Vittime
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Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001

  1. 944 pagine
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Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001

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Il conflitto israelo-palestinese è senza dubbio il più intricato e spinoso groviglio della politica mondiale, e anno dopo anno assistiamo a sempre nuovi e purtroppo infruttuosi tentativi di escogitare soluzioni più o meno rapide ed efficaci da parte dei potenti della terra. I quali, forse, con troppa facilità si scordano che la questione mediorientale affonda le sue radici in un passato molto più lontano e complesso della proclamazione dello Stato di Israele nel 1948 per rimontare addirittura al movimento sionista di Theodor Herzl nato negli ultimi decenni dell'Ottocento. E che solo analizzandone le cause profonde e i presupposti ideologici si può arrivare a capire in tutta la sua complessità la storia di questa regione. È ciò che si propone Benny Morris in questo saggio in cui, al di là di ogni mito e retorica di parte, il problema viene ricostruito nelle sue varie fasi e nei suoi vari aspetti vagliando fonti di ogni tipo e facendo parlare i fatti. È la storia delle profonde differenze religiose e culturali tra gli immigrati ebrei e la popolazione araba, dei conflitti militari con gli Stati confinanti fino all'attuale Intifada palestinese, e di personaggi del calibro di David Ben-Gurion, Anwar Sadat, Menachem Begin, Yasser Arafat e Ariel Sharon. Un'opera fondamentale, un testo essenziale per comprendere un conflitto cruciale che da decenni continua a dividere la politica e l'opinione pubblica mondiale.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2017
ISBN
9788858692066

CAPITOLO 1

La vigilia

Palestina, i luoghi e la popolazione

Tra le regioni atte a fungere da cupo scenario, credo che la Palestina non abbia rivali… Le colline sono sterili… le valli desertiche e inospitali, orlate da una vegetazione stenta che accentua il senso di tristezza e abbandono… È una contrada deprimente, monotona, derelitta… La Palestina siede col capo cosparso di cenere… Pesa su di lei una maledizione che ne ha inaridito i campi e spento la vitalità… Nazaret è dimenticata… Gerico… detestabile… Gerusalemme… un misero villaggio… La Palestina è desolata e priva di attrattive.
COSÌ SCRIVEVA MARK TWAIN NEL 1867.1 Nella sua prosa può esserci esagerazione, ma di sicuro a metà del XIX secolo la Palestina non era il paese «di latte e miele» della promessa biblica. Nell’accezione odierna, la Terrasanta – Erez Yisrael o Terra d’Israele per gli ebrei, Falastin o Palestina per gli arabi – fu definita negli anni dell’amministrazione britannica (1918-1948) come la regione delimitata a settentrione dalle colline a sud del fiume Litani, in Libano; a oriente dal fiume Giordano, dal Mar Morto e dalla valle di Arava (uadi Arava); a occidente dal Mediterraneo e dalla penisola del Sinai; e a meridione dal golfo di Eilat (o di Aqaba). In tutto, occupa circa 26.320 chilometri quadrati, poco più della superficie della Lombardia (23.857 kmq).
Di questa estensione il 50-60% circa – il Negev e la valle di Arava – è un deserto interrotto da una manciata di oasi, in gran parte inabitabile e inadatto all’agricoltura; ugualmente inospitale è il cosiddetto deserto di Giudea, tra la «spina dorsale» collinosa della Giudea (da Ramallah a Hebron passando per Gerusalemme) e il Giordano.
La Palestina è complessivamente arida, con un solo, modesto fiume – il Giordano – che oltretutto non l’attraversa ma la separa dalla Siria e, più a sud, dalla Giordania. Tolto il Giordano solo due corsi d’acqua sono perenni; gli altri sono torrenti stagionali, asciutti nella stagione calda. In compenso sorgenti naturali e pozzi abbondano nel nord del paese, mentre sono piuttosto rari nel sud. Il nord, naturalmente abitabile, è caratterizzato da precipitazioni consistenti nel periodo da ottobre ad aprile; i mesi restanti ne sono pressoché privi, con temperature massime di 30-35°. Nel Negev, invece, le piogge sono quasi assenti per tutto l’anno, e presso il suo confine meridionale si toccano in estate punte di 40-45°.
La popolazione ha avuto la tendenza a concentrarsi, nell’antichità come in epoca moderna, nell’entroterra collinoso della Giudea, della Samaria e della Galilea, nonché nella pianura costiera, che è coltivabile, e nella valle che se ne stacca tra Haifa e il Giordano con asse est-ovest, nota come valle di Yezreel o pianura di Esdrelon. Un’altra zona fertile è la parte settentrionale della valle del Giordano, che si estende con asse nord-sud da Bet Shean (Beisan) al mare di Galilea (o lago di Tiberiade) e alla pianura che lo circonda, fino al lago di Hula e alle sorgenti del Giordano, nelle colline alla base del massiccio dell’Hermon.
Nell’Antichità si stima che la Palestina ospitasse tra 750.000 e 6.000.000 di abitanti, essendo indicato il numero di 2.500.000 per il 50 d. C. dalla maggior parte degli esperti.2 Nel II millennio a. C. era abitata da un insieme di popoli, o tribù, pagani (cananei, gebusei e altri) perennemente in lotta per il controllo di questa o quell’area. Verso la fine del millennio gli ebrei, o giudei, invasero la regione e vi si stabilirono; per gran parte dei mille anni seguenti essi costituirono la maggioranza della popolazione e governarono quasi tutto il paese. Il nocciolo dello Stato ebraico (a un certo punto ci furono due regni ebraici separati) era il già citato entroterra collinoso di Giudea, Samaria e Galilea. Per gran parte di quel periodo esso comprese una minoranza di filistei, e in seguito di pagani ellenistici o romanizzati concentrati nella pianura costiera in città come Cesarea, Giaffa, Ascalona e Gaza. Il periodo dell’indipendenza ebraica ebbe fine con l’invasione romana e la repressione di due ribellioni (la prima e seconda guerra giudaica) nel 66-73 e nel 132-135 d.C., conclusesi con l’esilio di quasi tutti gli ebrei. Dopo una serie di altre invasioni da parte di persiani, arabi, turchi, crociati, mongoli, mamelucchi e (di nuovo) turchi, il paese – all’inizio del XIX secolo, sotto il dominio imperiale ottomano – contava tra 275.000 e 300.000 abitanti, per il 90% arabi musulmani, cui si aggiungevano da 7.000 a 10.000 ebrei e da 20 a 30.000 arabi cristiani. Nel 1881, alla vigilia dell’immigrazione ebraico-sionista, la popolazione palestinese era di circa 457.000 persone: 400.000 arabi musulmani, 13.000-20.000 ebrei e 42.000 cristiani (in gran parte greco-ortodossi).3 Qualche altro migliaio di ebrei risiedeva stabilmente in Palestina senza possedere la cittadinanza ottomana.
La piccola minoranza ebraico-palestinese presionista – il cosiddetto «Vecchio yishuv (insediamento)» – era tutt’altro che benestante. Molti, se non tutti, i suoi membri dipendevano dagli aiuti degli israeliti della Diaspora. Tanto gli aschenaziti (gli oriundi dell’Europa centrale e orientale) quanto i sefarditi (gli oriundi spagnoli, nordafricani e mediorientali) erano in gran parte ortodossi e risiedevano, in propri quartieri, in una delle quattro città sante dell’ebraismo: Gerusalemme, Hebron, Safed e Tiberiade. Quasi tutti erano sudditi ottomani, quanto mai rispettosi delle autorità turche e delle grandi collettività musulmane tra le quali vivevano. Molti trascorrevano le giornate immersi nello studio della Torah e del Talmud. I commercianti all’ingrosso e al dettaglio erano una minoranza; più numerosi gli artigiani. Nell’insieme, gli ebrei del Vecchio yishuv formavano una porzione numericamente trascurabile della popolazione palestinese, ch’era in grande maggioranza araba e per il 70% rurale. Essa era dispersa in 700-800 frazioni e villaggi, di dimensioni comprese tra meno di cento anime e mille scarse. I villaggi erano per lo più nell’entroterra collinoso, l’ubicazione essendo legata all’esistenza di sorgenti o pozzi, o alla migliore difendibilità delle sommità delle colline e delle zone protette da rilievi. Molti erano stati fondati da invasori beduini, divenuti poi sedentari. La pianura costiera e le valli di Yezreel e del Giordano erano poco abitate, sia per il pericolo rappresentato dalle incursioni beduine sia perché in parte paludose, quindi malsane e scarsamente fertili.
Molti villaggi combattevano una guerra senza fine, fatta di scaramucce e imboscate, contro i beduini che provenendo dai deserti della Transgiordania, del Negev e del Sinai compivano scorrerie nelle regioni più popolate. Comuni erano anche le interminabili dispute sull’uso e la proprietà di terreni e fonti idriche, sia tra i villaggi sia tra i clan di uno stesso villaggio. Faide e rivalità dello stesso tipo, tra eminenti famiglie urbane e tra città (per esempio tra Gerusalemme e Hebron) avrebbero rappresentato anche in seguito un grave elemento di divisione e debolezza della società arabo-palestinese.
L’agricoltura era primitiva, con poca irrigazione. Nella prima metà del XIX secolo la terra apparteneva in genere agli abitanti dei villaggi, in maniera individuale o collettiva. La seconda metà del secolo vide il progressivo impoverimento dei villaggi, in gran parte per l’accresciuta efficienza del fisco ottomano, e una grande quantità di terreni agricoli fu acquistata dai notabili di città (a‘yan in arabo), che avevano accumulato denaro in veste di funzionari e rappresentanti del potere ottomano (specialmente tramite l’appalto della riscossione delle imposte) e grazie ai commerci con l’Occidente. All’inizio del xx secolo, in dozzine di località gli abitanti dei villaggi non possedevano più i campi, ma continuavano a coltivarli come fittavoli.
A quel punto i grandi proprietari terrieri (effendi) erano per lo più facoltosi cittadini che spesso non risiedevano nemmeno in Palestina ma a Beirut, Amman, Damasco e Parigi. Nell’ultimo quarto del XIX secolo gli acquisti di terreni degli effendi da parte dei sionisti ingrossò le fila dei contadini arabi che non possedevano la terra che lavoravano e in cui abitavano. La seconda metà del secolo vide inoltre il rapido sviluppo della coltivazione degli agrumi, soprattutto nell’umida pianura costiera, i prodotti essendo destinati alla sempre più conveniente esportazione in Europa. I terreni agricoli diventarono un investimento attraente, e il conseguente aumento dei prezzi un ulteriore incentivo alla vendita da parte dei fellahin.
Nel 1881 un buon terzo della popolazione palestinese era urbana – contro il 22% del 1800. Ebrei e cristiani vivevano soprattutto in città, il che rendeva la loro influenza in quell’ambiente molto maggiore che nell’insieme del paese. Nel 1880 gli abitanti di Gerusalemme erano circa 30.000, metà dei quali appartenenti alla minoranza ebraica; Gaza aveva 19.000 abitanti, Giaffa 10.000 e Haifa 6.000. I notabili dei centri urbani dovevano la loro prosperità all’impero ottomano, che affidava loro le cariche amministrative locali e la riscossione delle imposte. A partire dal 1917-18, il ruolo di dispensatrici di favori passò alle autorità britanniche. Dalle famiglie dell’élite arabo-palestinese – i Khalidi, gli Husayni e i Nashashibi a Gerusalemme; i Ja‘bri e i Tamimi a Hebron; i Nabulsi, i Masri e gli Shak‘a a Nablus, e altre – provenivano i dignitari, i giudici, gli ufficiali di polizia, i capi religiosi e i funzionari della pubblica amministrazione. Era naturale che, dati la ricchezza, il potere locale e i legami con gli ambienti di governo musulmani, gli a‘yan emergessero come la leadership arabo-palestinese su scala regionale e successivamente nazionale. Un profondo divario – di istruzione e di status sociale, economico e politico – separava gli a‘yan dalle masse in gran parte analfabete.
La seconda metà del XIX secolo vide una graduale modernizzazione del paese, accompagnata da un crescente inurbamento. Anche se la maggior parte dei villaggi era collegata da piste più che da strade pavimentate, e uomini e merci si spostavano ancora a piedi, a cavallo, in cammello o a dorso di mulo piuttosto che su ruote, una rotabile tra Gerusalemme e Giaffa – la prima in Palestina – fu costruita nel 1869.
La prima ferrovia fu realizzata nel 1892 (tra le stesse due città); un prolungamento fino a Haifa e Der‘a attraverso la valle di Yezreel fu realizzato nel 1903-5.
Il trascorrere del secolo vide anche un lento progresso dell’alfabetizzazione. Si è calcolato che intorno al 1800 solo il 3% dei palestinesi non ebrei fosse in grado di leggere e scrivere (in gran parte, si trattava dei primogeniti degli a‘yan). Con l’avanzare del secolo, un sistema di istruzione pubblica prese forma più per merito dei missionari europei che della volontà ottomana o araba locale.
Nella prima metà del XIX secolo l’illuminazione era affidata alle candele e ai lumi a olio di oliva. Negli anni ’60 fu introdotta la nafta, mentre l’elettricità prodotta da appositi generatori si diffuse in Palestina nel primo decennio del xx secolo. Nel corso dell’Ottocento la salute della popolazione era minacciata da malattie quali la malaria, il tracoma, la dissenteria, il colera e le febbri tifoidee. L’acqua scarseggiava, ed era spesso inquinata. La prima farmacia entrò in funzione nel 1842 e il primo ospedale di tipo europeo nel 1843, a Gerusalemme; ma entro la fine del secolo la città disponeva di quindici ospedali, ed era diventata un centro di medicina moderna senza rivali in Palestina e non solo.

L’amministrazione turca

L’IMPERO OTTOMANO, che governò la Palestina dal 1517 al 1917-18, era cosciente dell’importanza del paese in quanto culla dell’ebraismo e del cristianesimo, ma non ne fece mai un distinto, autonomo distretto amministrativo. Negli anni ’70 dell’Ottocento la Palestina era compresa nella provincia (vilayet) di Siria, retta da un governatore (wali) residente a Damasco. La provincia era suddivisa in distretti (sancak), sangiaccati, tre dei quali rientravano nell’odierna Palestina: Acri, che comprendeva Haifa, l’area dell’odierna Hadera, le valli di Yezreel e del Giordano, il mare di Galilea, Safed e Tiberiade; Nablus, che comprendeva Bet Shean, Jenin e Qualquilya; e Gerusalemme, che comprendeva Gerico, Giaffa, Gaza, Beersheba, Hebron e Betlemme. A loro volta i sancak erano divisi in sottodistretti, o circoscrizioni, retti da funzionari locali chiamati kaymakam.
Nel 1887 il sancak di Gerusalemme fu retto da un mutasarrif (governatore), venendo così a dipendere, più che da Damasco, direttamente da Costantinopoli. L’anno dopo i sancak di Nablus e Acri furono separati dal vilayet di Sam (Siria) per essere posti sotto la giurisdizione del neonato vilayet di Beirut. La nuova provincia, che includeva gran parte dell’odierno Libano, incorporò in tal modo anche la metà settentrionale della Palestina.
Nel decennio di dominio egiziano sulla Palestina (1831-40) si realizzò una forma di governo più centralizzata. Il potente esercito egiziano di Ibrahim Pascià spazzò via i maggiorenti locali, che si erano ritagliati feudi de facto in diverse aree del paese. Esso riuscì anche a contrastare efficacemente le scorrerie dei beduini dei deserti orientali e meridionali, che tanto avevano contribuito all’arretratezza e insicurezza della Palestina.
Tornati in possesso della regione, i turchi vararono una serie di ambiziose riforme (tanzimat) economiche, amministrative, giuridiche, militari e politiche, con risultati contrastanti. I nuovi sistemi di riscossione delle imposte, più efficaci e centralizzati, causarono un sensibile impoverimento della popolazione rurale, il quale a sua volta determinò il progressivo spopolamento dei villaggi e il trasferimento degli abitanti nei centri urbani. Analoghi effetti ebbero gli sforzi per spingere i giovani contadini ad arruolarsi, il ritorno del brigantaggio che rendeva insicure le strade, e la ripresa delle incursioni beduine. I capi dei villaggi, o sceicchi, che fino alla conquista egiziana avevano una considerevole autorità, ne persero molta quando la riscossione delle imposte fu affidata ai funzionari ottomani e ai notabili di città.
D’altra parte, il benessere e la legalità conobbero un sensibile miglioramento nelle città. I commerci con l’Occidente decollarono, e i notabili urbani si arricchirono e comprarono altri terreni. Le riforme turche dei governi locali, sia in Palestina sia in Siria, compresa l’introduzione di consigli municipali, accrebbero inoltre il potere degli a‘yan e dei capi religiosi (gli ‘ulama) a spese dei govenatori e subgovernatori ottomani. Queste riforme dovevano rivelarsi pietre miliari verso l’emergere di un «nazionalismo» arabo centrifugo. In altre parole anche i tanzimat, che miravano all’unità e alla centralizzazione, contribuirono all’allontanamento delle province arabe dall’impero. L’impoverimento della campagna e la crescente prosperità dei centri urbani scavò un fossato tra gente di città e fellahin, o contadini.4 E i firman (decreti) della Sublime Porta del 1839 e, in modo più decisivo, del 1856, attribuendo il medesimo status a sudditi ottomani e non, causò a breve termine un drammatico allontanamento delle comunità musulmana e cristiana. La prima si risentì profondamente della perdita dell’antica superiorità, e si vendicò con ripetute, sanguinose aggressioni nei confronti di quella cristiana – ad Aleppo nel 1850, a Nablus nel 1856, e a Damasco e in Libano nel 1860. È da collocare tra le conseguenze a lungo termine di questi dissidi la nascita di un Libano a predominio cristiano tra gli anni ’20 e ’40 del XX secolo, e la reciproca diffidenza tra arabi palestinesi di fede cristiana e musulmana allorché, dopo la Prima guerra mondiale, si accinsero a reagire all’immigrazione sionista.

L’Islam e gli ebrei

L’ISLAM IN GENERE, E L’IMPERO OTTOMANO in particolare, trattarono quasi sempre i membri delle rispettive minoranze ebraiche come cittadini di seconda categoria. Nel pieno medioevo islamico, all’incirca tra l’850 e il 1250 d.C., gli ebrei e il giudaismo conobbero una grande fioritura, tanto che quel periodo fu poi considerato una delle «età auree» della storia ebraica. Gli israeliti raggiunsero posizioni di grande prestigio nella politica, nella finanza, nell’arte e nelle scienze in diversi regni e imperi islamici; uno o due di loro furono ciambellani e ministri di re e principi. Mosheh Maimonide, medico personale di un sultano, fu uno dei più grandi filosofi medievali. In seguito, però, la condizione degli ebrei nell’Islam si deteriorò, di pari passo col ristagno che a poco a poco s’impadronì di quel mondo. Dovunque essi soffrirono discriminazioni, umiliazioni e un continuo senso d’insicurezza, ed episodicamente furono oggetto di violenze e autentiche persecuzioni.
Un eminente storico israeliano, David Vital, ha mestamente descritto il «ruolo irrimediabilmente inferiore riservato agli ebrei nella cosmologia musulmana».5 L’Islam – come i cristiani e gli stessi ebrei, del resto – ha sempre diviso il mondo in «noi» e «loro», in credenti (Dar al-Islam, la «casa dell’Islam») e infedeli (Dar al-Harb, la «casa della guerra», coloro che potevano o dovevano ricadere sotto la legge della spada). Il principio dell’uguaglianza – tra credenti e infedeli non meno che tra uomini e donne – è estraneo all’Islam, e il mondo musulmano, continuamente in conflitto con Dar al-Harb in questa o quella parte del mondo, ha sempre mostrato una forte vena xenofoba.
Fin dall’inizio l’Islam soffrì di una comprensibile gelosia «da fratello minore» verso l...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Vittime
  4. Ringraziamenti
  5. Prefazione
  6. 1. La vigilia
  7. 2. L’inizio del conflitto: ebrei e arabi in Palestina, 1881-1914
  8. 3. La grande guerra, la Dichiarazione Balfour e il mandato britannico
  9. 4. La ribellione araba
  10. 5. La seconda guerra mondiale e la prima guerra arabo-israeliana
  11. 6. 1949-1956
  12. 7. La guerra dei sei giorni
  13. 8. La guerra di attrito
  14. 9. La guerra di ottobre, 1973
  15. 10. La pace tra Egitto e Israele, 1977-79
  16. 11. La guerra del Libano, 1982-85
  17. 12. L’Intifada
  18. 13. Pace, finalmente?
  19. 14. I diciannove mesi di Barak
  20. Conclusioni
  21. Note
  22. Bibliografia
  23. INDICE GENERALE