Dio è un poeta
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Dio è un poeta

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"La bellezza è una delle tre virtù fondamentali: verità, bontà e bellezza [...]. Si parla troppo della verità, di difendere la verità: dove trovare Dio nella verità? È difficile… Trovare Dio nella bontà: ah, quando si parla di bontà, è più facile. Di trovare Dio nella bellezza invece si parla poco, della strada della poesia, cioè della facoltà creatrice di Dio. Dio è un poeta che fa le cose armoniosamente." Nel corso di un intero anno, Dominique Wolton è stato ricevuto dodici volte da Papa Francesco. Il risultato di questi incontri fertili e calorosi è un'intervista in cui il Papa affronta liberamente i temi cruciali del nostro tempo e del suo pontificato: la pace e la guerra, la politica con la P maiuscola ("una delle più alte forme di carità"), la globalizzazione e la diversità culturale, il fondamentalismo e la "sana laicità", le disuguaglianze economiche e la mancanza di lavoro e prospettive per i giovani, la "follia" del dominio assoluto del "dio denaro" e la necessità di un'economia "concreta" incentrata sul benessere delle persone, l'Europa e i migranti, la tutela dell'ambiente, il dialogo fra i cristiani, fra le religioni, fra atei e credenti... È un'intervista in cui non c'è spazio per il conformismo o gli stereotipi: le parole chiave del pontificato di Francesco -"gioia", "tenerezza", "vicinanza", "preghiera", "pace", "fede", "croce", "umiltà", ma anche "umorismo" - si rivolgono direttamente alla nostra umanità per illuminare i sentieri della nostra vita.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2018
ISBN
9788858692721

1

Pace e guerra

Febbraio 2016. Primo colloquio. È la prima volta che incontro Papa Francesco. Insieme a padre Louis de Romanet, traduttore e amico, entro nella modesta Residenza di Santa Marta, proprio accanto alla basilica di San Pietro.1 Ci fanno aspettare in una saletta piuttosto fredda. Silenzio. Un pizzico d’ansia. Poi di colpo arriva lui, con i suoi modi calorosi e quello sguardo dolce e profondo. Facciamo conoscenza. Comincio a intervistarlo. A poco a poco tutto si fa più naturale, diretto. E succede qualcosa. Anche se le risposte del Papa sono serie, stabiliamo un dialogo punteggiato di risate frequenti, che ci accompagneranno per tutti e dodici gli incontri. L’umorismo, la complicità, capirsi al volo e parlare con gli sguardi e i gesti, senza bisogno di parole. Nessun limite di tempo. Dopo un’ora e mezza chiede di smettere perché deve andare dal suo confessore. Io gli rispondo che «ne ha un gran bisogno». Scoppiamo a ridere. Concordiamo una nuova data. Il Papa apre la porta ed esce con la stessa semplicità con cui era entrato. Guardo allontanarsi la sua figura vestita di bianco e provo un’intensa emozione. Fragilità evidente e forza immensa dei simboli. Abbiamo affrontato temi importanti: la pace e la guerra, il ruolo della Chiesa nella globalizzazione e nella Storia.
* * *
Papa Francesco: À vous la parole.
Dominique Wolton: A Lesbo, nel gennaio 2016, lei ha detto una cosa bella e rara: «Siamo tutti migranti, e siamo tutti rifugiati». In un momento in cui le potenze europee e occidentali chiudono le porte, cosa dire, al di là di questa frase magnifica? Cosa fare?
C’è una frase che ho detto, e che poi dei piccoli migranti hanno messo sulle magliette: «Non sono un pericolo, sono in pericolo». La nostra teologia è una teologia di migranti. Perché lo siamo tutti fin dalla chiamata di Abramo, con tutte le migrazioni del popolo di Israele; e poi Gesù stesso è stato un rifugiato, un migrante. Ma siamo migranti anche da un punto di vista esistenziale, nell’atto di fede. La dignità umana implica necessariamente l’«essere in cammino». Un uomo o una donna che non sono in cammino sono mummie. Pezzi da museo. Così una persona non è viva.
Non si tratta soltanto di «essere» in cammino, ma anche di «fare» un cammino. Già, perché noi facciamo un cammino. Penso a quella poesia spagnola che dice: «Il cammino si fa camminando». E camminare significa comunicare con gli altri. Quando camminiamo facciamo degli incontri. Anzi, forse camminare è proprio alla base della cultura dell’incontro. Gli uomini si incontrano e comunicano: certe volte nel bene, come nell’amicizia, altre nel male, come nella guerra, che è un caso estremo. Una grande amicizia è una forma di comunicazione, ma anche la guerra lo è. Una comunicazione fatta di tutta l’aggressività di cui l’uomo è capace. Quando dico l’«uomo» parlo dell’uomo e della donna. Se un essere umano decide di smettere di camminare, si vota al fallimento. Fallisce nella sua vocazione umana. Andare avanti, essere sempre in cammino vuol dire non smettere mai di comunicare. Si può sbagliare strada, si può cadere… Al pari di Teseo nel mito del filo di Arianna, ci si può ritrovare in un labirinto… Tant’è, l’importante è camminare. Lungo il cammino possiamo sbagliarci, ma almeno andiamo avanti. Comunichiamo. A volte facciamo fatica, ma continuiamo a farlo malgrado tutto. Ecco perché non dobbiamo respingere coloro che sono in cammino. Sarebbe come rifiutarsi di comunicare.
Allora cosa mi dice dei migranti che vengono espulsi dall’Europa?
Se gli europei vogliono restare tra di loro, che facciano dei figli! Credo che il governo francese abbia messo in atto veri e propri piani di aiuto destinati alle famiglie numerose. Gli altri Paesi invece non l’hanno fatto: incoraggiano di più il fatto di non avere figli. Ciascuno di loro con le proprie ragioni e i propri metodi.
Nella primavera del 2016 l’Unione Europea ha firmato un accordo scellerato, che prevede la chiusura della frontiera tra l’Europa e la Turchia.2
È proprio per questo che insisto sul tema dell’uomo in cammino. L’uomo è fondamentalmente un essere comunicante. Un uomo muto, che non è in grado di comunicare, è qualcuno a cui manca il «passo», la giusta andatura…
A un anno e mezzo dalla frase che ha pronunciato a Lesbo, la situazione è peggiorata. Sono stati in molti a esprimere ammirazione per il suo intervento, ma poi tutto è finito lì. Ha qualcosa da dire in proposito?
Il problema comincia nel Paese da cui vengono i migranti. Perché abbandonano la loro terra? Per mancanza di lavoro, oppure a causa della guerra. Sono queste le due ragioni principali. Gli manca il lavoro perché sono stati sfruttati – e qui penso agli africani. L’Europa ha sfruttato l’Africa… non so se si può dire! Sta di fatto che certe colonizzazioni europee… sì, l’hanno sfruttata. Ho letto che un capo di Stato africano eletto di recente per prima cosa ha presentato in Parlamento un disegno di legge per il rimboschimento del suo Paese – e la legge è stata approvata. Le potenze economiche mondiali avevano tagliato tutti gli alberi. Rimboschire: ecco cosa bisogna fare. La terra è arida per il troppo sfruttamento, e non c’è più lavoro. La prima cosa da fare in quei Paesi – e l’ho detto davanti alle Nazioni Unite, al Consiglio europeo, dappertutto – è individuare fonti di creazione di posti di lavoro, e investire. D’altra parte, l’Europa deve investire anche a casa sua, perché il problema della disoccupazione c’è anche qui. Sono poi le guerre a determinare le migrazioni. Si può investire, fare in modo che la gente trovi lavoro e non abbia più bisogno di partire, ma se c’è la guerra saranno comunque costretti a scappare. E chi è che fa la guerra? Chi è che fornisce le armi? Siamo noi.
Soprattutto i francesi…
Dice? Io so che anche altre nazioni sono più o meno legate alle armi, a quel genere di cose. Gli forniamo le armi perché si distruggano, fondamentalmente, e poi ci lamentiamo se i migranti arrivano qui per distruggere noi. Peccato che siamo noi a sganciare missili laggiù! Guardi il Medio Oriente. È la stessa cosa. Chi fornisce le armi? A Daesh, ai sostenitori di Assad in Siria, ai ribelli anti-Assad? Chi fornisce le armi? Quando dico «noi», intendo l’Occidente. Non sto accusando nessun Paese. L’Occidente – insieme a certi Paesi non occidentali – vende le armi. Siamo noi a dargliele. Scateniamo il caos, la gente scappa dal proprio Paese, e noi cosa facciamo? Gli diciamo: «Eh, no, adesso sbrogliatevela da soli!». Non vorrei esprimermi in termini troppo duri, ma non possiamo permetterci di non aiutare chi arriva da noi. Sono esseri umani. Una volta un politico mi ha detto: «C’è una cosa più importante di tutti gli accordi: sono i diritti umani». Ecco un dirigente europeo che ha una visione chiara del problema.
Tra l’altro, questo atteggiamento di rifiuto rischia di alimentare l’odio, dal momento che oggi, con la globalizzazione dell’immagine, internet e la televisione, il mondo intero vede che gli europei tradiscono i diritti umani, cacciano gli immigrati, chiudono le porte e si ripiegano nel loro egoismo. E dire che, da cinquant’anni a questa parte, dobbiamo così tanto ai migranti – sul piano economico, naturalmente, ma anche su quello sociale e culturale. Di questo passo, l’Europa si ritroverà vittima di un effetto boomerang. Gli europei si vantano di essere i più democratici, e invece stanno tradendo proprio i loro valori umanisti e democratici. La globalizzazione dell’informazione ne farà un vero e proprio boomerang… eppure gli europei non se ne rendono conto. Per egoismo. Per stupidità.
L’Europa è la culla dell’umanesimo.
Per tornare alla politica…
A questo mondo, ogni uomo e ogni istituzione hanno sempre una dimensione politica. Della politica con la P maiuscola il grande Pio XI (1922-1939) ha detto che è una delle più alte forme di carità. Adoperarsi per una «buona» politica vuol dire spingere un Paese a progredire, far progredire la sua cultura: ecco cos’è la politica. Ed è un mestiere. Di ritorno dal Messico, a metà febbraio 2016,3 sono venuto a sapere dai giornalisti che Donald Trump, prima di diventare presidente, aveva detto di me che ero un politico; dopo di che ha dichiarato che, una volta eletto, avrebbe fatto costruire un muro lungo migliaia di chilometri… L’ho ringraziato per avermi definito un politico, perché secondo Aristotele l’essere umano è un animal politicum, quindi per me è un onore. Vuol dire che almeno sono un essere umano! Per quanto riguarda il muro, invece…
Lo strumento della politica è la prossimità. Confrontarsi con i problemi, comprenderli. Ma c’è anche un’altra cosa, che però pratichiamo sempre di meno: la persuasione. È forse il metodo politico più sottile, il più fine. Ascolto gli argomenti del prossimo, li analizzo e gli espongo i miei… Lui cerca di convincere me, io mi sforzo di persuadere lui, e in questo modo camminiamo fianco a fianco. Magari non arriveremo mai a una sintesi di stampo hegeliano o idealista – grazie a Dio: quello non si può e non si deve fare, perché distrugge sempre qualcosa.
La sua definizione della politica – convincere, argomentare e soprattutto negoziare insieme – corrisponde esattamente alla nozione di comunicazione che difendo e che privilegia la negoziazione in un contesto di incomunicabilità. La comunicazione è un concetto indissociabile dalla democrazia, poiché implica la libertà e l’uguaglianza dei soggetti coinvolti. A volte si comunica per condividere qualcosa, ma molto più spesso comunicare equivale a negoziare e convivere…
Fare politica vuol dire accettare l’esistenza di una tensione che non riusciamo a risolvere. Risolverla attraverso la sintesi significa annichilire una parte a beneficio dell’altra. Può esserci soluzione solo dall’alto, a un livello superiore, in cui le due parti danno il meglio di sé, giungendo a un risultato che non è una sintesi ma un cammino comune, un «andare insieme». Prendiamo per esempio la globalizzazione. È una parola astratta. Proviamo a paragonarla a un solido: si può vedere la globalizzazione, che è un fenomeno politico, come una «bolla» in cui ogni punto è equidistante dal centro. Tutti i punti sono identici; a prevalere qui è l’uniformità: è chiaro che questo tipo di globalizzazione distrugge la diversità.
Ma possiamo anche concepirla come un poliedro,4 in cui tutti i punti sono uniti ma ciascuno (si tratti di un popolo o di un individuo) conserva la propria identità. Fare politica vuol dire ricercare quella tensione tra l’unità e le identità specifiche.
Passiamo all’ambito religioso. Quando ero bambino, dicevano che tutti i protestanti andavano all’inferno, tutti quanti, dal primo all’ultimo. (Ride). Eh sì, era un peccato mortale. In Argentina c’era perfino un prete che bruciava le tende dei missionari evangelici. Sto parlando degli anni 1940-42. Io avevo quattro o cinque anni e camminavo per strada con mia nonna, quando a un certo punto abbiamo incrociato due donne che portavano il cappello dell’Esercito della Salvezza. Ho chiesto a mia nonna: «Chi sono quelle signore? Sono delle suore?», e lei mi ha risposto: «No, sono protestanti. Ma sono brave persone». Era la prima volta che sentivo un discorso ecumenico, e veniva da una persona anziana. Quel giorno mia nonna mi ha aperto le porte della diversità ecumenica. È un’esperienza che dobbiamo trasmettere a tutti. Nell’educazione dei bambini, dei giovani… Ciascuno ha la propria identità… Quanto al dialogo interreligioso, deve esistere, ma per stabilire un dialogo sincero tra le religioni si deve partire dalla propria identità! Io ho la mia identità ed è con questa che parlo. Ci avviciniamo, troviamo dei punti in comune e cose su cui invece non siamo d’accordo, ma si va avanti sui punti in comune per il bene di tutti. Insieme si fanno opere di carità, azioni educative, moltissime cose. Quello che ha fatto mia nonna con il bambino che ero a cinque anni è un atto politico. Mi ha insegnato ad aprire la porta.
In una tensione, quindi, non bisogna cercare la sintesi, perché la sintesi può distruggere. Bisogna tendere verso il poliedro, verso l’unità in grado di conservare tutte le diversità, tutte le identità. In questo campo il maestro – perché non voglio plagiare nessuno – è Romano Guardini.5 Guardini è a mio avviso l’uomo che ha capito tutto; lo spiega in particolare nel suo libro Der Gegensatz, tradotto in italiano come L’opposizione polare.6 Si tratta del primo libro che ha scritto sulla metafisica, nel 1923, nonché, a mio avviso, della sua opera più importante. Vi espone quella che possiamo chiamare la sua «filosofia della politica», ma alla base di ogni politica ci sono la persuasione e la prossimità. Ecco perché la Chiesa deve aprire le sue porte. Quando la Chiesa adotta un atteggiamento sbagliato, diventa proselitista. Ebbene, il proselitismo, non so se posso dirlo, non è molto cattolico! (Ride).
Ammetterà che la Chiesa per molto tempo ha difeso una concezione di dialogo tutt’altro che egualitaria. Che rapporto c’è tra proselitismo e dialogo interreligioso?
Il proselitismo distrugge l’unità. Ecco perché il dialogo interreligioso non significa mettersi tutti d’accordo, no, significa camminare insieme, ciascuno con la propria identità. È come quando si parte in missione, quando le suore o i preti girano il mondo per testimoniare. La politica della Chiesa è la sua testimonianza. Uscire da se stessi. Testimoniare. Permettetemi di tornare un istante al maestro Guardini. C’è anche un libriccino sull’Europa scritto da uno dei suoi ispiratori, Erich Przywara, che ha riflettuto sugli stessi temi. Ma il maestro delle opposizioni, delle cosiddette tensioni bipolari, è Guardini; è lui a insegnarci la strada dell’unità nella diversità. Che cosa succede oggi con i fondamentalisti? Questa gente si chiude nella propria identità e non vuole sentire nient’altro. Anche nella politica mondiale si nasconde una forma di fondamentalismo. Perché le ideologie non sono in grado di fare politica. Aiutano a pensare – del resto bisogna conoscerle –, sì, ma non sono in grado di fare politica. Il secolo scorso ne abbiamo viste parecchie, di ideologie che hanno generato sistemi politici. E non funzionano.
Cosa deve fare allora la Chiesa? Mettersi d’accordo con l’una o con l’altra? Questa sarebbe la tentazione, e una cosa del genere restituirebbe l’immagine di una Chiesa imperialista, che non è la Chiesa di Gesù Cristo, che non è la Chiesa del servizio.
Le faccio l’esempio di qualcosa in cui non ho alcun merito, che invece va tutto a due grandi uomini che amo molto: Shimon Peres7 e Mahmud Abbas.8 Quei due erano amici e si parlavano al telefono. Quando sono andato laggiù volevano fare un gesto, ma non trovavano il luogo adatto, perché Abbas non poteva r...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Dio è un poeta
  4. Introduzione. «Mica facile, mica facile…»
  5. 1. Pace e guerra
  6. 2. Religioni e politiche
  7. 3. Europa e diversità culturale
  8. 4. Cultura e comunicazione
  9. 5. L’alterità, il tempo e la gioia
  10. 6. La misericordia è un viaggio dal cuore alle mani
  11. 7. «La tradizione è un movimento»
  12. 8. Un destino
  13. Note
  14. Frasi di Papa Francesco
  15. Biografia di Papa Francesco
  16. Bibliografia essenziale di Papa Francesco
  17. Bibliografia di Dominique Wolton
  18. Ringraziamenti
  19. Indice