e un gran polverone sulla faccia. Soffocò un urlo, terrorizzato all’idea di rivelare la propria posizione, ma gli parve di essere deriso dall’eco del suo stesso lamento – amplificato dalla terra dura – che arrivò a coprire il cinguettio degli uccelli, il ronzio degli insetti e il rumore del suo aspirante assassino.
Quando arrivò, la cima dell’altura aumentò il suo sconforto: non c’era alcun punto di osservazione, solo una scarpata di appena tre metri. Uno sguardo terrorizzato a sinistra e a destra gli confermò che non c’erano percorsi sicuri.
Non ebbe il tempo di individuare un tracciato alternativo. Una spinta alla schiena lo fece schiantare a terra. Si girò giusto in tempo per prendersi una fila di nocche contro la guancia destra. Un colpo di striscio, ma sufficiente a fargli chiudere gli occhi per una frazione di secondo. Serrò il pugno e partì al contrattacco. Colpì qualcosa di duro, forse una spalla. Per tutta risposta l’aggressore gli piantò un ginocchio ossuto nel muscolo della coscia. Il dolore gli spalancò a forza gli occhi, mentre la vista si annebbiava. Senza un piano, e privo di coordinazione, menò una serie di pugni frenetici. Alcuni centrarono qualcosa, altri andarono vuoto. Ma per quanti ne tirasse gliene tornava indietro il doppio, tutti ben assestati, alla testa e al collo; colpi sordi e pieni, che sprigionarono da un lato all’altro del campo visivo un caleidoscopio di lampi abbaglianti. Uno strattone ai capelli e la testa venne sbattuta sul terreno, che non cedeva e non mostrava pietà. Un’ombra nera gli artigliò il cervello minacciando di spegnerlo una volta per tutte. Se avesse perso i sensi, tanti saluti. Si aggrappò alla sagoma scura sopra di lui. Immobilizzò le braccia dell’aggressore e rotolò su un fianco, lottando per guadagnare un punto su cui far leva.
Dove credeva che avrebbe trovato terreno non trovò nulla, e la sua caduta continuò per un’eternità, senza peso, come se i colpi alla testa avessero compromesso irrimediabilmente la percezione della gravità. Fu sopraffatto da un senso di beatitudine surreale. Era finita. Lo sconosciuto lo aveva ucciso e lui ora proseguiva verso qualunque cosa ci fosse al di là di questo mondo. L’atterraggio cambiò le cose.
L’impatto col suolo gli tolse il fiato. Gli parve di sentire l’anima fuggire dal corpo. Aprì gli occhi e si trovò davanti la ruvida muraglia grigio bruna della cresta rocciosa, che saliva verso il cielo fino a sfumare in una foschia azzurrognola. I colori si scurirono un attimo prima che perdesse i sensi.

2

Chandler Jenkins abitava a Wilbrook da sempre. Trentadue anni, lunghi e aridi, inchiodato sull’altopiano del Pilbara, nell’angolo più remoto dell’Australia Occidentale; una massa di terra che – con una stima prudente – aveva due miliardi e mezzo di anni e aveva fatto parte dell’antico continente Ur. Certi giorni Chandler si convinceva che quegli atomi preistorici fossero penetrati nelle sue ossa facendolo invecchiare prematuramente. La terra color rame che ricopriva il suolo arrostito dal sole faceva quest’effetto a molta gente.
La cittadina era un avamposto remoto a cento chilometri da Portman, l’abitato più vicino, ed era collegata da una strada che si snodava in lontananza come la coda attorcigliata di un drago. Wilbrook di per sé non era vecchia, neppure per gli standard australiani: la sua fondazione era stata annunciata ufficialmente al mondo alla fine del diciannovesimo secolo, quando era stata battezzata con il nome di un noto prospettore minerario di Albany che aveva abbandonato le rigogliose vigne del Sud per scavare queste altre terre in cerca di ricchezza. E l’aveva trovata. Un grosso filone aurifero; pepite che sbucavano dal suolo come i marshmallow nei cereali della colazione di un bambino. Alcune bisognava afferrarle con due mani, per sollevarle. Si era sparsa la voce e in quattro e quattr’otto erano spuntate le baracche, strutture di legno che sfidavano la gravità e offendevano il buon gusto. Subito dopo erano arrivati i pubblici esercizi: taverne, saloon, bordelli. Due per tipo, almeno. Ed ecco l’esplosione demografica, le migliaia di avventurieri venuti in cerca di fortuna, e gli articoli di giornale che proclamavano Wilbrook il luogo giusto per realizzare i propri sogni. Ma i sogni avevano avuto vita breve: ben presto si erano ridotti a timide pagliuzze incastrate nei setacci arrugginiti. Eppure gli uomini continuavano ad arrivare, a setacciare disperatamente le pietre e la sabbia dei fiumi e ad annegare i dispiaceri bevendo whisky e cercando donne che non potevano permettersi di pagare. Crescevano i debiti, crescevano le tensioni.
Il risultato fu una polveriera che era esplosa una notte d’estate, con una sparatoria fra dieci uomini sulla strada principale; l’unico superstite, Tom Kelly detto Tomato, era morto l’indomani, con l’arteria brachiale perforata. Con l’aumentare degli episodi di violenza erano diminuite le prospettive di ricchezza. I primi ad abbandonare il campo erano stati medici, avvocati e commercianti, attirati altrove dalle corse all’oro più recenti, e i cinquemila abitanti della non più fiorente cittadina erano scesi drasticamente ad appena un quinto, rincuorati da una manciata di bar e bordelli che tenevano duro. Niente è meglio della disperazione, per fare affari.
Finito l’oro, le famiglie si erano trovate costrette a sbarcare il lunario in una terra ostile quanto gli animali che tentavano di allevare. Per quasi quarant’anni Wilbrook aveva tirato avanti così, respirando a malapena. Poi, sotto il suolo martoriato, erano stati scoperti i minerali ferrosi e l’amianto azzurro. Allora era partita una nuova corsa, e le compagnie minerarie avevano acquistato ampi appezzamenti di terra offrendo somme troppo alte per essere rifiutate. Ci fu così una rapida espansione, con la costruzione dei primi edifici in muratura. E poi, com’era già successo, i profitti erano crollati e le compagnie, senza sentimentalismi né rimorsi, avevano trasferito le attività a poche ore di viaggio da lì, a Portman, lasciandosi alle spalle un involucro svuotato, come la pelle di un serpente dopo la muta.
Chandler e la sua famiglia vivevano in questo guscio vuoto del quale lui andava fiero, nonostante gli innegabili difetti. Era la sua città. Lui era il sergente di polizia e, di fatto, lo sceriffo; definizione quantomeno appropriata, dato che Wilbrook aveva mantenuto l’aspetto che aveva a fine Ottocento. L’asfalto della strada principale, un tempo in terra battuta, nel riverbero del sole sembrava quasi bianco, mentre l’isola pedonale al centro offriva un rifugio superfluo per il traffico inesistente. Verande colorate si affacciavano sulle vie, riparando dai raggi del sole ma non dalla canicola spietata; le loro strutture, di metallo lavorato a mano, erano lì dal secolo precedente, ultimi baluardi di un’epoca ormai lontana.
Parcheggiando davanti a quel forno di cemento che era la stazione di polizia, Chandler lanciò un’occhiata nello specchietto retrovisore. Il volto tondeggiante che ricambiò il suo sguardo era quello di un bell’uomo poco più che trentenne; il volto di un genitore single che affrontava le ore piccole e la vita di tutti i giorni; un volto dai capelli chiari che perdevano volume ma non terreno, almeno per il momento. Il biondo e la leggera abbronzatura gli davano un’aria da ex surfista, l’esatto opposto di ciò che era: Chandler si teneva il più possibile alla larga dal mare. Sulla terraferma, se non altro, poteva vedere i pericoli che gli venivano incontro.
Il suo predecessore Bill Ashcroft era andato in pensione a giugno, lasciandogli provvisoriamente la carica. Non che Chandler e gli altri quattro avessero granché di cui occuparsi: infrazioni stradali e bisticci domestici, di tanto in tanto una rissa in uno dei tre pub che non si facevano neppure concorrenza, visto che i rispettivi clienti erano quelli temporaneamente banditi dagli altri due. Ma la quota assegnata alla stazione era di cinque uomini, e le forze di polizia dell’Australia Occidentale cercavano di mantenere la squadra sempre al completo, temendo che la rimozione di uno portasse al crollo di tutti gli altri, come quando si gioca a Jenga.
Entrando trovò Nick Kyriakos – fresco di reclutamento – intento a presidiare il bancone d’ingresso, al quale Chandler l’aveva assegnato finché non si fosse dimostrato in grado di svolgere mansioni operative. Non aveva alcun senso spedire sul campo un ventenne armato, per quanto sveglio e scrupoloso. Un giovane curiosissimo, che voleva farsi voler bene, imparare e, soprattutto, dimostrare di avere un altissimo e inquietante livello di preparazione.
Tanya, l’agente più anziana nonché sua vice, era già alla scrivania. Mai una volta in ritardo, rigorosissima già a partire dalla coda di cavallo. Faceva il primo turno della giornata, così da poter andare a prendere i tre figli da scuola all’altro capo della città. Li aveva sfornati in rapida successione nei cinque anni di aspettativa dai quali era appena rientrata, e Chandler immaginava che avesse applicato lo stesso rigore anche nell’affrontare i vari parti: con lei tutto assumeva l’aspetto di un’operazione militare. Se Chandler avesse avuto una promozione, avrebbe fatto in modo che la ottenesse anche Tanya. Se la meritava. Chiunque riusciva a destreggiarsi tra famiglia e lavoro meritava il meglio. E lui aveva due figli, lo sapeva bene. Lei almeno aveva un compagno che le dava una mano.
Chandler s’infilò in ufficio. Il condizionatore si era inceppato di nuovo, dando il via libera a un caldo appiccicoso. Si sedette e guardò fuori dalla finestra, verso Gardner’s Hill, un’altura brulla e boscosa che prendeva nome dal primo sindaco della città. Una collinetta che vista da lontano sembrava un posticino piacevole, ricoperta – almeno guardandola da lì – di alberi che si stagliavano dritti contro il cielo. Un’anomala macchia verde in una distesa di terra rossa. Dietro quegli alberi, chilometri e chilometri di natura selvaggia; un paesaggio ostile, che avrebbe messo a dura prova anche gli escursionisti più esperti, abituati a condizioni estreme. Poteva attirare solo chi voleva trovare se stesso. O perdersi del tutto.
Per Chandler era una giornata come tante, quieta e introspettiva. Che stava per cambiare in maniera drammatica.
Dalla porta aperta percepì un insolito trambusto. Non riconobbe la vo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. 55
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. 22
  26. 23
  27. 24
  28. 25
  29. 26
  30. 27
  31. 28
  32. 29
  33. 30
  34. 31
  35. 32
  36. 33
  37. 34
  38. 35
  39. 36
  40. 37
  41. 38
  42. 39
  43. 40
  44. 41
  45. 42
  46. 43
  47. 44
  48. 45
  49. 46
  50. 47
  51. 48
  52. 49
  53. 50
  54. 51
  55. 52
  56. 53
  57. 54
  58. 55
  59. Ringraziamenti
  60. Copyright