Imprevedibili istanti di felicità
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Imprevedibili istanti di felicità

  1. 160 pagine
  2. Italian
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Imprevedibili istanti di felicità

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Cosa fa di noi le persone che siamo? Quali sono le sensazioni, le emozioni che costituiscono l'impalcatura e la materia prima della nostra esistenza? Per Françoise Héritier esiste, in ciascuno di noi, un mondo prezioso da custodire e difendere: una zona di luce fatta di emozioni semplici e fugaci che accendono il nostro sguardo e ci tolgono il respiro, sorprendendoci di continuo. Lì è celata la bellezza delle piccole gioie quotidiane, che nei ricordi si confondono l'una con l'altra: un bel giro di valzer, la discussione con un professore, le caramelle al bergamotto di Nancy, l'offesa irreparabile di un amico, le grandi eroine di Almodóvar, una dichiarazione d'amore sotto la pioggia. Riprendendo il filo del Sale della vita, l'autrice torna a riflettere sull'essenza della vita, nelle sue insondabili e più imprevedibili declinazioni. Lo fa con l'ironia e la finezza dei grandi intellettuali, con la forza di chi ha vissuto la malattia, addentrandosi dove il buio è più fitto con i passi leggeri di chi ha capito quanto sia fragile, ma pervicace, la felicità.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2018
ISBN
9788858693001

SECONDA PARTE

Colpi di pollice

La giornata di oggi, lunedì di Pasquetta del 2017, è gelida e grigia, indicibilmente triste. Da dove scaturirà, questa volta, la scintilla? Da dove sgorgherà l’emozione? Viene da domandarselo, perché succede sempre nel modo più clamorosamente inatteso.
Le giornate si sono fatte lunghissime, da quando se ne è andata la luce del giorno: o forse il mio sguardo si è fatto meno penetrante? La vista si è affiochita? La retina è stanca? Magari, perché no, sono i raggi del sole che hanno smarrito il vigore di un tempo! Forse la natura si sta indebolendo insieme al nostro corpo, oppure noi la precediamo di qualche passo sulla via che porta al nulla e lei, fedele, ci accompagna per quella strada, illudendoci che sia lei, e non noi, a non avere più forze residue, a farsi sempre più piccola e fragile. Di fronte allo spettacolo dei fiori in boccio, dopotutto, la natura che è in noi, imbullonata al nostro essere, ci dice sempre: questo è per te, l’eletta, solo per te, la sola persona capace di cogliere come un tutto la loro crescita e la loro bellezza intransigente, generosa, la bellezza del turgore, la bellezza delle efflorescenze, la bellezza della grazie pensosa di certe corolle, degli stami, dei pistilli, sempre diversi a seconda delle specie, la bellezza diafana dei loro nomi, come «asfodelo», «viburno», «ranuncolo», «crisantemo», «digitale»…
Che cosa significa sapere? Che cosa significa invecchiare?
Sono due concetti che la lingua popolare tende molto spesso a confondere. La saggezza della vecchiaia, un vecchio che muore è una biblioteca che brucia, gallina vecchia fa buon brodo eccetera. Perché degli adagi così banali fanno ghiacciare il sangue nelle vene ai diretti interessati? Tu che sai tante cose, tu che dalla vita hai imparato tanto, tu, un pozzo di scienza, come si suol dire, tu che hai consacrato l’intera esistenza alla ricerca, accetta il rispetto che ti è dovuto! Sennonché il malcapitato pozzo di scienza, di fronte a quell’ingiunzione perentoria, torna a essere quello che in fondo è sempre stato: un pozzo senza fondo di apprensione, angoscia, incontenibile sgomento di fronte alla vastità della sua ignoranza e all’immensità di campi dello scibile nei quali non ha mai neppure osato avventurarsi.
Il depositario di questo presunto sapere che la mente stenta ad abbracciare nella sua interezza viene continuamente pungolato, tormentato dall’aculeo inesorabile del dubbio, unica parte emersa di quell’onniscienza che gli viene attribuita, ma una punta talmente sottile, talmente affilata che non si può dirne proprio nulla. Vengono a mancare le parole, il profilo delle cose sbiadisce, tutto quello che sembrava chiaro si rabbuia. Che cosa so? Niente, poco, troppo poco: della schiuma, della polvere. Dato un problema, il cervello umano riesce tutt’al più a maneggiare quei sei o sette concetti che la mente è in grado di coordinare e percepire simultaneamente, un campione prelevato a caso, come quando si abbassa la puntina del giradischi su un solco qualsiasi: il resto non è che una virtualità sospesa nell’istante.
Che cosa so? So di non sapere nulla, di sapere a malapena vivere.
Ho un talento straordinario per la procrastinazione, e ogni giorno devo costringermi a sbrigare almeno un’incombenza fastidiosa, come presentare la dichiarazione dei redditi a poche ore dalla scadenza, ma ogni volta mi ritrovo lo stesso con una pila di arretrati: la lettera di una compagna delle elementari, le richieste di sostegno di questa o quella ONG, una pubblicità messa da parte in vista di un possibile acquisto, un invito ufficiale a un convegno o a un altro evento al quale non ho alcuna intenzione di partecipare, eppure tardo a rispondere. Perché? Perché sì: perché tendo a procrastinare.
Non molto tempo fa, nella luce spietata di una porta socchiusa su un corridoio in penombra, sono rimasta sconvolta prendendo atto in modo brutale di quanto fosse cambiata la fisionomia familiare di un’amica che tendevo sempre a vedere e ricordare con il bel viso che aveva da giovane, sorridente, animato, caloroso, e ora, di botto, con una plasticità irresistibile, ecco apparire le rughe, le pappagorge, la carne che si lascia andare: una visione, una specie di allucinazione, poi, per mia fortuna, ho ritrovato la cara percezione di sempre… Non è affatto vero che si gongola vedendo le persone più giovani invecchiare, la loro carnagione spegnersi, le guance incavarsi, le zampe di gallina apparire agli angoli degli occhi, due profondi solchi verticali disegnarsi di rovello in rovello tra le sopracciglia, gli angoli della bocca piegarsi all’ingiù. È l’avanzare della decrepitezza nei corpi viventi, lo stesso per tutti. Eppure ciascuno è diverso: c’è chi conserva la lucentezza dei capelli, chi i suoi occhi da cerbiatta, chi il suo sorriso a bocca chiusa, gli angoli delle labbra leggermente sollevati, come nella celebre statua dell’angelo di Reims, chi ancora mantiene la flessuosità delle liane, capaci di piegarsi e raddrizzarsi con una grazia che lascia a bocca aperta. L’autorevolezza calorosa e protettiva dell’una, l’energia fenomenale dell’altra, che riesce a saltare tra impegni diversi anche dieci volte in un giorno senza mai perdere un colpo e, in tutte, una certa naturale benevolenza e la capacità di lasciar rifiorire ogni volta un’amicizia antica di decenni. Che cosa valgono, in confronto, le famose amicizie trentennali? Bazzecole! Noi sì che abbiamo avuto il tempo di prenderci le misure, di valutarci, di stimarci a vicenda, nel duplice senso della parola. I nostri rapporti non hanno nulla di interessato, non c’è di mezzo nessun «tornaconto». Sono una forma di respirazione indispensabile ai nostri giorni. Che cosa ne sarebbe di me senza un ancoraggio così solido nella mia storia e, mi auguro, nella loro?
Una volta, ai bei tempi, quando eravamo giovani, tanti anni fa? Un amico, divertito e perplesso, mi ha parlato del modo in cui suo figlio di otto anni si serve dell’espressione «una volta»: in senso assoluto e non relativo. «Una volta» non si riferisce all’epoca dei Galli, troppo lontana nel tempo, o alla Grande Guerra, troppo difficile da raffigurarsi, o all’uscita di Via col vento, che è un episodio tutto sommato secondario, ma pur sempre molto indicativo di un’epoca: per quel bambino, come probabilmente per i suoi coetanei in genere, l’espressione «una volta» designa il passato puro e semplice, l’epoca dei genitori e di tutte le persone che lo hanno preceduto, senza distinzioni, senza spessore genealogico o cronologico. In bocca a un bambino «una volta» significa per forza di cose «quando eri giovane tu»: in altri termini, quell’«una volta» dei bambini risponde al classico «ai miei tempi» degli adulti. «Ai miei tempi» dicono i vecchi. «Una volta» rispondono i più piccoli, in tono vagamente sprezzante, o in ogni caso non proprio impazienti di approfondire. Gli anziani li ripagano a suon di «tanti anni fa» e «quando eravamo giovani», branditi come rivendicazioni identitarie nel braccio di ferro tra le generazioni. Anche perché se i «vecchi tempi» sono per definizione anche dei «bei tempi» qualche merito ce lo avremo pure avuto, no? Una bambina di sette anni (una quindicina di anni fa) si divertiva a interrogare il nonno sulle cose inventate «ai suoi tempi». L’automobile? No: quella è venuta prima, risponde il nonno. L’aereo, la motocicletta, la lavatrice, la televisione? Ogni cosa veniva passata al setaccio di quella dicotomia: «ai tuoi tempi» o «prima». Si arriva al telefono cellulare. «E il telefono cellulare?» domanda la bambina. «Quello è roba dei tuoi tempi» replica il nonno: «quando è arrivato tu eri già nata». Un minuto di silenzio. La bambina, impreparata, si è vista costretta a prendere coscienza del peso della storia e del fatto di farne parte: di quel momento si potrà dire tra molti anni che ha avuto luogo «ai suoi tempi», «quando eri piccola», «una volta». È una rivelazione strabiliante: passare dallo status di ego manipolatore, dispensatore, al limite organizzatore del mondo, al ruolo di una formica che lavora nell’ombra insieme a milioni di altre formiche a quella che più tardi, a distanza di decenni, verrà percepita come una certa arte del vivere, indicativa di una data epoca, quella in cui si è vissuti.
Conosco un gatto che si chiama Vladimir. È bianco e molto timido. Il suo modo di fare non ha nulla a che vedere con il suo nome bellicoso. Si intrufola senza dare nell’occhio, si strofina contro i muri, li annusa, ma si dà alla fuga ogni volta che si cerca di accarezzarlo. Nessuno è mai riuscito a lisciare il suo pelo. Un giorno, mentre ero a letto, convalescente, ho sentito qualcosa cambiare all’improvviso nella qualità dell’aria o del silenzio intorno a me: ho aperto gli occhi ed ecco Vladimir in tutta la sua candida bellezza, immobile come un gufo, seduto sulla trapunta ai piedi del letto. Mi guardava, come se si fosse atteso qualcosa da me e io lo stessi deludendo. Si era intrufolato da una porta rimasta socchiusa. Tra noi è subito scattata un’intesa. Non saprei chi di noi due sia stato il primo a fare: «Miao».
Una volta si diceva dei vecchi che «ritornano bambini» quasi sempre per stigmatizzare un cedimento del pensiero e delle facoltà cognitive in genere, o, in altri casi, per mettere in risalto una certa affinità con la prima infanzia, legata al modo di ragionare dei più piccoli o alla loro dipendenza fisica e affettiva. Quante volte ci è stato imbandito un commovente e piacevole quadretto con bambini e anziani beati che passano il tempo insieme? Già, ma ci sono forse alternative? Con tutto il rispetto, ne dubito. La riprovazione sociale si abbatterebbe inesorabile sull’anziano che preferisse godersi il proprio tempo libero invece di «sacrificarlo» alla cura dei nipotini. Il linguaggio della custodia è stupefacente di per sé. Il nonno «bada» ai bambini come il pastore «bada» alle greggi per evitare che un capo si sperda. Si «tengono d’occhio» i bambini come si cerca di non «perdere di vista» gli oggetti preziosi. «Badare a qualcosa» significa proteggere un bene, ma anche esercitare un controllo, sorvegliare e sorvegliarsi (non per nulla «bada a fare questo o quello» significa sforzati tuo malgrado). Si custodiscono i preziosi, i beni mobili e immobili, le città nella loro cinta muraria, il potere. Nel caso dei bambini, però, «badare» significa anche lavarli, vestirli, alloggiarli, coccolarli, educarli, farli divertire, nutrirli, amarli. Quale arcano gioco di prestigio ha condotto dal registro anodino della sorveglianza a questa molteplicità di premure affettuose, mai enunciate come tali, ma implicite nel concetto? Forse perché «guardare» i bambini – e tutto ciò che «badare loro» comporta – è considerato un’incombenza femminile. C’è forse qualcosa di più banale e di meno impegnativo che «tenere d’occhio» i bambini…?
Non poter più decidere del proprio tempo è una ferita molto dolorosa. Non mi riferisco agli orari che strutturano la vita lavorativa, ma ai ritmi della vita nel loro insieme, perché a un certo punto la vita si trova a dipendere da appuntamenti aleatori e dalla presenza di questo o quel professionista della sanità. Occorre sottoporsi a un lento apprendistato dell’attesa: un’attesa ridotta all’attesa della degnazione altrui. Perché il tempo di una persona che giace in posizione orizzontale sembra valere molto meno di quello di un uomo che si regge in piedi? Perché si crede di poterne disporre senza remore? Forse gli assi orizzontale/verticale corrispondono alla polarità attivo/passivo, dal momento che il degente è per ciò stesso impotente, dunque sfaccendato (cioè senza nulla di speciale da fare), e quindi indefinitamente disponibile?
Esperienza penosa, o per meglio dire importuna, perché veramente triste sarebbe non attendere la visita di un viso familiare, non poter contare su nessuno al mondo, non avere nessuno da chiamare per nome e salutare in tono energico, sentendosi rispondere con attenzioni simili.
Questo 7 maggio 2017 è talmente freddo che verrà ricordato a lungo, e per ragioni più pressanti delle muffole nere con i brillantini che indosso per scrivere queste righe, con una grande stella di morbidissimo cachemire delicatamente intrecciato, di un tono grigioazzurro, dono di una persona molto cara, il tutto abbinato a un abito piuttosto vistoso dove prevale il color verde anice, scelto stamattina per invocare la primavera. Primavera, non fare sciocchezze! Ti prego, non buttarti di sotto! Temo di avere l’aria un po’ «kitsch», come dicono i giovani d’oggi.
Come è possibile che ricordi così poco della mia infanzia, della mia adolescenza, di intere plaghe della mia vita adulta? Loro sì, un bel giorno, si sono buttate dalla finestra. Ricordo dei momenti intensi o decisivi, come la torrida estate del 1942, per esempio, o la prima volta che ho tagliato l’erba con la falce. Ahimè! Molti di quei ricordi non sono poi così gradevoli. L’esodo del 1940 e il volo in picchiata dei caccia italiani, i terribili bombardamenti alleati su Saint-Étienne, Rive-de-Gier, La Ricamarie, la linea che correva tra la Francia libera e la Francia occupata dai nazisti, tagliando in due anche la nostra famigliola, le misteriose sedute di ascolto di Radio Londra. Altri ricordi infantili sono buffi, ma hanno lasciato il segno soprattutto a causa di un’umiliazione. Per esempio la vergogna di non avere capito quando per nostro tramite la maestra ha chiesto ai nostri genitori un campione di urine per l’esame sistematico dell’albumina, la paura e l’indignazione che mi hanno assalita quando ho capito che cosa il papà e la mamma si aspettavano da me, lo scandalo al pensiero che osassero fraintendere una consegna così semplice…
Mai e poi mai! Meglio morta che portare in classe un bicchiere pieno della mia pipì, sicuramente la maestra intendeva un’altra cosa…
Mi ricordo anche dell’istituto Sévigné di Saint-Étienne, è chiaro, ma come un’esperienza complessiva. In superficie, però, galleggiano alcune immagini chiave, come un gruppetto di bambine della stessa classe (quarta o quinta elementare) riunite in cerchio sotto una tettoia per mimare una filastrocca che diceva:
Dieci giovani in un prato
Tutte e dieci da marito:
C’era la Dina, c’era la Cina
Con Claudina e con Martina
Ah! Ah! Ah!
Caterinetta e Caterina
E pure la bella Suzon
Con la duchessa di Montbazon
C’erano anche la Célimène
E la piccola Du Maine.
Passava il figlio del re:
Saluta la Dina, saluta la Cina ecc.
Bacia la piccola Du Maine.
E a tutte donava una gioia:
Anello alla Dina, anello alla Cina ecc.
Collana alla piccola Du Maine.
E tutte invitava per cena:
Mela alla Dina, mela alla Cina ecc.
Arancia alla piccola Du Maine.
E tutte metteva a dormire:
Paglia alla Dina, paglia alla Cina ecc.
E letto alla piccola Du Maine.
E poi a casa le rimandava
Saluti alla Dina, saluti alla Cina ecc.
(Non avete idea del brutale schiocco delle braccia con il quale salutavamo la loro uscita di scena)
E resta la piccola Du Maine.
Tutte insistevano per impersonare la Du Maine o il principe: occorreva tirare a sorte quel privilegio. Mi ricordo di quel dettaglio e delle uniformi color vinaccia sormontate da un ampio cappellino da pescatore, ma non so più nulla delle cose che ho studiato o dei miei insegnanti di allora. Rivedo solo il grottesco maestro di inglese, con il cranio sormontato dall’impalcatura boccolosa che andava di moda in quegli anni. Ho dimenticato anche tutte le mie compagne di classe, a eccezione della smorfiosetta di cui ho già parlato, un autentico genio della zizzania, capace di avvelenare tutti i rapporti reciproci, e di una bambina compita e tranquilla che invece era mia amica.
Non so più nulla del viaggio da casa, né dell’ingresso in convitto, ma ricordo invece quando sono venuta a Parigi per frequentare le scuole medie al liceo Racine, il cui portone si affacciava su un ingresso laterale della gare Saint-Lazare, tra rue de Rome e rue du Rocher. Una rottura radicale con gli anni trascorsi a SaintÉtienne, in un istituto religioso. Al Racine ho imparato a pensare con la mia testa, specialmente grazie a un’insegnante di francese, vivace e severa. Una volta sono andata a trovarla a casa: era malata. Quella visita mi ha destabilizzata, perché l’ho trovata in camicione da notte in un letto disfatto, dettaglio comprensibile, dato che non stava bene. Eppure qualcosa stonava, qualcosa che non avrei saputo definire, un sentimento che non riuscivo a mettere a fuoco, ma che altro non era se non la caduta di un idolo.
Le lezioni di filosofia mi hanno curata una volta per tutte da ogni velleità di fuga nel pensiero astratto. Colpa di una vecchia professoressa sull’orlo della pensione che invece di insegnare belava con voce monocorde, senza staccare gli occhi dal quaderno, un corso manoscritto rilegato tra due copertine, talmente sgualcito dagli anni di utilizzo da cadere pressoché a brandelli. È dura cominciare a bruciapelo da Kant a quindici anni in circostanze del genere. Dettaglio anomalo: è l’unica insegnante di cui ricordo il nome.
In educazione fisica ero una frana. Il salto in alto e la ginnastica al cavallo o alla sbarra erano la mia croce. Recuperavo con il getto del peso, anche se all’epoca ero minuta come un fuscello. Andavo molto fiera del mio talento in quella disciplina, come della mia bella voce di soprano, che mi era valsa l’ammissione alla corale dei licei di Parigi. Cantavamo pagine di Bach in occasione delle cerimonie annuali di premiazione nella grande aula magna della Sorbona o al Théâtre du Châtelet.
E poi, naturalmente, c’era il corso di economia domestica il sabato. Ho già precisato che il liceo Racine era un istituto femminile, un po’ come il Chaptal, che all’epoca era una scuola media, era riservato ai ragazzi? Studiavamo cucito (dai reggiseni ai polsini delle camicie da uomo), maglia e cucina. Il frutto delle nostre fatiche dovevano ingollarselo le nostre famiglie, dall’antipasto di sedano in salsa piccante con la panna bruciacchiata in poi. Non ho brutti ricordi di quel corso, anzi, devo avere conservato in un cassetto qualche esempio dei lavoretti di quegli anni.
Ricordo di essermi sposata nel 1958 a Tougan, di fronte al comandante del locale cercle (distretto o circoscrizione amministrativa coloniale), in quello che all’epoca portava ancora il nome di Alto Volta, cioè l’odierno Burkina Faso: era tutto raggiante al pensiero di recitare la parte dell’ufficiale di stato civile per unire in matrimonio due europei (come si diceva all’epoca per evitare la parola «bianchi»).
Io, mi si consenta questa ennesima divagazione sartoriale, indossavo un fiabesco abito in pizzo inglese con una gonna che si apriva a coro...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. «Accomodatevi, prego.»
  4. PRIMA PARTE. Spigolature
  5. SECONDA PARTE. Colpi di pollice