PARTE SECONDA 5
Nel casone di Cichero
«Giunti a questo punto» osservai, «il modo più sensato di continuare una conversazione, che immagino sarà molto lunga, è di raccontarmi quando hai deciso di fare il partigiano. E per quale strada sei arrivato al famoso casone di Cichero, dove stava accampata la prima banda di Bisagno…»
Mazzucco si lisciò la pelata: «Ho capito, purtroppo. Dico purtroppo visto che dovrò parlare di me. Non mi piace farlo, dal momento che in questa Italia, un paese che non riconosco più, i protagonismi si sprecano. Come se tutti fossimo i figli del re di Prussia! E io preferirei sottrarmi a questa moda che mi disturba.
«Comunque, nel settembre del 1943 dovevo compiere vent’anni e mi dedicavo a una sola cosa: trovare delle signore da abbordare e convincerle a cedere alle mie voglie. Attento: non sto parlando di ragazze, ma di donne sposate, fra i trenta e i quarant’anni. Insomma, ero un lavativo. Non avevo completato gli studi da geometra perché ero un indolente e i libri mi davano il mal di testa. Dunque non avevo un mestiere, neppure il più semplice.
«Per dirla tutta, vivevo alla giornata, grazie ai soldi che riuscivo a scucire alle signore che spasimavano per me. E adesso non accusarmi di essere stato un mantenuto. Prima di te ho pensato anch’io di essermi ridotto così. L’unica differenza consisteva nel fatto che le clienti ero io a sceglierle e poi a lasciarle. In quel settembre avevo una relazione con una signora di Chiavari, una riccona sui quarant’anni. Me l’aveva presentata una madama di Genova. Mi ero stufato di lei, ma non riuscivo a togliermela di dosso. Lei piangeva e giurava di amarmi. Insomma, mi ero infilato in un bel guaio!
«A salvarmi fu il padrone di una pensione da poche monete dove alloggiavo a Chiavari. Doveva essere un comunista o un antifascista senza partito. Un giorno mi prese in disparte: “Dalla carta d’identità che mi hai consegnato vedo che sei del 1924, dunque tra qualche mese compirai vent’anni. Hai un solo modo per sfuggire a quella tardona piena di soldi: andare con le prime bande di ribelli e fare qualcosa di utile. Ne conosco una, sta sopra Chiavari, nel territorio del comune di San Colombano Certenoli.
«“La località precisa è Cichero, sempre in provincia di Genova. In un casone chiamato ‘di Stecca’ si è raccolto un piccolo gruppo di ribelli comandati da un ragazzo genovese, un certo Bisagno. Da quanto mi risulta, sono quattro gatti e ti accoglieranno a braccia aperte. Digli che ti mando io, il padrone della pensione Marinella. Uno di loro mi conosce bene e si fideranno di te”».
«Resta da spiegare perché Bisagno avesse scelto quel posto e non un altro» osservai a Mazzucco.
«Ti confesso che non me lo sono mai domandato» rispose lui. «Il motivo l’ho compreso anni dopo leggendo il libro sulla Resistenza scritto da Manlio Calegari. Comunisti e partigiani racconta che Bisagno e Bini, un personaggio che tra poco ti presenterò, nell’ottobre del 1943 si erano trovati a Chiavari per incontrare due membri del Comitato militare del Cln ligure che avevano il compito di censire e di finanziare i primi gruppi che si erano dati alla macchia.
«All’incontro era presente un ragioniere cattolico, rimasto senza nome. Fu lui a parlare di Cichero e del casone di Stecca dove Bisagno e Bini avrebbero potuto sistemarsi. Il ragioniere disse ai due: “Potrete restare lì per un po’ di tempo, dopo ve la vedrete voi”.»
Chiesi a Mazzucco di descrivermi il casone di Cichero. Lui mi sorprese: «È inutile fare tanti giri di parole. Guarda questa foto a colori, scattata molti anni dopo. E capirai tutto da solo, senza pretendere uno dei tanti sproloqui sui primi passi di Bisagno da comandante partigiano».
Si vedeva una costruzione rustica a due piani. Il primo era per metà interrato e un tempo forse veniva usato come stalla. Il secondo spaziava sul territorio circostante, a cominciare dalle montagne dell’alta val Cichero.
Proposi al Narratore: «Fammi vedere su una carta geografica dove è collocato questo casone».
Lui alzò le spalle, sostenendo che non serviva nessuna carta geografica. Prese un foglio bianco e vi tracciò con il lapis una linea diagonale che dal basso a sinistra saliva verso l’angolo in alto a destra. Quindi puntò la matita sull’inizio della linea. «Immagina che qui ci sia il mare. E sul mare ci sia Chiavari. Vai su, ecco il paese di Cichero, roba da poco, non più di duecento anime, a cinquecento metri d’altezza. Vai ancora più in su: lì c’era il casone di Stecca. Più in alto ancora, dove finisce la diagonale, ecco il monte Ramaceto, una cima sui milletrecento metri. Tutto qui.»
«Quando sei arrivato, chi hai trovato nel casone?» domandai.
«Sei tizi come il sottoscritto, tutti giovanissimi. E poi Bisagno. Lui era del 1921 e dunque aveva compiuto da poco i ventidue anni. Alto, magro, bello, muscoloso, taciturno. Compresi subito che era nato per comandare. Abituato a fare domande, pretendeva risposte precise. Mi chiese da dove venivo, se avevo studiato, se ero stato militare. Poi concluse: “Vivere nel casone di Cichero e prepararsi a combattere i tedeschi e i fascisti ti farà bene. Soprattutto per un motivo: ti toglierà tutti i grilli che hai per la testa e imparerai che stare al mondo non è facile. Cerca di andare d’accordo con i tuoi nuovi compagni. E con il pensiero ringrazia l’albergatore di Chiavari che ti ha mandato da me a Cichero”.
«Il dormitorio della banda, otto uomini in tutto, stava nella parte interrata per metà del casone. Qualche coperta stravecchia e rattoppata, pagliericci di foglie di meliga e soprattutto una grande quantità di foglie di castagno. Scavavi un buco nel fogliame, ti coprivi con le foglie e cercavi di prendere sonno. Il piano rialzato era un grande stanzone. Lì si cucinava, si mangiava, si faceva l’istruzione sulle armi, fucili e rivoltelle, tutta roba dell’esercito italiano che Bisagno aveva portato via da qualche deposito lasciato senza custodia dopo l’armistizio. Per scaldarci, nel camerone c’erano un paio di vecchie stufe, riparate alla meglio. E un po’ di brasere o di caldane. Ci mettevi la brace e stavi lì sopra a guardarti le dita, per capire se erano sul punto di congelarsi o no.»
«Provi mai nostalgia del casone di Cichero?» chiesi a Mazzucco.
Lui chiuse gli occhi e si abbandonò sullo schienale della sedia che stava alle spalle della scrivania. Poi sospirò: «Come si fa a non avercela la nostalgia? Tu non te ne rendi conto, ma scrivendo la biografia di Bisagno scrivi anche un romanzo sulla giovinezza della generazione che precede la tua. Quella che si è trovata a metà tra due guerre. Anche noi partigiani eravamo giovani o giovanissimi. Non eravamo tanti. Insieme facevamo due eserciti da ridere che si ammazzavano come se dovessero decidere le sorti del pianeta. Ma io sono stato uno di quelli che si trovavano dalla parte giusta. E nonostante questo, gli italiani ci hanno già dimenticato!
«L’altra cosa che ricordo» continuò Mazzucco, «è che avevamo sempre freddo. I due inverni in montagna sono stati un patimento continuo. Un gelo che faceva cantare i denti. Una sbisa che spaccava le pietre. L’Appennino era una ghiacciaia dove si barbellava ogni minuto: rigidi per il freddo, avevamo le mani e le gambe così addormentate che dopo un po’ non le sentivamo più. Il vestito portato da casa, la maglia pesante, il gilè imbottito, la giacca, il paltò non bastavano mai. E non restava che recitare il Paternoster.
«La terza cosa che rammento è la fame, soprattutto nel primo inverno, quello tra il 1943 e il 1944. Ho imparato la parola fame in tanti di quei dialetti! Luppa, brasca, sgaiosa, barloca. I partigiani dell’Oltrepò Pavese la fame non la conoscevano: potevano legare le vigne con le salsicce. Ma da noi, sull’Appennino, il mangiare mancava sempre. Non ce n’era neppure per i contadini. Stavamo di continuo in cerca di roba da mettere sotto i denti. Però il menu non cambiava mai: castagne, polenta di castagne e di nuovo castagne. Unica variante: il pane. Allora era una festa: si mangiava pane e sputi, pane e coltello. Ma la castagna restava il nostro vero pane.
«Una manciata valeva oro. Quelle bollite le contavamo una per una, perché il rancio fosse uguale per tutti. Lo stesso con i fagioli. Il giorno che ci è arrivato un bel sacchetto di fagioli secchi, abbiamo contato anche loro. Tutti dovevano avere la stessa razione, fosse pure di un solo fagiolo a testa.»
«Raccontami dei capi che hai incontrato nel casone di Cichero» chiesi a Mazzucco.
«Di Bisagno ti ho già detto. Ma voglio descrivertelo meglio. Sembrava un personaggio di un film sui cavalieri di re Artù, quelli della tavola rotonda. Atletico, una barba corta tra il rossiccio e il biondo, un coraggio spericolato, altruista, cattolico dalla testa ai piedi, di un’austerità da frate. A ventidue anni era ancora vergine. Non parlava mai di donne e non era sboccato. Aveva un’idea fissa: tirare su una formazione di ribelli capaci di mandare al tappeto la Germania di Hitler e la repubblichetta di Mussolini.
«Si era accoppiato bene con Bini, Giovanni Serbandini, un professore del 1912, nove anni più di lui, comunista e poeta. Anche Bini era un monaco, ma rosso. Un missionario del marxismo-leninismo, capace di qualunque sacrificio, preciso, pignolo, due più due doveva sempre fare quattro, mai tre e mezzo o quattro virgola qualcosa. Scriveva poesie, e portava una barbetta da cinese. Ha fatto tutta la guerra partigiana. È mancato a Lavagna nel 1999, quando aveva ottantasette anni. E l’Italia non era più la stessa, era diventata peggiore.»
«E del Codice di Cichero, che cosa mi dici?» domandai a Mazzucco.
Lui mi sorrise: «Si è molto fantasticato su questo codice, come se fosse una legge messa nero su bianco da Bisagno e da Bini. In realtà si trattava di regole di comportamento che valevano per chi arrivava al casone, sia che fosse destinato a restarci oppure ad andarsene dopo un po’ di tempo. Era stato Bisagno a imporle, per evitare che la guerriglia cambiasse in peggio gli atteggiamenti dei partigiani più giovani…».
«Che cosa ordinavano queste regole?» chiesi al Narratore.
«Se devo evitare la retorica, e restare con i piedi per terra, direi tutto e niente. Per esempio, non bisogna molestare le ragazze. Ma neppure essere scontrosi con i contadini: da loro dipendeva la nostra sopravvivenza. Non si deve sprecare neppure una briciola di pane. I comandanti hanno l’obbligo di dimostrare che meritano l’incarico ricevuto. Mangiano per ultimi. Rinunciano a fumare le sigarette che gli spettano come agli altri del casone. Rifiutano qualsiasi favoritismo. Non bestemmiano, un divieto che riguardava anche l’ultimo dei partigiani. Bisagno era il più austero. E sino all’ultimo ha ripetuto il suo credo. Non si doveva odiare il nemico, ma soltanto combatterlo. Non si doveva torturare chi veniva preso prigioniero, né fare rappresaglie. E neppure fregarsene dei danni ai civili…»
«Dunque è vero che a Cichero non si poteva bestemmiare?» domandai a Mazzucco.
«Sì. In proposito ti racconterò il mio primo colloquio con lui. Stavo al casone da pochi giorni e mi avevano messo a fare il turno di guardia dalla mezzanotte alle tre. Dovevo resistere a un freddo birbone e tiravo giù delle madonne! È comparso Bisagno e con un sorriso che mordeva mi ha detto, in dialetto genovese: “Mi sembrava che tu bestemmiassi per il gelo. Ricordati che qui non si bestemmia, i contadini di questa vallata sono tutti devoti e non vogliamo avere noie per un nostro comportamento sbagliato!”.»
«Ha detto proprio “devoti”?» chiesi, meravigliato.
Mazzucco sorrise: «Ha detto proprio così. Sai che cosa mi ha ricordato quella parola? Il parroco del Duomo della nostra città. La differenza è che Bisagno era un parroco che sparava e andava all’assalto con il fucile in mano e il coltello in tasca!».
«Tu non hai più bestemmiato?» domandai a Mazzucco.
Lui mi sganciò un sorriso furbo: «Sì, ma di nascosto e quando sapevo che il comandante si trovava lontano dal casone di Cichero».
6
L’uomo del Comintern
«A mano a mano che cresceva l’importanza della guerriglia partigiana, a Cichero si cominciarono a vedere dei personaggi molto diversi da Bisagno» mi raccontò Mazzucco. «Erano tutti comunisti, spediti in montagna dal Pci di Genova, per controllare quanto stava avvenendo nelle bande della cosiddetta Sesta zona ligure. E per tutelare gli interessi del partito di Palmiro Togliatti e di Luigi Longo, il responsabile militare delle formazioni garibaldine.
«Qualcuno di loro aveva alle spalle una lunga storia di militanza rivoluzionaria e di partecipazione a guerre civili combattute o subite in giro per il mondo. Il più singolare si rivelò Anton Ukmar, arrivato nel territorio partigiano il 14 giugno 1944, con l’incarico di prendere il comando della zona dalla quale dipendeva anche la formazione di Bisagno. Adesso ti racconterò la sua storia, esemplare per comprendere che sono i conflitti armati lo scenario più adatto per intuire di quale pasta siano fatti gli esseri umani.»
«Per capire sino in fondo, e disprezzare a ragion veduta, la figura di Ukmar, bisogna inquadrarla nella storia dei guerriglieri del Comintern, la Terza internazionale comunista fondata nel 1919 da Lenin. Si era data un programma di rivoluzione mondiale e stimolò la costituzione di partiti comunisti in varie nazioni. Indebolita dal prevalere al suo interno degli interessi sovietici e dallo sviluppo del fascismo in Europa, fu sciolta nel 1943, quando la seconda guerra mondiale stava devastando l’intero vecchio continente.
«Ma la dissoluzione del Comintern non portò alla scomparsa fisica dei tanti guerriglieri che avevano combattuto per quella Spectre rossa. Molti di loro restavano uomini in grado di partecipare ai numerosi movimenti di resistenza che si opponevano al predominio del nazifascismo. Si battevano per un doppio risultato: la sconfitta di Hitler e di Mussolini e, insieme, la vittoria di un altro totalitarismo, quello sovietico.
«Uno di questi personaggi era per l’appunto Ukmar. Aveva al suo attivo un percorso rivoluzionario importante, tutto svolto agli ordini di Mosca e preceduto da un lungo soggiorno in Unione Sovietica negli anni terribili delle purghe staliniane. E infine approdato in Italia, a Genova, dove divenne famoso con un nome di battaglia breve e secco come un colpo di pistola: Miro.
«Ukmar era nato il 6 dicembre 1900 a Prosecco, una frazione di Trieste. Quel villaggio sul Carso, in quel tempo tutto di etnia slovena, era abitato in gran parte da povera gente. Gli Ukmar facevano i contadini ed ebbero l’ardire di mettere al mondo ben dieci figli. Anton era il terzo e imparò subito che il piatto della minestra non si riempie da solo. Venne messo al lavoro quando era poco più che un bambino. Ma poiché era intelligente concluse subito le elementari e poi frequentò due classi dell’avviamento in lingua tedesca.
«Esiste una fotografia che rivela molte cose di quel tempo. Scattata nell’agosto 1912, ci presenta un imponente ritratto di famiglia, con bambini e bambine di tutte le età. Al centro spicca il ragazzino Anton, allora avviato a compiere i dodici anni. È davvero un bel figliolo. Ritto sull’attenti, la coppola ben piantata sulla testa, con lo sguardo vigile e fiero.
«Anton cominciò a faticare mentre andava ancora alle elementari. Piccoli lavori in campagna, sorveglianza del bestiame, viaggi con la mamma nei mercati per vendere le verdure cresciute nell’orto, la raccolta dell’uva e delle ciliegie. Insomma, tutto quanto poteva contribuire a integrare il magro bilancio famigliare.
«Il primo lavoro stabile fu da aiutante giardiniere nel parco di Miramare. Poi, a diciassette anni, entrò in ferrovia. Il ragazzo parlava ben tre lingue: sloveno, italiano e tedesco. E questo lo aiutò molto, soprattutto quando si trovò a fare il guerrigliero professionale.
«Diventato ferroviere, prestò servizio sempre nella stessa zona: Aurisina, Trieste, Monfalcone, Opicina. Il carattere lo spinse a gettarsi dentro le prime lotte operaie dopo la fine della guerra mondiale. Nel 1926 si iscrisse al Pci e per questo venne schedato come antifascista e sovversivo. Tanto che nell’estate del 1927 le ferrovie lo spedirono lontano da Trieste, in una stazione secondaria di Genova.
«Il fascismo stava diventando un regime» ricordò il Narratore. «E il destino di Ukmar era segnato. Alla fine del 1928, fu arrestato come membro della cellula genovese dei ferrovieri comunisti, licenziato e rispedito a Prosecco con il foglio di via. Rientrato al suo paese, proseguì il lavoro politico antifascista nella comunità slovena. Al punto che alla fine del 1929 si vide costretto a espatriare in Jugoslavia, a Lubiana, la capitale della Slovenia.»
«Da Lubiana, Ukmar partì per il suo primo viaggio all’interno del comunismo europeo. Il partito lo aiutò a lasciare la Slovenia e a passare in Austria. Da Vienna andò in Cecoslovacchia, poi in Germania, in Lussemburgo e infine in Francia. Si diresse subito a Parigi dove fu accolto dal Centro estero del Pci. Aveva trent’anni e una buona esperienza di antifascista militante. E il partito lo inserì nella commissione speciale per la Venezia Giulia.
«Il compagno Anton lavorò al fianco di Luigi Frausin, un triestino di Muggia, più anziano di due anni, che nell’agosto 1944 verrà ucciso dai fascisti o dai tedeschi nella Risiera di San Sabba. I dirigenti comunisti consideravano Ukmar un quadro di valore. E nel dicembre 1931, previo accordo con il Comintern, decisero di mandarlo a Mosca.
«Il motivo ufficiale era di aiutarlo a studiare all’Università Lenin, nella sezione italiana. La ragione vera non è conosciuta. Ma la storia di quegli anni ci dice che l’Urss stava allestendo una rete di militanti in grado di agire su ogni fronte di guerra. Dunque non è un azzardo immaginare che Ukmar abbia ricevuto, insieme a quella politica, anche un’istruzione militare.
«In un solo anno, Anton completò il corso e imparò il russo. Quindi venne inviato a lavorare come operaio in due fabbriche, a Leningrado e a Mosca. E nel 1933, con il nome di Ogenj, ossia Fuoco, fu accolto nella sezione jugoslava di un’altra università, quella riservata alle minoranze etniche dell’Occidente.
«La sezione era conosciuta con il nome in gergo di Aspirantura ed era destinata a creare i futuri dirigenti comunisti. Anche qui Ukmar si rivelò un allievo modello, studiando a testa bassa per tre anni. Imparò a parlare francese. E conobbe compagni che sarebbero diventati i leader del comunismo di Tito, a cominciare da Edvard Kardelj, per anni vicepremier del Maresciallo.
«Nel giugno del 1936, concluso il corso all’Aspirantura, Ukmar ritornò a Parigi. E in settembre venne subito spedito in Spagna, dove era iniziata la guerra civile. Ma qui non andò al fronte. Un quadro politico come lui non poteva finire in qualche Brigata internazionale e rischiare la vita negli scontri con i franchisti. Infatti gli affidarono un incarico delicato: occuparsi dello spionaggio e del controspionaggio.
«Insieme ai comunisti spagnoli, Ukmar diede vita a una struttura nuova: il Servicio Special, un servizi...