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Dopo il manicomio
| Ogni azione, anche la più piccola, apre e chiude una porta. |
MARGUERITE YOURCENAR
Venezia
Dei «matti» non ho mai avuto paura seriamente, nemmeno da piccolo.
Persone abbandonate a se stesse, questa l’idea che di loro mi ero fatta – intorno ai dieci anni, dopo i primi incontri occasionali; a Venezia, nell’isola di San Servolo, sulle scale di casa mia anche.
Mio padre dirigeva allora l’Economato della Provincia, a Ca’ Corner, sul Canal Grande: tra i suoi compiti quello di approvvigionare gli istituti che dipendevano dall’Ente locale, a cominciare dai manicomi. Due ce n’erano nella Serenissima, uno all’isola di San Clemente (donne), verso Pellestrina, l’altro all’isola di San Servolo (uomini), in direzione del Lido. Ogni anno le suore organizzavano qui un frugale rinfresco, in una saletta dell’ospedale; verso Pasqua, papà era sempre invitato, qualche volta mi portava con sé.
Ero un bambino, ricordo però l’approdo del vaporetto, all’imbarcadero, l’ingresso in quei tetri edifici con le sbarre, l’attraversamento di enormi corridoi zeppi di porte chiuse, sempre vuoti; un odore di brodo nell’aria, l’arrivo nella stanza in cui la madre superiora ci serviva dei biscotti fatti in casa, con una crosta di glassa sopra.
Gli ospiti veri e propri non li incrociavo da vicino; arrivavano qua e là rumori sordi, l’eco di qualche grido, dal fondo, porte sbattute, che rompevano il silenzio.
La cesta
Chi abitasse in quei posti, lo scoprivo il sabato pomeriggio.
Le suore, forse per ingraziarsi chi era preposto a soddisfare le necessità dell’istituto, organizzavano quel giorno una distribuzione in città di prodotti agricoli, delle due isole. Partiva una «caorlina» a remi, da lì, colma di grosse ceste di vimini, in ciascuna delle quali erano stipati carciofi, piselli, melanzane, zucchine e mazzi di asparagi. E il barcone arrivava nel centro storico, girava lungo i canali, recapitando a ognuno dei destinatari, casa per casa, l’omaggio preparato dalle monache.
A fare tutto ciò, sotto lo sguardo di un sorvegliante, erano alcuni ospiti del manicomio; scelti non so in che modo, suppongo tra i più affidabili.
Suonava il campanello verso la metà del pomeriggio, ero io ad aprire, mi affacciavo sul pianerottolo, restavo a guardare quelle persone che salivano gli 89 scalini (nove rampe, niente ascensore), portando sulle spalle la nostra cesta, a due coperchi emisferici: di solito uomini non più giovani, vestiti con una tuta blu, i capelli corti e brizzolati; rammento dei visi gentili, la pelle di chi è abituato a stare all’aria aperta, il colorito mezzo grigio però, una mancanza di espressione, movimenti legati e un po’ tristi.
Mi porgevano con un borbottio la cesta pesante alcuni chili, l’accoglievo con scarso interesse, non alzavo mai i coperchi per guardare dentro. Da piccolo odiavo la verdura.
Letture
Durante l’adolescenza, più tardi al liceo, fra i sestieri di San Marco e Dorsoduro, avrei conosciuto voci più diffuse, poco ospedaliere, dell’umana fragilità; quelle mie personali, di ragazzetto, quelle esterne dell’ambiente lagunare. Papà era morto, nessun motivo per tornare più a San Servolo. Avevo i capelli rossi, che poco erano di moda allora: una seria malattia in terza media, ai polmoni, l’erre moscia; fino a quindici anni ero basso di statura.
Venezia poi, la città dov’ero nato: acqua alta d’autunno, palazzi sbilenchi, nebbia fra un ponte e l’altro… quanta precarietà nella bellezza!
Le cose che leggevo, nei libri di casa, senza un gran metodo: troiani sconfitti in guerra, fanciulli incompresi, detenuti nella casa dei morti («Spostate quel mucchio di sabbia lì; bene, rimettetelo adesso dov’era», raccontava Dostoevskij). Un uomo che si svegliava, fra le ombre della sua stanza, trasformato in un grosso insetto; inglesi derelitti lungo i mari del Sud, che sembravano i più infelici, fra tutti, nelle novelle di Somerset Maugham.
Sabina
Nel mondo della sofferenza mi sarei di nuovo imbattuto qualche tempo dopo. Le questioni del disagio mentale mi apparvero, allorché conobbi Sabina F., a Trieste, verso i primi anni Ottanta, diverse da come avevo immaginato.
Avevo da poco ottenuto la cattedra universitaria, diritto privato: il che significava libertà di studiare, per il resto dell’esistenza, gli argomenti che davvero mi piacevano; nei modi che potevo prediligere.
La «follia» era uno di questi, per fedeltà ai ricordi, per scoprire chi ero io.
Sabina, bruna, lieve nei gesti, era un’operatrice di un Centro di salute mentale, quello di Sant’Ignazio: iscritta a medicina, di famiglia modesta, aveva lasciato temporaneamente la facoltà per mettere da parte un po’ di soldi: avrebbe ripreso gli studi più tardi. Frequentava un borsista dell’Istituto giuridico, le mie idee sul diritto non le dispiacevano: diventammo amici.
Venni presentato ai suoi colleghi; la cronaca delle attività svolte al Centro avrebbe rovesciato, in breve, ciò che immaginavo fosse e facesse la psichiatria.
Mi ero figurato, quando ci pensavo, dottori spettinati che esaminavano vetrini, misurando crani e mandibole, un compasso fra le mani. La prima volta che andai a prendere Sabina, dove lavorava, non vidi nulla del genere.
Giorno per giorno, ascoltando lei, sbirciando e origliando fra i paraventi, cominciai a capire.
Il Centro
Era un edificio anonimo il Centro, del primo dopoguerra; il portone sulla strada mancava di catenacci, nessun odore di disinfettante, niente rivoli di sangue. Una volta entrati si aprivano piani e corridoi, da cui si accedeva a varie stanze.
Pochi tra i frequentatori trascorrevano lì la notte, la maggior parte andava e veniva, fra le otto e le otto. Molti facevano cose tipo parlottare, intorno a un lungo tavolo, scrivere, pulire, cucinare; altri stavano zitti, leggevano, fumavano, mangiucchiavano.
Una mattina era arrivato in visita, sul prato della direzione, un destriero blu di cartapesta, montato su ruote, lunghe zampe, alto tre metri, «Marco» lo chiamavano (era il cavallo che un tempo trascinava il carretto con la biancheria da lavare, per tutti il simbolo della libertà conquistata).
Nella sala grande al primo piano, settimanalmente, si svolgevano assemblee, riunioni plenarie; uomini e donne, di varie età, provenienze: nessuno indossava divise, arduo decifrare – medici, pazienti? – chi facesse che cosa nella vita. I discorsi vertevano al 90 per cento su aspetti organizzativi: spazzatura, giardinaggio, oggetti da acquistare o da aggiustare, pitturazioni; bisticci, neo-pazienti in arrivo, rapporti esterni con le case-appartamento.
C’erano anche colloqui riservati, fra operatori e utenti singoli, in qualche angolo; familiari di passaggio, spaesati alcuni, più o meno fiduciosi. Venivano distribuite medicine, si programmavano feste, piccole spese, gite in barca terapeutiche; era sul mare Trieste, lo è ancora.
Primi interrogativi
Passò del tempo, cambiavano i pensieri.
C’era qualche contributo, riflettevo, che avrei potuto fornire, in veste di civilista, alla «causa» di Basaglia, al San Giovanni, come era chiamato l’ex reclusorio psichiatrico? La rivoluzione antimanicomiale che avanzava, di cui già si occupavano i penalisti, dopo la cancellazione formale degli «ospedali per i matti», era destinata a influenzare anche discipline come la mia?
Un lato comune a queste domande stava nel fatto, mi rendevo conto, che nessuno eccetto me se le poneva; Sabina mi era vicina, le sue inclinazioni professionali la rendevano poco assetata, tuttavia, di risposte giuridiche: con tutti gli altri, psichiatri e infermieri che avevo iniziato a frequentare, le diversità d’impianto erano ancor più marcate.
Sentivo che sarebbe durata ancora un po’, a quel modo: e poiché i colleghi in facoltà, da me, erano attratti dalla psichiatria perfino meno di quanto gli psichiatri si interessassero al diritto, era plausibile che sarei rimasto, entro quell’ambito, per qualche tempo in solitudine.
Meglio così, ero io a immaginarmi, chissà, vuoti di assistenza e approssimazioni tecniche che non esistevano.
Danni
Iniziai a riflettere; e due mi apparvero, dopo un po’, i crinali lungo i quali un uomo di legge poteva orientare i suoi quesiti.
Il primo era quello della responsabilità civile; mi limito ad accennarvi qui, sarà l’argomento di un prossimo capitolo. Complesse le istanze al riguardo. Gli ospiti del Centro in cui Sabina mi conduceva erano, tutti quanti, diventati «folli» per conto loro, spontaneamente? Oppure esisteva qualcosa, o qualcuno, entrato a gamba tesa nelle loro giornate, dieci o vent’anni prima, il cui intervento aveva spezzato un meccanismo gracile, precario?
Un equilibrio personale capace di durare parecchio altrimenti, tutta la vita magari?
Aveva senso in tal caso, ecco il diritto, interrogarsi sulla possibilità per la vittima di chiedere all’autore di quelle sventatezze o soperchierie – inflitte a scuola, in fabbrica, a casa, per strada, in qualche clinica – un risarcimento del danno?
Orientarsi
Il secondo versante atteneva alla vita ordinaria – senza che ricorressero torti veri e propri, a monte – di quanti vedevo aggirarsi per le stanze del Centro.
Rispetto a un fronte del genere c’era, tuttavia, qualche esigenza da soddisfare; un tratto morale e culturale insieme, che aveva iniziato a emergere: capire come valutassi io, nella mia testa, quale «cultore delle Pandette», ciò che ero venuto apprendendo da Sabina, che ogni giorno continuavo a imparare.
Sofferenti de-manicomializzati, luoghi terapeutici, nuove comunità, sanitari apprensivi e indaffarati: si trattava di un universo di vaste dimensioni, implicazioni; alcune di esse, intuivo, potevano appassionarmi di meno, certe altre apparivano spinose, controverse, qualcuna la recepivo fino a un certo punto.
Dopo un po’ il grigio, in quei bilanci, avrebbe preso a diradarsi. L’estraneo leguleio di Venezia cominciava a «lievitare», entrava in sintonia con l’ambiente: accorgendosi di quanto non funzionava, o sembrava carente, sui punti che attraversavano le sue competenze.
Basaglia
Sentivo di condividere anzitutto, fra i vari «dogmi basagliani», il no al manicomio.
Le vecchie cartoline di San Servolo, al di là di ogni nostalgia, sembravano poco confortanti: mi intristiva sfogliarle a lungo. Quello che si vedeva a Trieste o a Gorizia (oppure negli altri ex «frenocomi» che iniziavo ad attraversare, come conferenziere: Roma, Verona, Cernusco sul Naviglio, Imola, Volterra, Castiglione delle Stiviere) poteva essere meno plumbeo; non tanto però, al di là delle apparenze. Ovunque un senso di immobilità, creature omologate, difficoltà di respiro; sigle e numeri dappertutto, biografie grattate sulla calce, chissà quando, inferriate ai primi piani.
Si era trattato di soggetti a rischio, antichi mostri? Il rimedio ottocentesco aveva, in ogni caso, assunto cupezze oltre misura, totalizzanti.
Bene e male
Più d’una le linee che approvavo, dal Nordest.
No anzitutto alla prospettazione della «pericolosità», per sé e per gli altri, quale tratto connaturato all’infermità psichica: bastava offrire congrui appigli esistenziali, al sofferente, ed ecco scemare il tasso di ingestibilità; nei conflitti sul pianerottolo, anche in personalità per niente docili.
No a ravvisare nella biologia, nella genetica, le branche in grado di svelare da sole, «scientificamente», l’origine delle insufficienze mentali; talvolta era così, potevo constatarlo coi miei occhi: ben altri i fuochi del malessere invece, dall’emigrazione al lutto, dal lavoro alla scuola o agli affetti, in tante carriere di individui fragili di nervi, senza patria, a un passo dallo sfaldamento.
Mai rassegnarsi al «vezzo ostinato» degli elettroshock, delle lobotomie, dei coma insulinici: anche nella miglior ipotesi i benefici di stagione per l’utente, ammesso che ci fossero, a livello clinico, erano fin troppo sopravanzati dalla minaccia di controeffetti pesanti, a lunga incubazione.
Sì invece, con prudenza, a un ricorso ai farmaci messi a punto ultimamente – sapienti neo-molecole, con nomi vari, dagli effetti potenti – contro ogni forma di psicosi vecchia o inedita: promettevano di contenere fenomenologie poco ordinate, nei pazienti, autorizzando scommesse impensabili altrimenti, al di fuori delle mura ospedaliere; bastava non trasformarli nell’ennesima camicia di forza, a lacci duri, senza possibilità di ritorno.
Sì, in generale, al presentare la follia e i suoi correlati come grande laboratorio per riflessioni sulla devianza, nel suo insieme; in vista di strumenti contagiosi, a livello sia teorico che pratico, di nuovi tramiti ispettivi, non solo di tipo medico. Attenti alla quotidianità delle persone, alle loro relazioni con il prossimo, estensibili a ulteriori categorie di svantaggiati: detenuti, fuorusciti del terzo mondo, senzatetto, adolescenti sfortunati, morenti, portatori di dipendenze, disabili fisici o sensoriali, anziani della quinta età, analfabeti cronici. Magari agli stessi cittadini forti, colti nei momenti di pausa.
Augusta
Mai permissività o cedevolezze dinanzi a pratiche...