La convenienza umana della fede
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La convenienza umana della fede

  1. 320 pagine
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La convenienza umana della fede

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La convenienza umana della fede (1985-1987) è il secondo volume della serie BUR Cristianesimo alla prova, che raccoglie le lezioni e i dialoghi di don Giussani durante gli Esercizi spirituali della Fraternità di Comunione e Liberazione. Il fondatore di CL lancia una sfida: incapacità, fragilità e incoerenza morale possono essere alibi per non muoverci; tutti inoltre dobbiamo ammettere che facciamo fatica "ad accogliere l'ideale dentro la convenienza umana" per la paura di perdere qualcosa. Ma se ci affidiamo a Dio, attraverso un'adesione sincera alla fede cristiana, possiamo sperimentare una "rivoluzione pacifica e piena di letizia". L'uomo, infatti, è stato creato per la gioia. La proposta di Giussani è rivolta a chiunque stia cercando una strada per superare insicurezza e paura e provi curiosità per il cristianesimo come esperienza di vita adeguata alle esigenze dell'uomo di oggi.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2018
ISBN
9788858693728
Categoria
Religion

RICOMINCIARE SEMPRE (1985)a

Per far fronte all’aumentato numero di partecipanti, gli Esercizi del 1985 si tennero in due turni, a distanza di una settimana l’uno dall’altro, durante la seconda metà di marzo.
Presero parte, al primo turno, gli adulti di Lombardia, Piemonte, Liguria, Germania e Svizzera; al secondo, il resto dei gruppi italiani.
Gli Esercizi si svolsero in un clima particolare, perché era ancora viva la eco dell’incontro con il Papa, avvenuto nel settembre dell’anno precedente in occasione del trentennale di vita del movimento.
Quell’incontro fu, insieme, conferma della strada intrapresa e invito a un rinnovato slancio missionario.
Nell’accorato discorso che rivolse alle migliaia di persone che si erano radunate nell’Aula Paolo VI a Roma, papa Giovanni Paolo II diede un’esplicita consegna a tutto il movimento.
Dopo aver espresso «viva gioia» per quell’incontro e affetto per ciascuno, e dopo aver ricordato che, nella Chiesa e nella società, il movimento è «un metodo di educazione alla fede perché [essa] incida nella vita dell’uomo e della storia», il Papa chiese a ciascuno di andare «in tutto il mondo», per «portare la verità, la bellezza e la pace, che si incontrano in Cristo Redentore».
L’importanza dell’invito fu ulteriormente chiarita dalle parole che seguirono: «In questi trent’anni» disse il Papa «vi siete aperti alle situazioni più svariate, gettando i semi di una presenza del vostro movimento. So che avete messo radici già in diciotto nazioni del mondo: in Europa, in Africa, in America, e conosco anche l’insistenza con la quale in altri Paesi è sollecitata la vostra presenza. Fatevi carico di questo bisogno ecclesiale: questa è la consegna che oggi vi lascio».1
Fu una svolta, che avrebbe portato il movimento, nel giro di pochi anni, in molte parti del mondo. Cile, Brasile, Argentina, Polonia, Stati Uniti, Canada divennero, insieme a molti Paesi europei, luoghi di continui viaggi e rapporti, sulla spinta di un entusiasmo missionario che mirava solo a comunicare un’esperienza, desiderando che essa divenisse un bene per tutti.
Tuttavia, un impegno simile richiedeva una consistenza personale ancor più profonda, una coscienza sempre più chiara dell’esperienza incontrata, un cambiamento di sé radicale e continuo.
In una conversazione con gli universitari, un mese prima del raduno degli Esercizi, don Giussani aveva sottolineato l’importanza di tale cambiamento. «Insisto sulla parola “cambiamento”» disse in risposta ad alcune domande. «Ragazzi, la vita è cambiamento: una vita cambia a ogni istante, una vita è una vita! [...] Senza questo cambiamento, il mondo rimane variopinto come colore, ma dissolto come sostanza; non si costruisce.»2
Gli Esercizi avrebbero chiarito come il cambiamento continuo, o il «ricominciare sempre», sia la regola fondamentale della vita cristiana e avrebbero testimoniato che cosa veramente convenga nell’esistenza umana.

Introduzione

Il nostro essere qui, dentro un contesto che magari non avremmo scelto, implica una urgenza, perché il tempo non sia perduto, perché l’iniziativa abbia un esito. E questo esito dipende profondamente da ognuno di noi: non siamo più bambini, ed è perciò una responsabilità che sempre più assume una coestensione a tutto l’orizzonte della nostra personalità, una responsabilità sempre più nostra, di fronte al nostro personale destino. Invochiamo perciò con tutto il cuore lo Spirito. (Segue fino a p. 20 l’Introduzione degli Esercizi spirituali del secondo turno, dal 22 al 24 marzo).
Discendi, Santo Spirito3
Serve sempre, all’inizio dei nostri raduni o in momenti particolari di essi, risentire le due canzoni4 che abbiamo cantato prima, perché ci riportano, con le loro parole, oltre che con la loro musica suggestiva, come d’improvviso, a un realismo sano su noi stessi. Da un anno non ci ritroviamo tutti insieme e, dopo un anno, qual è la prima sensazione, il primo contenuto di coscienza che può essersi affacciato, almeno a me si è affacciato, venendo qui? «Signore», mi sono detto, «dov’è la difficoltà?» La difficoltà dov’è? Perché teoricamente le parole del Signore sono le più umane e le più chiare, le più ragionevoli fra tutte quelle che possiamo pronunciare. Ma allora dov’è la difficoltà? E così uno sente quante fughe e quante sconfitte la «guerra contro la falsità», contro l’incoerenza, ha subìto in questo ultimo tempo passato, in questa annata. Come è d’attualità questa guerra! C’è una tentazione in più, in noi, rispetto a quando eravamo più giovani, e quindi rispetto ai nostri amici e fratelli giovani: possiamo esserci abituati, perciò c’è una necessità che si spacchi la crosta di questa abitudine alla non verità della nostra vita, al cedimento della nostra vita, alla falsità della nostra vita. Man mano che diventiamo grandi, la debolezza mostra, lasciandola venire a galla, così che la possiamo vedere a occhio nudo, la connivenza che in qualche modo c’è sempre. Per questo parlo della giustezza della parola «falsità» nella nostra vita. Come è lontano da me l’intendimento di incominciare con un giudizio o con la veemenza di una qualche condanna, perché allora dovrei scappare io per primo di qui. È piuttosto quanto ho detto prima: è giusto incominciare realisticamente da quello che siamo. Anzi, io vorrei che domani riprendessimo questa partenza. Davanti al Signore, infatti, sto bene non tanto perché sono capace di coerenza – questa capacità è una Sua forza in me, una Sua grazia –, ma proprio in quanto sono vero.
Così, mentre venivo qui, risentivo la presenza di questa guerra, che le cose che premono nelle giornate, una dopo l’altra, non permettono tanto di sentire, o almeno di guardare bene in faccia; e insieme a questa constatazione delle sconfitte, in questa guerra che continua («Militia est vita hominis super terram»,5 «La vita dell’uomo sulla terra è una guerra», dice la Bibbia), mi ritornava anche in mente un altro spunto, ricordatomi dall’altro canto: «La tristezza che c’è in me» ha «mille secoli».6 Dentro alla nostra carne, cioè dentro la nostra persona, grava anche il peso della fragilità, dell’incoerenza, della falsità di tanti altri. Non per nulla il Miserere ci fa dire: «Nel peccato mi ha concepito mia madre».7 Apparteniamo alla stirpe di colui che ha creduto di potere fare da sé, e noi riportiamo dentro noi stessi la sua fisionomia – che è strappata alle sue radici; però, come conseguenza, ancora rimane –, la fisionomia di Adamo. «Sarai come Dio, non ti è proibito niente, fai quel che vuoi.»8 «La tristezza che c’è in me, l’amore che non c’è hanno mille secoli.» Come è grande e vasto il male nel mondo! E noi non sappiamo normalmente neanche legare i fatti più gravi, le ingiustizie più clamorose, le violenze più ripugnanti, alla stessa radice che, in forme più meschine, fa comportare anche noi con violenza, con ingiustizia tutti i giorni.
Allora qual è il problema numero uno, il problema primo per noi, da risolvere subito, perché non si può procrastinare neanche d’un istante? Ricominciare! C’è una canzone, di uno dei cantautori più noti, che a un certo punto parla del «disgusto di ricominciare», tanto «è poi sempre lo stesso».9 Io credo che questo sia il primo muro da abbattere in noi. Ricominciare è una parola molto vicina alla parola più cristiana, alla parola finale cristiana: «Risorgere», «risurrezione». Quante volte ci siamo ricordati che proprio per questo la Pasqua è il mistero principale, il mistero grande della vita cristiana! Perché essa è questo ricominciare, questo passaggio continuo dalla falsità alla verità, dall’incoerenza all’adesione, dalla presunzione e dall’autonomia all’adorazione, dalla pesantezza, che fa arrestare, all’energia del camminare: il mistero della Pasqua è il più importante perché è quello che deve accadere tutti i giorni, anzi, tutte le ore. E se, come grazie a Dio accade anche a molti tra noi, la coscienza della fede è cresciuta, è diventata un habitus o una virtù (san Tommaso dice che la virtù è come un atteggiamento buono diventato abituale, perciò facile; non abitudinario, ma abituale, e perciò diventato più facile),10 è diventata un’attenzione, un’allerta, una vigilanza, come dice il Vangelo,11 abbastanza abituale, allora non solo tutti i giorni, non solo tutte le ore, ma – starei per dire – in ogni azione, in ogni momento, ci è necessario questo ricominciare. Qualsiasi cosa noi facciamo, infatti, anche se l’inizio è come uno slancio, subito corpus quod corrumpitur aggravat animam,12 il corpo che si corrompe, la nostra naturalità, pesa sull’animo e tende a far assumere allo slancio un’obliquità, a fargli compiere una parabola immediatamente discendente, e così l’azione si sfascia nella sua bellezza, si stanca nel suo slancio, si corrompe. Come è grande il Signore che, attraverso la sua Chiesa, appena ci riunisce ci fa dire: «Pietà di me, Signore, che sono peccatore». Prima di accostarci al grande mistero del tempo, al grande mistero del nostro confronto nuovo col destino, con Cristo, «riconosciamo di essere peccatori».13
Vi sto dicendo i pensieri con cui arrivavo qui questa sera. Ma io credo che sia proprio questa la prima giustizia. Vi leggo questo pezzo del libro della Sapienza: «Dicono gli empi tra sé, con ragionamenti errati: [...] “Tendiamo insidie al giusto, perché ci è di imbarazzo, è contrario alle nostre azioni; ci rimprovera le trasgressioni della legge, ci rinfaccia le mancanze contro l’educazione da noi ricevuta. Proclama di possedere la conoscenza di Dio, si dichiara figlio del Signore. È diventato per noi una condanna dei nostri sentimenti; ci è insopportabile solo al vederlo, perché la sua vita è diversa da quella degli altri, e del tutto diverse sono le sue strade. Moneta falsa siamo da lui considerati, schiva le nostre abitudini come immondezze. Proclama beata la fine del giusto, si vanta d’avere Dio per padre. Vediamo se le sue parole sono vere; proviamo ciò che gli accadrà alla fine. Se il giusto è figlio di Dio, egli l’assisterà, lo libererà dalle mani dei suoi avversari. Mettiamolo alla prova con insulti e tormenti per conoscere la mitezza del suo carattere e saggiare la sua rassegnazione. Condanniamolo a una morte infame, perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà”. Così la pensano, ma si sbagliano; la loro malizia li acceca. Non conoscono i segreti di Dio; non sperano guadagno dalla santità, non credono alla ricompensa delle anime vere».14 Per quanto poco noi seguiamo il Signore, tentennando e barcollando, come bambini che imparino a camminare, tutto attorno a noi è proprio così come dice il libro della Sapienza. Un fattore da non dimenticare, che pesa sulla nostra gracilità e debolezza, è la mentalità che ci circonda. Nella Lettera ai Romani, san Paolo, parlando di una società senza Dio, dice: «Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; le loro donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo così in se stessi la punizione che si addiceva al loro traviamento. E poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa di una intelligenza perversa, sicché commettono ciò che è indegno [e così diventano] colmi d’ogni sorta di ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia, pieni di invidia, di omicidio, di rivalità, di frode, di malignità; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, carichi di oltraggio vicendevole, superbi, fanfaroni, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, [con l’apparenza della pietà, in fondo, sono] senza misericordia. E pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo continuano a farle, ma anche teorizzano che sono giusti coloro che le fanno».15
Noi siamo circondati da questo mondo, quel mondo per cui Cristo non prega, come dice il Vangelo di san Giovanni.16 Perciò noi, fuscelli dentro questa tormenta che da tutte le parti ci investe, come faremo a resistere, come faremo a ricominciare sempre? Ho letto il brano della Sapienza perché questa dialettica, questa lotta, non è però solo fra ciò che è fuori di noi e noi, è anche in noi. In noi vi sono questa empietà, questi ragionamenti errati, questi propositi contro la giustizia, questa insofferenza del rimorso che il senso del bene desta di fronte ai nostri errori, questa intolleranza di fronte all’affermazione certa del vero che Dio ci fa conoscere, soprattutto questa ribellione alla familiarità di Dio con noi: io credo che questo sia l’ostacolo più grande. È vero, nella storia della cultura non è che Dio e Cristo siano necessariamente disprezzati; anzi, ai nostri tempi, sia l’una parola che l’altra sono anche altamente stimate e fin osannate, ma è la familiarità che l’uomo vive con Dio, la familiarità che Dio chiede all’uomo, è questa che non può esser sopportata. Perché una familiarità di Dio con l’uomo significa un Dio che troviamo appena alzati al mattino, che si siede con noi a mensa, che esce con noi per la strada, che sta là dove lavoriamo, che è presente nei nostri rapporti familiari, nella nostra vita familiare, per cui il nostro modo di vivere non ha ombre, non ha rifugio di tenebre, e tutto viene alla luce. È la familiarità di Dio con l’uomo che anche a noi ripugna e a essa ci ribelliamo in vari modi: dall’«È impossibile!» o «Come si fa?», fino alla ribellione pura e semplice, come uno che dica: «Ma nelle mie cose non voglio che si introduca nessun altro». Questo brano della Sapienza è il rilievo di una diatriba che avviene in noi e di un consesso di voci ostili al nostro bene, alla pianta del bene che è in noi. Così, di fronte a questa ostilità esterna che determina l’aria che respiriamo, e di fronte a questo nugolo di pensieri e di reazioni che riverberano il mondo dentro di noi, la nostra povertà e la nostra fragilità diventano veramente grandi; e il bene, se non passa falsamente come presunzione, se non è già corrotto da una certa vanità e presunzione, diventa come impossibile.
Ricominciare, questo è il punto. La risurrezione è il mistero che noi dobbiamo sperimentare, a cui dobbiamo partecipare. Se riflettiamo bene, di fronte a Cristo questo sperimentare dovrebbe essere sorgente di stupore e di gratitudine senza fondo. Ma le nostre giornate – sto parlando di quest’anno trascorso – non sono piene di stupore e di gratitudine come invece lo sono quelle dei nostri bambini piccoli che si aprono alla vita. Il Signore ce li ha messi vicini come un grande segno e un grande esempio, anzi, come un grandissimo richiamo. Dopo l’avvenimento della santità, dell’incontro con un santo, un autentico santo, credo che i bambini siano il richiamo più grande che Dio possa fare alla nostra vita. Le nostre giornate non sono piene dello stupore e della gratitudine che riempie il volto dei nostri bambini piccoli, in cui Dio opera, in cui la mano di Dio si muove, quasi con appena un velo sopra. Le nostre giornate sono pesanti e si allevia questa pesantezza, insisto, con quella abitudine che non è una virtù, ma un’ottusità, con l’abitudine diventata, Dio non voglia, lo accenna il brano che abbiamo letto, giustificazione – anche dell’omicidio, come accennava san Paol...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione di Julián Carrón. «Nacque il tuo nome da ciò che fissavi»
  4. La convenienza umana della fede
  5. Ricominciare sempre - 1985
  6. Introduzione
  7. Omelia
  8. Avvisi
  9. APPARTENIAMO A UN ALTRO
  10. VIVERE L’IDEALE NELL’ISTANTE
  11. Omelia
  12. Assemblea
  13. LA VERA CONVENIENZA
  14. Omelia
  15. Il volto del Padre - 1986
  16. Introduzione alle Lodi
  17. LA COSCIENZA DEL PADRE
  18. «NACQUE IL TUO NOME DA CIÒ CHE FISSAVI»
  19. Omelia
  20. ICARO, IL RAPPORTO CON L’INFINITO
  21. Avviso
  22. Omelia
  23. Sperimentare Cristo in un rapporto reale e storico - 1987
  24. Introduzione
  25. Omelia
  26. Avvisi
  27. Introduzione alle Lodi
  28. COME ZACCHEO
  29. NELLA CARITÀ LA MEMORIA DIVENTA OPERA
  30. Introduzione alle Lodi
  31. LA GLORIA DI CRISTO
  32. Fonti
  33. SOMMARIO