Il massacro di Addis Abeba
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Il massacro di Addis Abeba

  1. 672 pagine
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Il massacro di Addis Abeba

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Ci sono pagine della storia d'Italia che conosciamo ormai a memoria, e altre su cui ancora non è stata scritta la parola "fine". E poi ci sono le pagine dimenticate, relegate all'oblio perché troppo dolorose. Anche quelle, però, fanno parte del nostro passato. In questo caso, del nostro passato di "potenza imperialista". La mattina del 19 febbraio 1937, ad Addis Abeba, il viceré Rodolfo Graziani e le autorità italiane che da nove mesi governano un terzo dell'Etiopia celebrano la nascita del primo figlio maschio del principe Umberto di Savoia. Ma un gruppo d'insorti riesce a superare i controlli e, all'improvviso, otto bombe a mano seminano il caos tra quei notabili. Di fronte al bilancio - sette morti e decine di feriti, compreso lo stesso Graziani - il Duce ordina la repressione: "Tutti i civili e religiosi comunque sospetti devono essere passati per le armi". È così che si scatena uno dei massacri più ignobili della parentesi coloniale italiana: giorni di terrore, tra omicidi e saccheggi, durante i quali migliaia di innocenti vengono trucidati con sistematica brutalità. Repressione che culmina, nel maggio dello stesso anno, con l'eccidio di centinaia di monaci, preti e pellegrini cristiani della Chiesa etiope, tutti disarmati, radunati nel monastero di Debra Libanos. Intanto, le Camicie nere ne approfittano per azzerare l'intellighenzia del Paese, in un vero e proprio pogrom. Con precisione accademica e passo narrativo, Ian Campell ricostruisce in questo saggio una delle atrocità meno conosciute del regime fascista, analizzandone premesse e conseguenze, senza fare sconti a nessuno. Prefazione di Richard Pankhurst.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2018
ISBN
9788858693698
Argomento
Histoire

1

Antefatto

Prologo

L’Etiopia e l’Italia avevano molto in comune. All’inizio del Novecento erano entrambe eredi di antiche culture e di imperi precedenti al cristianesimo che tuttavia, nei secoli, si erano ridotti perdendo smalto e prestigio, con l’unica differenza che l’impero etiope, a differenza dell’antico impero romano, non aveva mai cessato di esistere. Entrambi avevano una scrittura antica di millenni da cui si era sviluppata la lingua contemporanea ma che era ancora utilizzata nei riti ecclesiastici.
Nel IV secolo entrambe le potenze avevano adottato il cristianesimo come religione di Stato, ma fu l’imperatore etiope Ezanà di Axum, il cui profilo apparve sulle prime monete, a portare la croce di Cristo. Entrambe divennero teocrazie, ma mentre Roma avrebbe perso supremazia a favore della «nuova Roma» di Bisanzio, l’Etiopia poteva reclamare un’ininterrotta aderenza ai più antichi canoni dell’ortodossia. Roma vantava le reliquie di san Pietro, mentre l’Etiopia affermava di custodire la Vera Croce e l’Arca dell’Alleanza. Come teocrazie, perseguitarono entrambe gli eretici nel corso del XV secolo, anche se i santi padri etiopi non raggiunsero mai il livello di barbarie dei papi con i roghi pubblici di massa.
Entrambi gli imperi avevano subito invasioni, erano caduti in disgrazia e si erano frammentati in Stati più piccoli, in guerra tra loro. A metà dell’Ottocento avevano entrambi compiuto sforzi estremi per la riunificazione, ma i loro Stati nazionali erano stati riconosciuti a livello internazionale solo nella seconda metà del secolo. A quell’epoca buona parte dei cittadini era composta da contadini analfabeti inseriti in un esteso sistema feudale, che abitavano nelle campagne e vivevano di quel poco che la terra poteva offrire, mentre i loro buoi trainavano antiquati aratri tra le rovine dei monumenti di un passato glorioso. Con l’arrivo del XX secolo entrambe erano diventate monarchie, con la differenza che gli etiopi potevano vantare una linea di sangue reale ben più antica rispetto a quella italiana.
Per più di duemila anni queste due antiche potenze avevano coesistito pacificamente. Nel XV secolo era stato istituito in Vaticano un Pontificio collegio etiopico, re Alfonso VI aveva inviato artisti e artigiani da Napoli per abbellire le chiese d’Etiopia e tra le due famiglie reali era stato perfino proposto un accordo matrimoniale. Non solo, agli inizi del XVI secolo un gruppo di veneziani e loro compatrioti si erano distinti come membri e impiegati della corte imperiale etiope.
Eppure, verso la fine degli anni Trenta del Novecento, il disperato imperatore etiope fu costretto a dichiarare: «Gli italiani sono sempre stati il tormento degli etiopi». Cos’era quindi successo nel frattempo per trasformare queste due potenze in declino in mortali nemici, dopo una lunga storia di pacifica cooperazione?
Paradossalmente, i problemi dell’Etiopia con l’Italia non avevano nulla a che vedere con l’Etiopia. Tutto era nato nella Roma ottocentesca, dalla preoccupazione del nascente Stato italiano di essere considerato «il povero d’Europa» e di essere quindi tenuto fuori dalla corsa alle colonie e ai domini d’oltremare. Da un tale complesso d’inferiorità era scaturito un desiderio di espansione e di conquista, mentre nell’apertura del Canale di Suez nel 1869 si può individuare la causa alla base dell’immotivata aggressione ai danni dell’Etiopia. Per la prima volta, infatti, gli italiani potevano accedere al Mar Rosso direttamente dal Mediterraneo e questo fatto portò all’acquisto del porto di Assab nel 1885 da parte del missionario lazzarista Giuseppe Sapeto, per conto della compagnia navale Rubattino di Genova. La transazione ebbe l’effetto di consegnare all’Italia un avamposto strategico, per quanto piccolo e remoto, su una striscia di costa umida e afosa, tradizionalmente tributaria degli imperatori etiopi.
Intanto, nel 1884, nel Sudan egiziano era salito al potere un movimento rivoluzionario islamico antioccidentale, noto come mahdismo, i cui seguaci avevano messo sotto assedio diversi avamposti angloegiziani della zona. La Gran Bretagna aveva inviato dei messi diplomatici al vicino imperatore etiope Yohannis IV (r. 1872-1889) con la richiesta di sostegno militare per riprendere possesso degli avamposti e l’imperatore aveva acconsentito, in cambio della restituzione del porto di Massaua – importante fulcro del commercio sul Mar Rosso, a quel tempo nominalmente sotto il controllo egiziano – e di altri terreni di confine sempre sotto il governo egiziano. Così, nel giugno del 1884, i governi di Etiopia e Gran Bretagna avevano siglato un accordo.
L’esercito di Yohannis aveva ripreso le città precedentemente presidiate dagli angloegiziani permettendo così alle truppe britanniche di ripartire senza problemi. Tuttavia, pochi mesi dopo, in uno sconcertante voltafaccia, la Gran Bretagna infranse gli accordi. Nel tentativo di frenare l’espansione francese in Africa e approfittando del fatto che l’Italia aveva un punto d’appoggio sulla costa del Mar Rosso (Assab), nel febbraio 1885 gli inglesi facilitarono l’occupazione italiana di Massaua. Da parte loro, gli italiani, che avevano già iniziato l’invio a Massaua di centinaia di soldati, sfruttarono la strategia britannica e, con una serie di incursioni armate, occuparono altre aree costiere limitrofe. Yohannis, dunque, era stato ingannato. Avendo bisogno della tecnologia e degli strumenti bellici europei, fino all’occupazione di Massaua aveva sempre accolto di buon grado i tentativi italiani di stabilire rapporti commerciali con l’Etiopia. Tuttavia, nel 1885, gli imperativi geopolitici e militari dell’Italia erano ormai andati oltre il desiderio di instaurare legami puramente economici. Oltraggiato dal comportamento della Gran Bretagna e incapace di far sgombrare gli italiani da Massaua, Yohannis scrisse un’amara missiva di protesta alla regina Vittoria, ma senza alcun risultato.
Gli italiani, ottenuta Massaua con la connivenza dei britannici, non si fecero fermare dalle proteste del re etiope che reclamava la città portuale. A quel tempo in Italia c’era una significativa opposizione, da parte del Parlamento così come del popolo, all’espansione oltremare, ma il governo di Roma aveva già messo gli occhi sull’antico impero etiope. Rispetto alla striscia costiera, costituita solo da terreni bassi, afosi e improduttivi, i suoi altipiani relativamente ricchi e ben più estesi rappresentavano un premio sicuramente migliore. Etiopi o no, l’Italia sembrava determinata a occupare il Paese.
Entro la fine del 1886 i militari italiani erano penetrati nell’entroterra e si erano insediati nel forte di Sahati. Yohannis era sdegnato. Le sue truppe, al comando del temibile Ras Alula, tentarono due volte di prendere il forte, ma ci fu poco da fare contro il meglio equipaggiato esercito italiano. I soldati impavidi ma poco armati del Ras perirono a centinaia, mentre gli italiani quasi non ebbero perdite. La notte del 25 gennaio 1887 gli etiopi sopravvissuti si ritirarono e, dopo aver accudito i feriti e riposato qualche ora, si mossero verso la località di Dogali. Tuttavia, alle prime luci dell’alba, l’esausto Ras e i suoi uomini scoprirono con grande meraviglia che c’erano truppe nemiche nelle vicinanze. Salendo su una collina per controllare, il Ras Alula restò esterrefatto nel vedere avvicinarsi una colonna composta da non meno di cinquecentoventi militari italiani e cinquanta ascari reclutati dalla regione costiera, che si preparavano al combattimento, con le mitragliatrici in posizione. Preso alla sprovvista e senza mitragliatrici, l’astuto Ras posizionò strategicamente i propri uomini a settecento metri di distanza dagli invasori, e lo fece giusto in tempo, perché nel giro di pochi minuti i nemici aprirono il fuoco: era iniziata una nuova battaglia.
Per fortuna degli etiopi il comandante italiano, come molti degli ufficiali inviati da Roma, non era un grande stratega. Aveva guidato i propri uomini su un terreno scoperto e attaccabile e, nonostante il vantaggio delle mitragliatrici, venne sconfitto. Sfruttando la topografia, l’esercito etiope riuscì a ribaltare le sorti del conflitto e ad avere la meglio sul più piccolo ma meglio armato contingente italiano. Restando il più possibile nascosti e vanificando il fuoco delle mitragliatrici, gli etiopi, affaticati ma non privi di energie, circondarono pian piano gli invasori. Dopo due ore di combattimento, gli italiani si resero conto che i loro colpi erano inefficaci, che rischiavano di rimanere a corto di munizioni, che erano in svantaggio numerico e che la situazione si era fatta molto delicata. Tentarono la ritirata, ma era ormai troppo tardi, perché gli etiopi scelsero proprio quel momento per uno dei loro tradizionali attacchi «combatti o muori». Tutto si svolse in un quarto d’ora e, alla fine, solo pochi italiani sopravvissero. Sebbene l’Italia ami definirlo il «massacro di Dogali», la realtà è che, in un gesto di straordinaria umanità, gli etiopi sistemarono i feriti all’ombra, li dissetarono e ne permisero il recupero da parte dei compatrioti arrivati da Sahati il giorno successivo.
A quel punto trapelò la notizia che la colonna italiana era stata inviata dalla costa a supporto delle truppe a Sahati e la sua distruzione scosse l’Italia intera. Ma con quell’atteggiamento che sarebbe poi diventato caratteristico dopo ogni sconfitta subita in Etiopia, il governo di Roma mascherò le proprie intenzioni aggressive e la propria incompetenza militare assumendo la posa dell’innocenza ferita. Incredibilmente gli italiani, che sembravano particolarmente avvezzi a creare miti, riuscirono a farsi passare in Europa come la parte lesa. Le centinaia di valorosi patrioti etiopi sterminati a Sahati non comparivano nei loro racconti; anzi, furono gli stessi invasori, che non avevano alcun diritto di trovarsi lì, a passare per eroi. Secondo il nuovo mito romano gli etiopi erano i «traditori», e nonostante fosse stato il Ras Alula a essere stato colto alla sprovvista dalla colonna armata che marciava verso il suo territorio, l’intera storia fu ribaltata e spacciata come una «vigliacca imboscata» da parte degli etiopi. Nessuno volle riconoscere l’onorevole atto dei soldati etiopi nei confronti dei nemici feriti; anzi, secondo i mezzi di informazione nazionale, gli italiani avevano dovuto vedersela con «ventimila cannibali selvaggi».1 Non solo: invece di essere dissuaso dal proposito iniziale, il governo di Roma presentò la propria sconfitta a Dogali come motivo per estendere ulteriormente le incursioni in Etiopia e pretendere perfino un risarcimento. Quel che è certo è che, avendo presentato quella débâcle come un «atto di eroismo», si riuscì a suscitare una tale ondata di patriottismo a Roma, che il sostegno al governo ne uscì rafforzato e l’opposizione popolare all’espansione oltremare venne largamente messa a tacere.2
Yohannis non fu intimidito né in alcun modo scosso dalla reazione europea. Quando la Gran Bretagna si unì al coro di condanna per la «vigliacca imboscata» di Alula, l’imperatore trattò l’accusa con lo sdegno che meritava. Disse alla regina Vittoria: «Il Ras Alula andò a chiedere: “Che cosa avete a che fare con la nazione di un altro popolo?” e disse all’emissario di lei: “Il Ras Alula non ha sbagliato: gli italiani sono arrivati nella provincia da lui governata e li ha combattuti, proprio come voi combattereste gli abissini se arrivassero in Inghilterra”». Ma la logica di Yohannis non riuscì a commuovere il governo britannico che, per ragioni politiche, vedeva di buon occhio un insediamento italiano nel Corno d’Africa. La polvere non si era ancora posata a Dogali che gli italiani si ristabilirono a Sahati con il benestare di Londra.
Alula disse ai britannici che gli italiani avrebbero occupato Sahati solo quando lui fosse diventato governatore di Roma, ed era certamente a favore di una resa dei conti. Tuttavia, mentre l’imperatore si stava apparentemente preparando a seguire il suo consiglio, arrivò la notizia che i mahdisti – i quali consideravano Yohannis un nemico fin dall’intervento etiope nel Sudan per conto della Gran Bretagna – erano penetrati nell’Etiopia occidentale e avevano saccheggiato l’ex capitale Gondar. Distratto dalla sconvolgente notizia, l’imperatore rivolse la propria attenzione all’incursione mahdista. L’esercito riuscì a respingere il nemico, ma il sovrano morì tragicamente nella cittadina di confine di Metemma nel marzo 1889.
Nel frattempo l’Italia, nella spasmodica ricerca di un alleato contro l’imperatore Yohannis e nell’intenzione di portare un docile amico degli italiani sul trono imperiale etiope, strinse un patto di amicizia con re Menelik, allora sovrano del regno dell’altopiano etiope dello Scioà (r. 1865-1889). In seguito alla morte di Yohannis, Menelik gli successe come «re dei re» ovvero imperatore d’Etiopia. Nel 1889, mosso dallo stesso desiderio del suo predecessore di stringere rapporti commerciali e ottenere i prodotti della tecnologia europea (principalmente armi), il nuovo imperatore siglò un accordo con l’Italia, noto come trattato di Uccialli, nel quale veniva riconosciuta la sovranità di Menelik e il suo diritto di importare armi attraverso il territorio italiano, vale a dire la città di Massaua. Ma il provvedimento più significativo fu l’estensione del governatorato italiano oltre la striscia costiera fino a includere una parte degli altipiani, creando così la prima colonia italiana d’oltremare e privando l’Etiopia dell’accesso al mare: una mossa che le future generazioni di etiopi avrebbero pagato a caro prezzo. Con la proclamazione ufficiale nel gennaio 1890, la colonia prese il nome di Eritrea.
Il trattato concesse all’Etiopia anche il diritto di comunicare con altre potenze straniere attraverso il governo italiano. Tuttavia, in un primo passo verso l’egemonia sull’impero etiope, ma apparentemente all’insaputa di Menelik, nella versione del trattato in lingua italiana che circolò tra i governi europei, questo diritto divenne obbligo, trasformando quindi l’Etiopia a tutti gli effetti in un protettorato italiano. Sostenendo di essere stato ingannato, Menelik, che si era ormai stabilito nella nuova capitale Addis Abeba, dichiarò che il trattato non era da considerarsi valido. Ma ancora più allarmante fu la notizia che gli italiani, il cui governo presieduto da Francesco Crispi si era fatto sempre più autoritario e agguerrito, avevano oltrepassato i confini dell’Eritrea e occupato l’Etiopia settentrionale, compresa buona parte della provincia del Tigrai. Nel 1895, esasperato, l’imperatore si rese conto di non avere altra scelta che respingere l’avanzata italiana. Dopo aver dichiarato la mobilitazione generale, Menelik lasciò Addis Abeba e si mise in marcia verso nord in un’estesa campagna attraverso più di ottocento chilometri di territorio, raccogliendo combattenti da ogni parte dell’impero.
Il primo scontro fu con il maggiore Toselli che, a dimostrazione della straordinaria incompetenza dei suoi superiori, aveva ricevuto istruzioni di posizionare solo duemila soldati (ormai perlopiù ascari eritrei) sul monte Amba Alagi nel Tigrai, per affrontare il Ras Mekonnin, cugino di Menelik, e il suo esercito di quarantamila uomini. Il Ras gentiluomo, che non molto tempo prima aveva ricevuto una regale accoglienza durante la sua visita di Stato in Italia, cercò di evitare lo scontro, pregando Toselli di ritirarsi e di lasciare l’Etiopia. Nella tipica confusione degli italiani quando si trattava di comunicazioni militari, si dice che l’ordine di ripiegamento inviato a Toselli fosse andato perduto; qu...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione del professor Richard Pankhurst
  4. Introduzione
  5. 1. Antefatto
  6. 2. La miccia
  7. 3. Un’ora di devastazione
  8. 4. Un pomeriggio di morte
  9. 5. Carta bianca
  10. 6. Il secondo giorno
  11. 7. Il terzo giorno
  12. 8. Dopo la strage
  13. 9. Giustizia romana
  14. 10. La resa dei conti
  15. 11. L’insabbiamento
  16. 12. Riflessioni
  17. Epilogo
  18. Ringraziamenti
  19. Appendice I
  20. Appendice II
  21. Appendice III
  22. Appendice IV
  23. Appendice V
  24. Glossario e note esplicative
  25. Note
  26. Bibliografia
  27. Indice delle mappe
  28. Indice delle tavole
  29. Crediti fotografici
  30. Indice