La vita quotidiana a Roma nel tardo Impero
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La vita quotidiana a Roma nel tardo Impero

  1. 320 pagine
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La vita quotidiana a Roma nel tardo Impero

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All'inizio del IV secolo d.C. Roma è una metropoli senza imperatori - che preferiscono risiedere altrove - e in balia di continue incursioni, carestie, e crisi demografiche. Le ricchezze che un tempo l'hanno resa grande sono ora facile preda per le orde di barbari, che non incontrano più resistenza militare ai confini dell'Impero. La città eterna è ferita fisicamente e mo- ralmente, ma riesce a medicare le proprie piaghe e a rialzarsi in fretta: feste, giochi, spettacoli e grandi opere di restauro riprendono ad animarla, e altezzosi patrizi continuano ad occuparne le strade lastricate, vantandosi delle loro ricchezze, accompagnati da signore che camminano con civetteria avvolte in tuniche alla moda. Dietro di loro legioni di schiavi. La società tardoantica infatti non rinuncia alla popolazione servile, ma le condizioni dei più miseri sono destinate a migliorare grazie alla diffusione del Cristianesimo, che trova sempre più adepti anche fra nobili e senatori. Il miracolo romano è dunque compiuto: Roma non è caduta, non è crollata, ma da solenne aquila imperiale è diventata la sedes Petri, culla della cristianità. Grazie a fonti letterarie, storiche e archeologiche Lançon ci accompagna fra le strade di una città in cui culti pagani e riti cristiani si legano indissolubilmente, in uno straordinario intreccio di tradizioni che conserviamo ancora oggi. Anche nel corso del lento declino dell'Impero, dunque, tutte le strade continuano a portare a Roma.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2018
ISBN
9788858693537
Argomento
History
MAIESTAS QUIRINI
La maestà quirinale

L’aspetto dell’Urbe

Ieri e oggi

Nessun’altra città, come Roma, offre a chi oggi la visita una simile impressione di sovrapposizione, di intreccio fra diverse testimonianze ed epoche della storia. Mettiamoci nei panni di un visitatore che percorra la città in Vespa come Nanni Moretti nel film Caro diario o in moto come nel finale notturno della Roma di Fellini o a piedi, da bravo turista. Supponiamo che questo visitatore abbia letto e apprezzato Autour des sept collines di Julien Gracq, che ami i quadri di argomento romano di Pierre de Valenciennes, di Hubert Robert e di Corot. Mentre sale lungo i colli, la musica di Respighi gli inonda lo spirito: i pini e le fontane sono infatti i testimoni più immutati della città antica. Nonostante lo stato di conservazione spesso davvero notevole, le vestigia dell’antica Roma sono delle rovine che ne mostrano l’aspetto di grandezza remota. Anche agli occhi di chi tentasse con uno sforzo di immaginazione di ricostruirla mentalmente quale poteva essere, la città sfugge ben difficilmente all’immagine romantica che ne hanno dato scrittori e pittori.
Mentre gli affreschi restaurati della cappella Sistina si avvicinano più fedelmente alla realtà dei tempi di Michelangelo, il nostro visitatore potrà avere una misura più fedele della città agli inizi del IV secolo della nostra era solo mettendosi di fronte al grande «plastico» della Roma di Costantino, che si deve a Italo Gismondi e si trova al museo della Civiltà Romana sito nel quartiere dell’EUR, concepito e realizzato in epoca fascista. Bisogna dunque superare una resistenza di natura non meno ideologica che estetica. In base al «plastico» e alle nostre conoscenze architettonico-decorative dell’antichità bisogna ammettere comunque che è il monumento più screditato della Roma contemporanea a rifletterne più fedelmente la realtà antica: l’Altare della Patria, la cui massa bianca si leva ai piedi del Campidoglio dai tempi dell’unificazione nazionale. I più lo giudicano orribile e pensano che con il suo cattivo gusto imbruttisca anche le zone circostanti. Eppure non c’è niente di più romano di questo monumento! Non c’è il minimo dubbio che ai Romani del IV secolo sarebbe piaciuto enormemente. Quello che a noi oggi piace in rovina a essi piaceva nuovo. Dove noi vediamo nudi mattoni e pietre isolate, invasi da erbacce irriducibili, dominio incontrastato dei gatti che vi sfrecciano veloci, i Romani ammiravano lucide decorazioni di travertino, di marmo o di stucco colorato. Essi aborrivano la patina e l’usura che oggi ammiriamo tanto mentre meditiamo sul destino degli imperi.
Se dalla Roma dell’anno 500 ci separano 1500 anni, 1250 anni separavano i Romani di allora dalla fondazione della città. Ciò significa che avevano anche loro sotto gli occhi secoli di stratificazioni architettoniche, erano stati testimoni della scomparsa di edifici antichi, della loro degradazione e del loro eventuale restauro, della costruzione di edifici nuovi. Anch’essi sperimentavano nostalgie, tristezze e stupori di fronte al paesaggio mutevole della loro città.
Perché il museo dell’EUR ha scelto, per il suo «plastico», la Roma costantiniana invece di quella, ad esempio, antonina? La risposta è facile. Sotto il regno di Costantino (306-337) furono completate le ultime grandi opere edilizie con la costruzione di terme e di una basilica. A quest’epoca corrisponde l’ultimo stadio della città «pagana» prima della sua trasformazione progressiva ma radicale a opera dell’innalzamento degli edifici cristiani. L’altra ragione è documentaria. Infatti la topografia romana del IV secolo è quella che ci è più nota: risalgono a quest’epoca i regionari che ci hanno tramandato la nomenclatura degli edifici romani regione per regione.

Una città fortificata

Ancor oggi si possono ammirare, varcando le porte di Roma, gli elementi ben conservati di una bella cinta di mura, che non deve farci però dimenticare come fino all’ultimo quarto del III secolo solo il centro dell’Urbe fosse fortificato. Le mura di cui stiamo parlando, costruite dal Senato per volontà di Aureliano (270-275) e completate da Probo (276-282) intorno al 279, rappresentano indubbiamente la più grande opera architettonica della Roma più tarda. Non è però una costruzione isolata. Consapevole delle minacce esercitate dai barbari, Aureliano aveva fatto fortificare molte città occidentali. Ad esempio in Gallia, dove le belle mura di Le Mans sono probabilmente contemporanee a quelle di Roma. Il loro perimetro è di 18,8 chilometri e circonda la maggior parte delle 14 regioni dell’Urbe, cioè un po’ più di 100 chilometri quadrati, e un po’ più tardi comprese anche la regione di Trastevere, sulla riva destra del fiume.
La base è costituita da una serie di blocchi di pietra completati da mattoni, di 4 metri di larghezza e di altezza equivalente. Su questo basamento erano state innalzate le mura propriamente dette, larghe un po’ più di un metro e alte 20 piedi, cioè poco meno di 6 metri. Nel complesso si aprivano 16 porte, 3 delle quali sulla riva destra, e sorgevano 381 torri quadrate disposte una ogni 30 metri, che comprendevano una camera e delle feritoie. L’ampia opera di fortificazione, innalzata in soli dieci anni, aveva qualche debolezza, come l’assenza di fossati, l’insufficiente altezza delle mura e l’assenza di torri lungo il Tevere a nord del Campo di Marte.
La sua costruzione, sviluppata su una base larga circa 19 metri, presupponeva l’esproprio di circa 350.000 metri quadrati di terreno dove si trovavano case, ville di campagna, orti, giardini, cimiteri e edifici pubblici (acquedotti, mausolei). Per guadagnare tempo e denaro, l’edificio incorporò elementi architettonici preesistenti, case e acquedotti. Gli scavi hanno portato alla luce un muro di casa dalle cui nicchie non erano nemmeno state estratte le statue. Le mura di un’altra casa, risalente al III secolo, quindi recente, erano state coperte; gli archeologi vi hanno trovato i pavimenti, i mosaici, gli affreschi e una scalinata di marmo.
In seguito furono allestite molte campagne di lavori pubblici al fine di riparare e rafforzare le mura superandone anche i difetti più evidenti. La prima ebbe luogo sotto Massenzio fra il 309 e il 312, la seconda, sotto Onorio, negli anni 401-403, fu intrapresa dal prefetto Longiniano.1 Postierle furono aggiunte e la cinta fu innalzata. Massenzio ordinò anche che si cominciasse a scavare un fossato. Onorio portò le mura a un’altezza di 15 metri e le fece rafforzare con merlature. Le porte e le torri furono restaurate e le parti sterrate furono livellate. Sempre a quest’epoca la cinta di mura fu estesa alla riva destra comprendendo una parte di Trastevere. Quando Onorio giunse nell’Urbe per inaugurare il suo sesto consolato, agli inizi del 404, fu dunque accolto in una cinta di mura ingrandita, irta di torri, il cui nuovo aspetto, secondo Claudiano, conferiva all’Urbe un volto nuovo. I lavori proseguirono puntualmente, in particolare dopo il sacco dei Visigoti, del 410. La 5a novella di Valentiniano III (425-455) ad esempio impone al prefetto dell’Urbe di riparare le parti smottate o frananti mettendo al lavoro, a questo scopo, le corporazioni romane. Sappiamo anche che altri lavori di restauro ebbero luogo nel corso del VI secolo, durante la guerra fra Giustiniano e i Goti.
La costruzione delle mura e i successivi lavori contribuirono all’innalzamento del suolo dell’Urbe. Ai tempi di Aureliano i materiali di sterro delle fondamenta delle mura erano stati gettati verso l’interno formando delle banchine alte fino a 3 metri. I nuovi sterri dovuti allo scavo del fossato nel 403 elevarono anche il livello del suo extra muros. Gli archeologi hanno messo in evidenza che la base di molte porte della cinta muraria si trovavano a un livello superiore di 3 o 4 metri rispetto a quello del basamento degli edifici del I secolo.

Il Pomoerium e le regioni

Le mura aureliano-probiane e i loro successivi restauri non sono solo il riflesso delle paure ossidionali della città: la Roma della tarda antichità, a differenza di quella dell’Alto Impero, era una città solidamente fortificata e non a scopi onorifici, ma difensivi. Era un indiscutibile segno dei tempi. Ma la costruzione delle mura ebbe un’altra conseguenza. Aureliano fece infatti coincidere il Pomoerium, il perimetro sacro della città, con il nuovo edificio. Fino allora il Pomoerium era delimitato da cippi. Claudio, Vespasiano, Adriano ne avevano modificato la delimitazione e prima di Aureliano esso misurava circa 14,9 chilometri. Con Aureliano, il Pomoerium di Roma si estese per l’ultima volta e non di poco. I 18,837 chilometri della cinta delle mura aureliane delimitavano uno spazio di 1372 ettari, cioè i tre quarti della superficie delle quattordici regioni dell’Urbe che comprendevano circa 1800 ettari. Il tracciato delle mura non corrispondeva a criteri militari, tecnici o finanziari, ma storici, e tentava di seguire il più possibile fedelmente il Pomoerium del 175.
Nel suo Elogio di Stilicone, Claudiano elogia l’incomparabile estensione della città, che non si lascia cogliere da un solo sguardo e che a suo parere non è superata da nulla che l’aria avvolga su tutta la terra.2 Roma restò la più grande città dell’Occidente, anche rispetto a Cartagine e a Milano, in tutta la tarda antichità. I suoi 1800 ettari furono divisi amministrativamente da Augusto in quattordici regioni di dimensioni e popolazione ineguali. Esse a loro volta erano divise in quartieri, i vici, posti sotto la responsabilità di vicomagistri. Alla fine del IV secolo, per decisione papale, alle regioni si sovrapposero sette regioni ecclesiastiche le quali, a partire dal V secolo, ricevettero un’armatura anche amministrativa. A capo di ognuna di esse papa Leone Magno pose un suddiacono, dei defensores e dei notai. Al tempo di Gregorio Magno si può dire che le regioni ecclesiastiche avevano sostituito l’antica divisione in quattordici regioni.

Le strade

La rete stradale che convergeva su Roma o ne partiva era la stessa dei tempi repubblicani. Con il Tevere, rappresentava il più straordinario esempio di permanenza della città. A sud l’Appia portava alla Campania, puntando quindi verso Brindisi. A nord, la Cassia portava a Milano e l’Aurelia in Liguria. La Flaminia si spingeva verso l’Adriatico attraverso l’Umbria. A sud-ovest l’Ostiense e la Portuense, larghe il doppio delle altre, costituivano il collegamento terrestre di Roma con i suoi porti.
Al di là del Pomoerium, lungo queste strade si erano insediati i cimiteri delle città. Furono i primi luoghi in cui furono costruiti edifici in onore dei martiri.
All’interno dell’Urbe, le strade non avevano nomi propri. Ne derivava naturalmente un’imprecisione registrata dai testi; in genere i punti di riferimento citati erano i monumenti più vicini. Solo le strade più importanti erano rettilinee, pavimentate e dotate di marciapiedi, ed erano comunque strette. Poche erano lastricate, nella maggior parte dei casi erano di terra battuta sparsa di blocchi di pietrisco compattati e recavano i segni del passaggio di carri e carretti che formavano solchi profondi.

Il Tevere

Il Tevere è un fiume modesto ma è il fiume di Roma, che gli ha attribuito una fama incomparabile rispetto alla esiguità del suo corso. Era stato deificato e fatto oggetto di culto ai tempi della Repubblica: non solo era indissociabile dalla Repubblica, ma ne rappresentava una specie di metonimia, come i sette colli. Quando Onorio arrivò a Roma nel 404 il suo primo atto, prima di entrare in città, consistette nel salutare il Tevere e fare una libagione in suo onore.3
Il Tevere ha la lunghezza (circa 400 chilometri) e la portata di un torrente e presentava non pochi inconvenienti per la stessa città. Da una parte il suo regime capriccioso lo rendeva soggetto a piene che provocavano inondazioni, dall’altra le zone basse dell’Urbe e del Lazio erano rese stabilmente paludose. Ma il fiume presentava anche grandissimi vantaggi, il principale dei quali era di essere navigabile soprattutto nei 35 chilometri del suo corso che separavano Roma dal mar Tirreno; e poi quello di fornire a Roma una fogna.
Il Tevere sorgeva nell’Appennino, e aveva il regime di un corso d’acqua di montagna. In primavera le sue acque si gonfiavano per lo scioglimento delle nevi e spesso esondavano. Claudiano ricorda le inondazioni che invadevano la città ai suoi tempi, contemporanee alla carestia provocata dalla guerra contro l’africano Gildone, nel 398-399. Il Tevere entrava nelle case e le copriva fino al tetto. Il livello del fiume era salito al punto che – precisa Claudiano un po’ drammaticamente – rischiava di raggiungere i tetti dei colli. I muri della residenza di Claudiano furono sommersi e quest’ultimo garantisce di averci visto passare sopra le imbarcazioni. Le zone basse erano naturalmente del tutto sommerse: il foro echeggiava del rumore dei remi.4 All’inizio del decimo libro della sua Historia Francorum, Gregorio di Tours cita una grave piena del Tevere nel 589. Di ritorno da Roma il diacono di Tours, Agilulfo, racconta che cosa era accaduto in novembre: un’inondazione di tale ampiezza da provocare il crollo di vecchi edifici, sommergere i depositi di cereali della Chiesa e distruggere migliaia di staia di grano. Il diacono Giovanni, biografo di Gregorio Magno, precisa che serpenti e bestiame galleggiavano alla deriva. Il cattivo drenaggio delle campagne circostanti le rendeva, inoltre, costantemente malariche.
Immagine 1 L’aspetto dell’Urbe
I Romani si occupavano seriamente delle rive. Non che si occupassero della manutenzione, al contrario. I soli punti curati erano le banchine, gli imbarcaderi e i depositi. Nel Campo di Marte le strutture dei Navalia furono conservate fino al VI secolo; Procopio ebbe occasione di vedervi attraccata una vecchia galera che i Romani conservavano piamente, indicandola come la nave di Enea.5 Sempre in questa regione, le fonti del Basso Impero citano il gentile nome di «cicogne appollaiate», ad ciconias nixas, dove sbarcava il vino, tanto atteso, per il consumo dei Romani. Lungo il Tevere sorgevano anche mulini galleggianti.
Dal prefetto dell’Urbe dipendevano, fin dai tempi di Augusto, dei magistrati incaricati della sorveglianza del Tevere e delle sue rive. Questa curatela durò fino al V secolo, ma fu sostituita da funzioni equivalen...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La vita quotidiana a Roma nel tardo impero
  4. Cronologia
  5. Introduzione
  6. MAIESTAS QUIRINI. La maestà quirinale
  7. PLEBES PATRESQUE. La plebe e i Padri
  8. RELIGIO. Religione e religiosità
  9. SAECULUM. Il secolo
  10. Conclusione
  11. Postfazione
  12. Bibliografia essenziale
  13. Indice