Kim Jong-un il nemico necessario
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Kim Jong-un il nemico necessario

  1. 266 pagine
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Kim Jong-un il nemico necessario

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Chi ha paura della Corea del Nord? Tutti, più o meno. Perché è una nazione "aliena", chiusa al mondo al punto da essere definita "Regno eremita", governata da una dittatura che sta per completare la lunga corsa al nucleare. E perché il suo leader, Kim Jong-un, ci appare come un giovane tiranno a tratti ridicolo e a tratti sanguinario, troppo inaffidabile per poter tenere il dito sul pulsante di distruzione del pianeta intero. Ora che ha ingaggiato battaglia con un presidente americano altrettanto inaffidabile come Donald Trump, potrebbe succedere qualsiasi cosa, pensiamo. Ma le cose stanno davvero come le dipingono le nostre informazioni parziali, i nostri preconcetti e i nostri media? In questo saggio ricco di informazioni e testimonianze di diplomatici, dissidenti ed esperti, Loretta Napoleoni cerca la risposta nelle pieghe di una storia affascinante, quella delle due Coree e del primo grande conflitto della Guerra fredda; analizza la realtà eccentrica del "totalitarismo" nordcoreano, più che contaminato dal libero mercato; entra nella mente di una nazione governata dall'ideologia semi-religiosa dello Juche, sconosciuta all'Occidente ma indispensabile per spiegare la psicologia settaria dei sudditi di Kim; si inoltra nel web oscuro sulle tracce dei cybercrimini attribuiti alla Corea del Nord. E ci spalanca un mondo inaspettato, che è nostro dovere tentare di comprendere, perché nella situazione internazionale attuale gli equivoci possono costare cari a tutti noi.

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Informazioni

1

Soffrire la fame

La Cina e la Corea del Nord che oggi conosciamo – o che pensiamo di conoscere – sono nate dalle ceneri della Seconda guerra mondiale. Per decenni prima e dopo la fine del conflitto, la fame afflisse entrambe le nazioni. La fame fa parte del vertiginoso prezzo che queste popolazioni hanno pagato per ottenere l’indipendenza dalla colonizzazione – quella della Cina dalle potenze europee e quella della Corea dal Giappone imperiale. Tuttavia, lo stretto rapporto tra questi due Paesi e popoli è di gran lunga antecedente alla storia moderna.
Dalla sua fondazione, decine di secoli fa, la Corea adottò la scrittura ideografica cinese e fino al XV secolo usò il cinese come lingua scritta e letteraria, mentre la lingua parlata comunemente era il coreano. La società coreana importò anche il buddismo, una religione non dogmatica, che fu rapidamente integrato nel sistema di credenze autoctono.1 Il ponte più solido tra le due culture è però sempre stata la filosofia confuciana. Ponendo l’accento sulla pietà filiale, sulla fedeltà al sovrano e sull’ordine armonioso, il confucianesimo ha avuto un grande impatto sulla vita sociale coreana, rafforzandone la rigida struttura di stampo feudale. Il legame che corre tra Cina e Corea è dunque simile a quello che lega l’antica Roma alla vecchia Britannia. Come la legge di Roma è diventata parte integrante del sistema di valori anglosassone, così il sistema di valori cinese ha permeato quello coreano.
La Cina, pertanto, è un buon punto di partenza per iniziare a capire la Corea del Nord. Un denominatore comune è la forte identità nazionale frutto di un’omogeneità etnica e linguistica e del mantenimento dei confini geografici, caratteristiche che entrambe le nazioni condividono da millenni. Ma, a differenza della Cina, la penisola coreana non ha mai registrato forti e frequenti esplosioni rivoluzionarie, perché le mancava la potente locomotiva sociale che ha prodotto il singolare sistema politico cinese di dinastie alterne. In confronto alla Cina, l’intera storia della Corea appare stagnante. Questo spiega come una dinastia, i Joseon, abbia governato il Paese dal 1392 fino alla colonizzazione giapponese della penisola all’inizio del XX secolo.
La società coreana è sempre stata strutturata secondo un rigido sistema di classi, regolato da principi inflessibilmente ereditari e nell’assenza totale di mobilità sociale. In cima alla piramide sociale c’era l’aristocrazia terriera i cui membri erano chiamati yangban, solo loro avevano accesso alla politica. Alla base, c’erano gli schiavi, perché in Corea lo schiavismo vigeva immutabile da tempi remoti. Gli schiavi erano proprietà dei nobili e potevano essere comprati, venduti, scambiati o ereditati. Potevano essere maltrattati, marchiati, selezionati, sfruttati o uccisi dai padroni. Nei secoli, gli schiavi rimasero una costante dell’economia coreana, rappresentando dal 30 al 60 per cento della popolazione totale; a Seul, dove l’élite si riuniva per socializzare, fare affari o politica, erano più numerosi delle persone libere. La schiavitù in Corea fu abolita soltanto nel 1894. Tra le due classi dei nobili e degli schiavi c’erano le persone comuni, ovvero contadini, artigiani e manovali.
Alla base del conflitto fratricida che dilaniò la penisola coreana nella prima metà del XX secolo c’è la rigida divisione di classe. Quando nel 1910 le forze imperiali giapponesi colonizzarono la Corea, l’aristocrazia locale difese i propri privilegi di classe, ma non la nazione. Di conseguenza, i nobili si trasformarono in una classe dirigente filonipponica concentrata prevalentemente al Sud. Diventarono ufficiali coloniali nelle terre dei loro antenati e mantennero l’ordine nelle regioni meridionali, soprannominate «la risaia» coreana perché era lì che si concentrava la gran parte della produzione di riso della penisola. Così facendo la nobiltà coreana al soldo dell’impero giapponese svolse il proprio compito: garantire un flusso costante di riso verso il Giappone. Il Nord, ricco di minerali e di altre risorse naturali, popolato da minatori, artigiani, manovali e contadini invece non accettò mai il dominio giapponese e si organizzò per resistere.

Vittima della storia

Quando arrivarono i colonizzatori giapponesi, la Corea stava aprendosi a un fruttuoso periodo di cambiamenti socio-economici. Alla fine del XIX secolo, nemmeno questo Paese dalla rigida struttura feudale era immune ai venti della modernizzazione. Dal commercio alla musica, dalla letteratura all’arte, l’innovazione investì tutta la penisola coreana. Al buddismo si aggiunse il cristianesimo,2 e la diversità religiosa contribuì ad alimentare la tolleranza. Nel Nord, questo rinascimento diede vita a una nuova piccola élite illuminata e imprenditoriale, che secondo molti storici avrebbe potuto plasmare il moderno Stato della Corea. Si possono però soltanto fare congetture su cosa sarebbe successo se la Corea non fosse stata colonizzata dal suo vicino nipponico: la classe di commercianti coreana in fermento avrebbe addirittura potuto scardinare la rigida struttura sociale e la nascente borghesia polverizzare l’immobilismo sociale. Il movimento anticoloniale del 1919 fu soffocato nel sangue, gli anni Venti videro l’erosione dei valori e delle virtù tradizionali, poi nel 1929 arrivò il grande crac. Questi fattori suggellarono il destino del Paese.
La Grande depressione scatenò una forma predatoria di colonizzazione a opera dei giapponesi, la cui classe imprenditoriale era stata messa in ginocchio dalla crisi economica mondiale. La povertà, la fame e la carestia si aggravarono in tutta la penisola e le persecuzioni politiche si inasprirono. Intanto i giapponesi erano impegnati nella distruzione sistematica dell’identità e della cultura nazionale coreane con strategie – per esempio, nomi giapponesi sostituirono quelli coreani e le opere d’arte antiche furono distrutte o portate in Giappone – che miravano ad assorbire culturalmente il Paese nel loro Impero.3
In questo periodo, un crescente numero di coreani si spostò a nord, verso la regione cinese della Manciuria, dove nel corso degli anni Venti era migrato il movimento di resistenza contro la potenza colonizzatrice. Tra questi emigrati c’era la famiglia del futuro leader nordcoreano, Kim Il-sung.
Nato il 15 aprile 1912, il giorno in cui il Titanic affondò nell’Atlantico, a Man’gyongdae, ricevette il nome di Kim Song-ju. Nacque in un villaggio vicino a Pyongyang, che all’epoca era un centro di commercio emergente, con una forte presenza di missionari americani. I genitori erano infatti cristiani e facevano parte del rampante ceto medio che aveva cominciato a imporsi nei primi anni del XX secolo. Venivano dalla regione di Seul-Kaesong-Pyongyang, caratterizzata da ricche risaie alluvionali e da una progressiva urbanizzazione. Nel 1923 il padre di Kim Song-ju, che si opponeva alla presenza giapponese in Corea, fu arrestato per attività antinipponiche. Nel 1925, poco dopo il suo rilascio, portò la famiglia in Manciuria, dove morì qualche anno dopo. Tuttavia, sfuggire all’Impero si rivelò impossibile: nel 1931 il Giappone invase la Manciuria, separò la regione dalla Cina e creò uno Stato fantoccio, il Manciukuò.
A Tokyo, la conquista della Manciuria fu accolta con entusiasmo, perché le sue ricche risorse furono ben presto dirottate per mantenere a galla la malridotta economia della potenza colonizzatrice. In effetti, per tutti gli anni Trenta, questa regione conquistata fu indispensabile per la ripresa economica nipponica dopo la Grande depressione. Governarla, tuttavia, fu tutt’altro che facile poiché le popolazioni di etnia cinese, russa e coreana presenti in Manciuria organizzarono una massiccia resistenza contro il brutale regime coloniale.
Certo è che i giapponesi condussero in Manciuria una sistematica campagna di terrore e intimidazione contro la popolazione locale, con arresti indiscriminati ed esecuzioni sommarie. Dato che il loro esercito usò il Manciukuò come base da cui invadere il resto della Cina, l’area non tardò a diventare il teatro di uno dei conflitti più violenti della Seconda guerra mondiale, con il coinvolgimento di tutti i gruppi etnici presenti in Manciuria, tra cui un enorme numero di immigrati coreani.
Al di là del confine, nella penisola coreana, gli anni Trenta furono un periodo altrettanto traumatico, durante il quale la popolazione venne soggiogata. All’inizio del 1939, oltre cinque milioni di coreani lavoravano come operai per i giapponesi e decine di migliaia di uomini erano stati arruolati per alimentare la possente macchina bellica dell’Impero del Sol Levante. Circa duecentomila ragazze e donne, perlopiù cinesi e coreane, furono ridotte in schiavitù sessuale e messe a disposizione dell’esercito giapponese. La prima base a ricevere un contingente di queste donne fu costituita nel Manciukuò tra il 1932 e il 1933. All’inizio del 1938 tra trenta e quarantamila schiave sessuali, principalmente coreane, erano già state inserite in questo sistema spaventoso. Solo nel 1993 il segretario capo di gabinetto giapponese Yohei Kono riconobbe e si scusò per le terribili ingiustizie subite da queste sventurate, che i giapponesi avevano soprannominato eufemisticamente «donne di conforto».4 Questi ricordi sono ancora molto vividi in entrambe le Coree e ben radicati nella propaganda nordcoreana.

Da Confucio a Kim Il-sung

Quando Kim Song-ju entrò nella resistenza antinipponica assunse, come tutti i ribelli, un nome di battaglia, quello di Kim Il-sung. Possedeva l’albero genealogico perfetto per un guerrigliero. Suo padre era stato coinvolto in attività sovversive contro l’Impero; nel 1935 il fratello di mezzo era stato arrestato nel Manciukuò ed era morto nelle mani dei giapponesi; in un loro carcere uno zio materno aveva passato ben tredici anni. Con questi trascorsi, è stato facile arricchire i racconti della resistenza con le leggende che lo descrivono come un Robin Hood asiatico, il fautore della liberazione coreana.5
In una di queste imprese eroiche, Kim Il-sung deruba l’aristocrazia del Kapsan, la regione coreana che confina con la Manciuria, per sfamare i suoi guerriglieri. Il Kapsan, che si trova ai piedi della catena montuosa che in cinese è chiamata Changbai Shan («Montagne dalla testa bianca») il cui picco più alto è il sacro monte Paektu, era una delle regioni più povere della Corea e una roccaforte dell’aristocrazia coreana. I contadini pativano la fame da secoli e parlando della propria condizione raccontavano di essere perennemente affamati, ridotti a mangiare corteccia e radici selvatiche per sopravvivere.
Dalla Manciuria, dove inizialmente aveva stabilito il suo quartier generale, Kim Il-sung guidò i guerriglieri alla riconquista delle terre oltre confine, le sottrasse ai colonizzatori giapponesi e ai proprietari-fantoccio terrieri coreani e le consegnò ai contadini. Il sistema agrario che istituì era simile al modello sovietico introdotto nell’Urss, i soviet. Molto prima della nascita della nuova nazione, dunque, nel Kapsan Kim introdusse la collettivizzazione e le unità agricole di base. Questo processo, che di fatto smantellò per la prima volta l’antico sistema feudale del Paese, fu un esperimento efficace che negli anni Cinquanta avrebbe profondamente influenzato la futura riforma agraria nella Corea del Nord.
Ancora più emblematica nell’epica nazionale dell’attuale Corea del Nord è un’altra storia: la liberazione di un gruppo di vittime dei comunisti cinesi e dei colonizzatori giapponesi in Manciuria. Questo racconto prepara il terreno alla visione della società moderna di Kim e getta le basi della sua ideologia, lo juche, che, come vedremo, i nordcoreani considerano un passo avanti rispetto al comunismo.
In una fredda giornata invernale del 1935, Kim Il-sung e i suoi guerriglieri raggiunsero una capanna di tronchi chiusa a chiave sul monte Ma’an, vicino all’attuale Ciqikou, sulla sponda occidentale del fiume Jialing, nella Manciuria centrale. Quando aprirono la porta, trovarono decine di persone vestite di stracci, affamate, malate e impaurite. I guerriglieri scoprirono ben presto chi erano: i sopravvissuti di un pogrom condotto nella regione dai comunisti cinesi e dai colonizzatori giapponesi. Kim li liberò e li accolse nel suo gruppo.
Tra loro c’erano venti-trenta bambini, orfani di membri della resistenza o delle vittime delle purghe giapponesi. La donna che se ne occupava, Kim Chong-suk, era così minuta da poter essere scambiata facilmente per una di loro. Alla fine Kim l’avrebbe sposata, e insieme sarebbero diventati padre e madre putativi di tutti gli orfani della resistenza e della Guerra di Corea. I due avrebbero poi fondato una nazione, la Repubblica popolare democratica di Corea (RpdC), diventando una sorta di genitori-simbolo di tutti gli abitanti e plasmando il Paese neonato sul modello di una famiglia-nazione. La dottrina dello juche avrebbe poi legittimato questa immagine di Kim Il-sung come leader saggio, padre e protettore della comunità, e di Kim Chong-suk come sua amata moglie e compagna, madre della nazione e dei suoi futuri sovrani.
Il primo mattone del progetto di costruzione dell’identità nazionale, sotto l’egida di due coniugi-genitori, furono gli orfani della lotta per l’indipendenza e, in seguito, all’inizio degli anni Cinquanta, quelli della Guerra di Corea. Costoro rappresentavano le future generazioni del Paese, ed ecco perché ancora oggi la leadership nordcoreana presta grande attenzione agli orfani. Nel 1947 Kim fondò un convitto per questi bambini, la Scuola per la prole dei martiri della rivoluzione. Poi ribattezzata Scuola rivoluzionaria Man’gyongdae,6 diventò l’incubatrice dei futuri alti papaveri della RpdC. La frequentò anche Kim Jong-il, figlio di Kim Il-sung e di Kim Chong-suk. Negli anni Sessanta, quando lo juche era ormai la dottrina di Stato, gli orfani contribuirono a riscrivere la storia della guerra d’indipendenza per ammantare di sacralità le sue tappe fondamentali. Così, per esempio, il luogo di nascita di Kim Jong-il, che era venuto al mondo in un campo sovietico a Chabarovsk nel 1942, venne spostato sul sacro monte Paektu, nel Nord del Paese, come vedremo più avanti.7 Questa montagna diventò un simbolo importante della mitologia juche, il luogo di nascita della rivoluzione. Così, gli orfani furono nominati custodi e interpreti dell’anima della nuova nazione, di un Paese e di un popolo che i genitori adottivi avevano modellato per loro.
Per capire il concetto di famiglia-nazione è indispensabile analizzare il ruolo che Confucio (551-479 a.C.) svolge ancora nella cultura coreana. Al centro della società sia coreana sia cinese si trova la famiglia, il nucleo dell’etica confuciana. Confucio riconduce l’architettura della società a cinque relazioni: sovrano-suddito, padre-figlio, fratello maggiore-fratello minore, marito-moglie e amico-amico. Due sono legami di sangue. I rapporti non sono mai paritari, nemmeno quelli tra amici, bensì si basano su valori e norme sociali precisi e ben codificati e sull’ideale confuciano del ren. Questo concetto definisce l’individuo. Un buon modo per spiegarlo è usare l’ideogramma cinese corrispondente, che si compone di due parti: un uomo in piedi accanto al numero 2, che indica pluralità. Dunque ogni persona esiste solo in relazione alle altre: è la pluralità, non l’individualismo, a descrivere l’umanità.
All’interno della famiglia, la venerazione riservata agli antenati serve anche a ricordare l’importanza della coesione.8 Nella vita politica, il sovrano ideale è «paragonabile alla stella polare, che resta immobile al suo posto mentre tutte le altre le ruotano intorno». Con questa massima, Confucio intendeva sottolineare l’importanza del sovrano come esempio da seguire per i sudditi, a prescindere dal rigore delle leggi. Come a dire che se il sovrano è buono e virtuoso, lo saranno anche i sudditi e la società sarà armoniosa.9 Ne consegue che l’unità e la stabilità dipendono dal mantenimento di una gerarchia. Individuo, famiglia e Stato sono regolati da un codice etico valido a tutti i livelli: in famiglia, i figli rispettano i genitori; nella società, i giovani onorano i vecchi; e nello Stato prevale la sottomissione dell’amministratore al sovrano. A differenza della teoria proposta da Thomas Hobbes nel Leviatano, in questa visione la natura umana è considerata essenzialmente positiva. Con la giusta istruzione e la guida della famiglia, l’individuo può assimilare un sistema di valori e un’etica di comportamento che gli permetteranno di svolgere appieno il suo ruolo nella vita collettiva. Allo stesso tempo, chiunque può raggiungere la vetta della scala sociale grazie ai propri m...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Kim Jong-un il nemico necessario
  4. Introduzione. Intolleranza orientalista
  5. Prologo. Crisi missilistica a lume di candela
  6. 1. Soffrire la fame
  7. 2. Identità spezzata
  8. 3. Economia di sopravvivenza
  9. 4. Lo status quo, il modello di sviluppo nordcoreano
  10. 5. Capro espiatorio informatico
  11. 6. L’ultima roccaforte del male
  12. Epilogo. Il futuro
  13. Appendice A. La guerra di Trump e Kim a colpi di tweet e test nucleari
  14. Appendice B. Cronologia della Corea del Nord
  15. Appendice C. Cronologia della Corea del Sud
  16. Appendice D. Cronologia del nucleare nordcoreano
  17. Glossario
  18. Note
  19. Bibliografia
  20. Indice