Atlante delle crisi mondiali
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Atlante delle crisi mondiali

  1. 288 pagine
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Atlante delle crisi mondiali

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La guerra siriana, la divisione tra sunniti e sciiti e il terrorismo alimentato dall'Islam radicale, l'annosa questione di Israele e della Palestina, la minaccia nucleare della Corea del Nord e la lezione della Baia dei Porci, i rapporti tra Stati Uniti e Cina, la nuova presidenza americana, il difficile cammino dell'Europa verso l'integrazione, i nuovi populismi e le migrazioni innescate dalle guerre e dalle rivoluzioni in Medio Oriente e Nordafrica, l'attivismo imperiale della Russia di Putin: sono le coordinate principali della complessa "mappa del disordine mondiale" che Sergio Romano disegna nelle pagine di questo libro. "Ogni crisi internazionale ha la sua logica e la sua razionalità o, se preferite, la sua assurdità" scrive in apertura alla prefazione, e, con l'acutezza di osservazione a cui ci ha abituato nei suoi articoli, saggi e libri, ci guida alla scoperta dei "fattori che contribuiscono a rendere la società internazionale sempre più litigiosa e insicura". È una lettura del presente - alla luce del passato e aperta sul futuro - non condizionata dalle ideologie, che permette di interpretare la Storia al di là dei luoghi comuni e di ogni vulgata, e ricca dell'esperienza diretta di chi ha vissuto in prima persona, da diplomatico, molti importanti eventi internazionali. Non a caso, l'Atlante delle crisi mondiali si conclude con una pagina di ricordi, in cui Romano spiega com'è diventato un "patriota europeo". La sua è un'Europa che, come aveva indicato de Gaulle, non deve includere per forza gli Stati Uniti e la Gran Bretagna: "La politica di coloro che hanno veramente a cuore l'unità dell'Europa dovrebbe essere simile a quella dei Paesi che negli anni della Guerra fredda scelsero per se stessi il 'non impegno'. Potremo allora fare della Russia il nostro principale partner economico e parlare di una Europa 'dall'Atlantico agli Urali'".

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788858692660

II

Il «grande gioco» mediorientale

Immagine 1 Il «grande gioco» mediorientale
Le principali rivolte arabo-musulmane. Tutte le rivolte hanno le stesse cause: il diffuso malcontento per una classe dirigente corrotta, il disagio economico di alcuni ceti sociali, la crescita di un islamismo radicale ostile alle istituzioni laiche modellate su quelle dell’Europa. L’esito delle rivolte dipende dalla maggiore o minore presenza di forze politiche o militari (come nel caso dell’Egitto) capaci di restaurare l’ordine e assicurare la continuità dello Stato.

Il Medio Oriente

La crisi del Medio Oriente ha radici lontane. È anzitutto la crisi degli Stati nati dalla spartizione dell’Impero ottomano fra le maggiori potenze vincitrici della Grande guerra. In primis fallì la speranza che Francia e Gran Bretagna potessero accompagnare i loro «pupilli» verso nuove forme statuali, ispirate da criteri occidentali ma rispettose delle tradizioni locali. Per Parigi e Londra l’obiettivo inconfessato era di lasciare agli indigeni una certa autonomia nelle questioni amministrative e di riservare alla casa madre il governo politico e militare del territorio.
Questo condominio ineguale e zoppicante durò sino alla Seconda guerra mondiale, quando il declino delle grandi potenze e la nascita di nuovi nazionalismi nell’Africa del Nord e nel Levante costrinsero i grandi Stati europei, anche se in momenti diversi, ad abbandonare il campo. Dopo il fallimento della spedizione anglo-francese a Suez e la conclusione degli accordi di Évian per l’indipendenza dell’Algeria, i vecchi protettorati e le ex colonie erano ormai liberi di governare se stessi. Quasi tutti credettero di poter modernizzare il loro Paese con principi e istituzioni ereditati dalle potenze occidentali o ispirati dalle esperienze più o meno marxiste delle democrazie popolari. Ma fallirono per almeno due ragioni: una diffusa corruzione della classe dirigente e le sconfitte subite quando cercarono di distruggere lo Stato ebraico. Questa combinazione di malgoverno e di nazionalismo frustrato ebbe l’effetto di risvegliare i sentimenti religiosi della società. Quanto più i governi laici del mondo arabo si dimostravano incapaci di dare soddisfazione ai bisogni e alle ambizioni delle masse, tanto più cresceva l’influenza della Fratellanza musulmana e del clero islamico. Quanto più i manuali occidentali sembravano inadatti alla costruzione di uno Stato moderno, tanto più il Corano diventava il consolante rimedio di tutti i mali.
Per far fronte a problemi che non riuscivano a risolvere, i regimi, quando non avevano un monarca, divennero autoritari e affidarono la loro sorte a una personalità carismatica, quasi sempre proveniente dai ranghi delle forze armate: Nasser, Sadat e Mubarak in Egitto, Hafez al-Assad in Siria, Gheddafi in Libia, i colonnelli del Fronte di liberazione nazionale in Algeria, Saddam Hussein in Iraq. Paradossalmente, il Paese più incline alla democrazia (il Libano) precipitò in una guerra civile che durò dal 1975 al 1990.

L’avventura afghana dell’Urss e la reazione americana

Non tutti i mali del Medio Oriente ebbero un’origine locale. Nel dicembre del 1979 l’Unione Sovietica decise di intervenire militarmente in un Paese musulmano del subcontinente indiano e dovette misurarsi con una rivolta di mujaheddin, vista con grande simpatia dagli Stati Uniti e dal Pakistan. Nel 2007, ventotto anni dopo l’invasione, apparve nelle sale cinematografiche americane un film di Mike Nichols intitolato Charlie Wilson’s War, con Tom Hanks, Julia Roberts e Philip Seymour Hoffman. La pellicola racconta la storia vera, almeno a grandi linee, del congressman Charles Nesbitt Wilson, il deputato del Texas che nella prima metà degli anni Ottanta riesce a modificare la politica afghana del Congresso e della presidenza Reagan. Sostiene che gli aiuti forniti ai mujaheddin sono insufficienti e che la guerra contro l’Armata Rossa può essere vinta soltanto se il Pakistan disporrà dei migliori aerei americani e soprattutto se le forze della resistenza afghana verranno dotate di Stinger, micidiali missili terraaria a ricerca di calore (il terribile «fucile» con cui un solo guerrigliero può abbattere un elicottero). Ma non basta superare le resistenze degli apparati politico-militari americani. Occorre neutralizzare la possibile opposizione o addirittura conquistare la collaborazione di alcuni Paesi della regione mediorientale, dal Pakistan all’Egitto, da Israele all’Arabia Saudita. La storia e le avventure di Charlie Wilson sono soltanto un film, come è ovvio, con tutte le inevitabili licenze poetiche di un’opera dell’ingegno. Ma i fatti narrati, nella sostanza, sono realmente accaduti. Ciò che più sorprende, quindi, è il tono ottimistico e compiaciuto con cui il regista ha raccontato la storia della grande coalizione che si formò nella prima metà degli anni Ottanta per cacciare l’Urss dall’Afghanistan. A diciotto anni dal ritiro dell’Armata Rossa, sarebbe stato lecito attendersi dal film qualche dubbio e qualche interrogativo. Proviamo a chiederci quali e quante cose siano «andate storte» dal 1979 a oggi.
Quando il Politburo dell’Unione Sovietica decise l’invio di un contingente militare in Afghanistan, Leonid Brežnev e il suo ministro degli Esteri Andrej Gromyko avevano due buone ragioni per ritenere che l’operazione sarebbe stata relativamente indolore. In primo luogo, l’Afghanistan era già dal 1977 una «repubblica democratica», ma era mal governato da due fazioni – la prima filosovietica, la seconda filocinese – che si disputavano il potere. In secondo luogo, l’Iran era nel mezzo di una rivoluzione e del tutto incapace, se pur lo avesse desiderato, di recitare la sua parte tradizionale di sentinella americana nella regione. In quelle condizioni, i sovietici ritennero che una passeggiata militare fino a Kabul avrebbe eliminato la fazione filocinese e consolidato il potere di quella filomoscovita di Babrak Karmal. Non sappiamo se l’Urss avesse in quel momento un più ambizioso piano strategico. Ma non le sarebbe stato impossibile, in una fase successiva, estendere la sua influenza al Belucistan, una regione che appartiene formalmente al Pakistan ma che era stata lungamente teatro di scontri fra l’Afghanistan e l’Impero britannico dell’India. Secondo una tesi ricordata da Valeria Fiorani Piacentini in un suo libro dal titolo Il Golfo nel XXI secolo. Le nuove logiche della conflittualità (il Mulino, 2002), le forze sovietiche avrebbero potuto allora ricongiungersi «con quelle già presenti e operanti nelle basi yemenite, a Failaka (un’isola del Golfo Persico appartenente al Kuwait) e nel Corno d’Africa, puntando al Sudan». È certamente possibile che ai sovietici, come accade in questi casi, l’appetito sarebbe venuto mangiando. Ma è comunque difficile che l’Urss potesse disinteressarsi di un Paese vicino, parente prossimo delle sue repubbliche islamiche, dove una fazione filosovietica rischiava di essere eliminata da una fazione filocinese. Ed è altrettanto difficile pensare che potesse voltare le spalle a un satellite dove nei due decenni precedenti aveva investito aiuti economici per 1,26 miliardi di dollari (contro i 533 milioni stanziati dagli Stati Uniti). Per molte ragioni l’intervento sovietico non era privo di una certa razionalità. Ma si scontrò sin dagli inizi del 1980 con una rivolta popolare che ebbe, nella prima fase, una ispirazione in prevalenza nazionalista.
Gli Stati Uniti, comprensibilmente, preferirono pensare al peggio e agire come se l’occupazione sovietica dell’Afghanistan fosse destinata ad alterare gli equilibri dell’intera regione. Dopo qualche gesto simbolico (il rifiuto di partecipare alle Olimpiadi di Mosca del 1980), l’America scoprì rapidamente che l’operazione sovietica preoccupava altri Paesi: il Pakistan, la Cina, l’Iran, l’Arabia Saudita. Il Pakistan voleva estendere la sua influenza nella regione e pensava all’Afghanistan come a una sorta di Stato satellite. La Cina e l’Iran non volevano che l’Urss controllasse l’Asia sudoccidentale. L’Arabia ritenne suo dovere difendere un Paese musulmano. Le motivazioni strategiche cominciarono a intrecciarsi con quelle religiose e i servizi di intelligence pakistani non esitarono a soffiare sul fuoco dell’islamismo radicale.
In questa coalition of the willing, composta da Stati che erano su altre questioni in completo disaccordo, ciascuno fece la sua parte. Gli Stati Uniti e la Cina fornirono armi. Il Pakistan e l’Iran, divenuto ormai Repubblica Islamica, accolsero i profughi e offrirono alla resistenza un prezioso retroterra strategico. Il Pakistan, in particolare, dette ordine alle sue ambasciate di facilitare il reclutamento dei mujaheddin che cominciavano ad accorrere sul campo di battaglia. L’Arabia Saudita fu il tesoriere e il «cappellano militare» dell’operazione. Fornì denaro ai combattenti e finanziò centinaia di scuole coraniche, destinate a formare uno stuolo di talebani (studenti di Dio). Con quei finanziamenti il regno dei Saud pagò all’Islam il debito morale che aveva contratto commerciando e trescando con la grande potenza «satanica» americana. E dette un decisivo contributo alla nascita di una «legione araba» che avrebbe combattuto, qualche anno dopo, nella guerra civile algerina, nella guerra bosniaca, in Cecenia, in Iraq e in Somalia. In un libro sui talebani, il giornalista pakistano Ahmed Rashid riferì molti anni dopo una frase che gli era stata detta dal capo dell’intelligence del suo Paese, il generale Hamid Gul: «I comunisti hanno le loro brigate internazionali, l’Occidente ha la Nato, perché i musulmani non dovrebbero unirsi per formare un fronte comune?».
Il pegno che l’Arabia Saudita offrì alla guerra dell’Islam contro l’«ateismo sovietico» fu un giovane di origine yemenita, diciassettesimo in una nidiata di cinquantasette ragazzi e ragazze concepiti da un imprenditore edile che si era arricchito ristrutturando le moschee della Mecca e di Medina. Osama, figlio di Mohammed bin Laden, si stabilì in Pakistan alla frontiera con l’Afghanistan, prese parte a qualche azione militare, diventò il furiere della legione e quindi, per molti aspetti, il perno dell’operazione montata, secondo Mike Nichols, dalla fervida immaginazione politica di Charlie Wilson. Si dice che alla fine del conflitto, quando i sovietici decisero di ritirarsi dall’Afghanistan, Osama abbia portato con sé un dischetto in cui erano contenuti i nomi di tutti coloro che avevano partecipato al jihad contro l’Urss: una «base» d’informazioni (in arabo «al-Qaida») che avrebbe fatto parlare di sé negli anni seguenti.

Il pericoloso dopoguerra afghano

L’Urss abbandonò l’Afghanistan quando Gorbačëv decise che la guerra presentava un triplice inconveniente: stava svuotando le casse dello Stato, era mal tollerata dalla società russa e intralciava il nuovo disgelo di cui il segretario generale del Pcus aveva bisogno per raggiungere gli obiettivi della perestrojka. Questa ragionevole decisione strategica, tuttavia, non produsse gli effetti desiderati.
Tre anni dopo, nel dicembre del 1991, Gorbačv perdette il potere e l’Urss cessò di esistere. L’Afghanistan, nel frattempo, era uscito dal radar degli Stati Uniti e, più in generale, dell’Occidente. Per un intero decennio ci occupammo prevalentemente della Somalia e di altre guerre africane, delle guerre jugoslave, del mercato unico e della moneta unica, della Russia di Boris El’cin, della guerra cecena e della questione palestinese.
Dall’Afghanistan, comunque, giungevano di tanto in tanto segnali confusi. I vincitori dell’Unione Sovietica si stavano combattendo per il controllo del Paese: un déjà vu a cui Washington, durante la presidenza di Bill Clinton, prestò per molto tempo un’attenzione distratta. Dopo un po’, tuttavia, scoprimmo che fra i contendenti vi era un gruppo nuovo, alquanto diverso dalle vecchie formazioni tribali della società afghana. Erano i ragazzini degli anni Ottanta, cresciuti nelle madrasse che il denaro saudita aveva creato in territorio pakistano, e passati senza alcun intervallo dalle scuole coraniche al campo di battaglia. Nel 1996 apprendemmo che questi «talebani» si erano impadroniti di Kabul, avevano rovesciato il governo di Burhanuddin Rabbani e avevano esteso il loro potere al 90 per cento del Paese. In pochi mesi i ragazzi delle madrasse crearono un regime teocratico di fronte al quale l’Iran degli ayatollah faceva la figura dello Stato laico: una società di uomini barbuti, di donne incappucciate, di esecuzioni capitali affidate alle mani vendicatrici dei parenti delle vittime e di feroci iconoclasti che non esitarono a distruggere, qualche anno dopo, i giganteschi Buddha scolpiti nella roccia di Bamiyan.
Fu questo il momento in cui cominciammo a sentir parlare sempre più frequentemente di Osama bin Laden. Aveva denunciato l’alleanza del suo Paese con gli Stati Uniti dopo l’invasione irachena del Kuwait. Aveva definito «blasfema» l’installazione di due basi americane nel regno dei Saud. Era stato privato della cittadinanza saudita e costretto a cercare rifugio in Sudan. Nell’agosto del 1996 dichiarò guerra agli Stati Uniti con una lunghissima fatwa, pubblicata da un quotidiano arabo di Londra, in cui i «fratelli musulmani del mondo» venivano esortati a «cacciare il nemico umiliato e sconfitto dai luoghi santi dell’Islam».
Vi erano già stati prima d’allora due clamorosi attentati islamisti: quello del febbraio 1993 contro le Torri Gemelle di New York, e quello del giugno 1996 contro una installazione militare Usa ad Al-Khobar, in Arabia Saudita, che il governo di Riyad, imbarazzato dalla presenza di una quinta colonna islamista nel proprio territorio, cercò di attribuire ai servizi iraniani. Poi, nell’agosto del 1998, vi furono altri due sanguinosi attentati contro le ambasciate americane in Kenya e Tanzania.
Fu più facile, da quel momento, collegare i puntini neri sulla carta geografica e attribuire al disegno il nome del suo autore. Alla dichiarazione di guerra di Osama gli americani reagirono con un atto di guerra: alcuni missili contro una innocente fabbrica di prodotti farmaceutici in Sudan e sessantasei Cruise contro alcuni campi di al-Qaida a sud-est di Kabul. La risposta fu un clamoroso attentato al cuore dell’America: New York e Washington.

La guerra di Bin Laden contro gli Usa e la fine di un mito americano

L’unico assalto al potere mondiale che possa, sia pure lontanamente, confrontarsi con quanto è accaduto l’11 settembre 2001 a New York e a Washington è l’ondata di attentati che si abbatté sulle teste coronate e sui capi di Stato repubblicani tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Non vi fu una strategia unitaria del terrorismo anarchico. Ma vi fu, tra gli anarchici europei e americani, la speranza che l’eliminazione fisica dei re e dei presidenti avrebbe liberato il mondo dal dominio delle classi dirigenti. Nel 2001 la strategia fu alquanto diversa. Gli accoliti di Osama bin Laden (se è lui il grande regista degli attacchi americani) non cercavano di uccidere George W. Bush. Sapevano che la morte del presidente degli Stati Uniti avrebbe suscitato emozione e scandalo, ma avrebbe avuto, tutto sommato, come nel caso dell’assassinio di Kennedy, ricadute modeste sul funzionamento della macchina politica e amministrativa degli Stati Uniti. Anziché colpire il vertice del potere, hanno colpito i luoghi simbolici di due grandi città americane. Anziché terrorizzare gli individui, hanno deciso di terrorizzare le masse. Sapevano che il crollo dei grattacieli gemelli e l’incendio del Pentagono non sarebbero bastati, da soli, a distruggere il Gulliver americano. Ma si sono proposti, con questi attentati, di distruggere il mito che ha sostenuto e puntellato per più di duecento anni la politica internazionale degli Stati Uniti. I danni materiali e il conto delle vittime erano, in ultima analisi, meno importanti del danno politico e morale: la fine del mito dell’invulnerabilità americana.
L’invulnerabilità è stata per molto tempo la certezza tacita e rassicurante di ogni cittadino degli Stati Uniti. Quando abbandonò la presidenza, alla fine del suo mandato, George Washington raccomandò ai propri connazionali di non lasciarsi imprigionare dai lacci della politica estera europea. Da allora l’America sembra avere più volte disobbedito al testamento politico del suo primo leader. Ha combattuto due guerre mondiali, ha perduto la guerra del Vietnam, ha preso parte a molti conflitti minori e ha permesso che i suoi soldati fossero impegnati in dozzine di operazioni militari. Ma ogni coinvolgimento negli affari del mondo era mitigato, agli occhi dell’opinione pubblica, dalla convinzione che il Paese godesse di una protezione naturale: due grandi oceani, le dimensioni continentali, la rassicurante cuginanza del Canada e la cronica debolezza dei suoi vicini a sud del Rio Grande.
La Guerra fredda ha modificato in parte questa convinzione. Il regime comunista a Cuba, le basi che l’Unione Sovietica cercò d’installare nei Caraibi, i focolai rivoluzionari in America Latina, i missili intercontinentali puntati contro le grandi città degli Stati Uniti e la possibilità di una guerra nucleare hanno dato a molti americani la sensazione che il Paese corresse il rischio di essere fisicamente coinvolto in un conflitto. Ma il nemico era visibile, tangibile e, a sua volta, terribilmente vulnerabile. Gli americani sapevano, in altre parole, che il potere distruttivo del loro arsenale nucleare avrebbe trattenuto i sovietici sull’orlo del precipizio, che l’equilibrio del terrore era una garanzia di pace. L’11 settembre 2001 gli americani hanno appreso che il nemico può essere invisibile e intangibile. Sapevano che Osama bin Laden era in Afghanistan e conoscevano probabilmente la dislocazione di alcune centrali terroristiche in Medio Oriente. Ma non potevano colpire all’impazzata. Potevano cercare di infiltrare i loro uomini e ricorrere, per la raccolta delle informazioni, al più sofisticato arsenale elettronico esistente al mondo. Ma non potevano anticipare tutte le mosse dell’avversario e parare i colpi di un nemico che era in grado di nascondersi ovunque.
Ancora una volta l’arte anticipa la realtà e i fatti si limitano a copiare l’immaginazione degli artisti. Chi ha visto il film del 1998 Attacco al potere (con Bruce Willis e Denzel Washington) si accorge improvvisamente di avere assistito, con molti mesi di anticipo, a ciò che sarebbe accaduto l’11 settembre 2001.
Se la principale vittima degli attacchi era il sentimento di invulnerabilità americano, gli attentati erano destinati ad avere ricadute di lunga durata. Bush dovette chiedersi anzitutto quale fosse, in queste circostanze, l’effettiva rilevanza dello scudo antimissilistico con cui intendeva difendere l’America dagli attacchi degli «Stati canaglia». La minaccia non proveniva soltanto dalla Corea del Nord e da altri potenziali nemici, contro i quali l’America poteva sempre, se necessario, scatenare una violenta rappresaglia. Proveniva da un esercito di ombre e fantasmi.
L’altro fattore di cui i presidenti americani, da allora, devono tenere conto è la reazione dell’opinione pubblica. È difficile immaginare che gli Stati Uniti cedano al ricatto di un terrorista e accettino di modificare la propria linea. Ed è ragionevole supporre che l’opinione pubblica reagirà agli attentati con un soprassalto di orgoglio nazionale. Ma esiste un’America in cui la diffidenza verso gli affari mondiali e l’isolazionismo hanno messo profonde radici. L’elezione di Donald Trump nel 2016 ne è la prova.

Gli Stati Uniti prigionieri dell’Afghanistan

Dieci anni dopo il ritiro delle truppe sovietiche, gli Stati Uniti furono costretti a occuparsi di nuovo dell’Afghanistan. Poche settimane dopo gli attentati dell’11 settembre, quando il regime talebano di Kabul rifiutò di espellere Osama bin Laden e le sue milizie, la nuova presidenza americana (George W. Bush era stato eletto nel novembre dell’anno precedente) decise l’invasione del Paese. Ebbe il sostegno della Nato e poté fare un esplicito riferimento all’articolo 5 del Patto Atlantico (un attacco armato contro uno dei membri è un attacco contro tutti), ma preferì servirsi per qualche tempo di alcuni «cugini» di lingua inglese e soprattutto dei signori feudali che i talebani non erano riusciti a piegare. Terminate le operazioni militari, gli Stati Uniti lasciarono nel Paese circa ventimila uomini per la ricerca di Osama e le operazioni di rastrellamento, ma fu subito chiaro che la guerra afghana era stata per Washington soltanto la prova generale di quella che la nuova amministrazione voleva combattere in Iraq e, forse, in Iran.
Quando George Soros, nel corso di un dibattito con Donald Rumsfeld, osservò che gli Stati Uniti non stavano facendo nulla per la stabilità politica e lo sviluppo economico del Paese, il segretario della Difesa rispose sprezzantemente che si sarebbero limitati a addestrare un esercito afghano. Era ancora la fase della presidenza Bush in cui le parole nat...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Atlante delle crisi mondiali
  4. Prefazione
  5. I – Tramonto di un mondo bipolare
  6. II – Il «grande gioco» mediorientale
  7. III – Le «tigri» asiatiche
  8. IV – Le due Americhe
  9. V – L’Europa dentro e fuori l’Unione
  10. Epilogo
  11. Indice