L'estate degli inganni
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L'estate degli inganni

  1. 392 pagine
  2. Italian
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L'estate degli inganni

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Rischiare la pelle non è mai stato un problema per l'ex colonnello dei carabinieri Annibale Canessa, fin dai tempi in cui era ai vertici del Nucleo antiterrorismo, durante gli anni di piombo. Sguardo obliquo che incenerisce o seduce, implacabile charme da eroe solitario, "Carrarmato Canessa" sembra cambiato, adesso che divide la sua vita con Carla Trovati, la giovane, irresistibile giornalista capace di stregargli il cuore. Ma per chi, malgrado tutto, continua a credere nella giustizia, niente può cambiare davvero. E quando il Mossad gli fornisce la prova per riaprire il caso dell'attentato alla stazione, la strage consumata in una torrida estate d'inizio anni Ottanta, Canessa decide d'investigare. In principio con ritrosia, poi con la testarda determinazione che l'ha reso una leggenda. Oscure presenze del passato stanno tornando per ingaggiare una partita letale. Così Annibale si lascia coinvolgere in un intrigo che rimanda ai segreti della guerra fredda e al conflitto invisibile combattuto, tre decenni prima, dalle grandi potenze nei cieli del Mediterraneo. Al suo fianco, i "soci" di sempre: il fidato maresciallo Ivan Repetto, l'eccentrico miliardario Piercarlo Rossi, detto " il Vampa ", e il prefetto Calandra, dirigente dei Servizi con la passione per la buona cucina e le belle donne. Mentre indaga sugli enigmi dell'estate di sangue, stagione d'inganni, depistaggi e tradimenti che ha spazzato via l'ultimo resto di innocenza in Italia, Canessa finirà per mettere in gioco ciò che gli è più caro in nome della verità.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2018
ISBN
9788858692073

Molti anni prima
Aprile

Ferruccio Baroni procedeva lentamente lungo il sentiero che portava al pontile, sul lato sud dell’isola, verso Bosisio Parini. Sebbene la distanza con l’altra sponda, a nord, fosse molto inferiore, era da Bosisio che partivano i collegamenti con la terraferma. Ed era al pontile dove attraccavano i battelli che l’ex ministro era diretto per la sua nuotata serale, immancabile rito da aprile a ottobre. Senza curarsi della temperatura dell’acqua, ci teneva a precisare. Era in accappatoio azzurro e infradito dello stesso colore, ma non si trattava di un vezzo, solo di un abbinamento fortuito. Sotto aveva il costume-bermuda d’ordinanza, un vecchio capo sbiadito, a cui era affezionato. Malgrado le richieste e i tentativi della moglie di acquistarne uno nuovo, Baroni si rifiutava di cambiarlo.
La sera era mite, a occidente si allungavano le ultime luci del tramonto. L’ora giusta per una passeggiata a cui non rinunciava mai, con qualsiasi clima, ma meglio durante la bella stagione, dopo l’entrata in vigore dell’ora legale che allungava le giornate.
Baroni aveva sempre amato la sua isola, che il nonno aveva acquistato alla fine dell’Ottocento: l’Isola dei Cipressi, sul lago di Pusiano, uno dei tanti specchi d’acqua della Lombardia, situato tra le province di Como e Lecco.
La famiglia Baroni possedeva un’azienda tessile che le aveva dato prosperità, e lui ricordava il nonno lamentarsi in continuazione, fin sul letto di morte, perché i figli – il padre e lo zio di Ferruccio – a un certo punto, avevano riconvertito l’impresa. Baroni era affezionato alla casa con i muri in pietra a vista, i mobili che popolavano gli ambienti, i tappeti, i quadri, la scalinata da cui era appena sceso. Stare lì, su un’isola in mezzo a un piccolo, appartato lago lombardo – niente a che vedere col Maggiore o col Garda – gli trasmetteva un senso di solidità. Amava i centotrenta cipressi che davano il nome all’isola, molto meno gli animali che il padre, zoologo dilettante, aveva lasciato liberi di scorrazzare.
Le bestie non gli piacevano. Era quasi vegetariano, ma non per questioni etiche, bensì per gusto e sapore. Per fortuna le uniche che si vedevano in giro erano i pavoni che, a parte mostrare le variopinte ruote, non procuravano un gran fastidio. Il resto della fauna stava rintanata nel piccolo bosco.
Ferruccio percorse il prato verso la punta est, passando davanti al luogo in cui, quando era un ministro della Repubblica, potente e riverito, avevano costruito un eliporto. A spese dello Stato, perché – fosse dipeso da lui – avrebbe continuato a spostarsi da una sponda all’altra con il motoscafo. Aveva detto ai funzionari che era uno spreco, che una cifra simile, compreso il costo della benzina, si sarebbe potuta utilizzare per altri scopi.
Ma loro avevano replicato che era assurdo arrivare in aereo o in elicottero fino a Milano, oppure alla base militare di Bresso, per prendere un’auto e infine una barca a motore. A conti fatti, non c’era un gran risparmio. Da Bresso all’Isola erano quindici minuti di volo. Lui aveva preteso, però, che la piazzola fosse dipinta di verde. Così, almeno, quando arrivava dall’alto, gli sarebbe rimasta l’impressione che ci fosse solo prato, come sempre era stato.
Ai tempi d’oro – finiti solo un anno prima, mica un secolo – c’era quasi sempre un elicottero sulla piazzola e un paio di piloti che si riposavano in uno dei bungalow dietro la villa, seminascosti dagli alberi. Era capitato che gli elicotteri fossero due e, in occasione di un vertice per un nuovo governo, addirittura tre. C’era anche un battello dei carabinieri, della polizia o della Guardia di Finanza a perlustrare il lago quando lui era lì. Del resto era diventato ministro, un ministro molto potente.
A Baroni l’elicottero non mancava. Era convinto che deturpasse il paesaggio oltre a provocare un frastuono infernale. E stava pensando di rimuovere pure la piazzola. Sì, ci pensava, ma senza decidersi a farlo.
Gli mancavano, però, i tempi in cui era stato ministro. La politica era il suo pane, le Partecipazioni Statali il forno dove esercitava le proprie abilità.
E malediceva il giorno in cui, dopo un decennio in un posto chiave, dove stava da pascià, su suggerimento della coppia Tavelli-Lamperti, in un rimpasto di governo, aveva accettato di passare agli Esteri. In realtà non avrebbe potuto maledirli, perché Baroni era un cattolico praticante. Nato a Inverigo, si era sposato con una milanese, una di città insomma, però con i suoi stessi valori, che lui definiva «di provincia». Avevano due figli, ma ancora nessun nipote, e questo era l’unico cruccio.
A parte l’altro.
Ferruccio non era mai stato interessato al denaro. La sua famiglia aveva abbandonato il settore tessile, vendendo bene le attrezzature che possedeva. Il padre aveva intuito che, terminata la Seconda guerra mondiale, stavano tornando i soldi e la gente li avrebbe spesi. Prima di tutto per le case. E allora le strade percorribili per accumulare in fretta ingenti guadagni erano due: costruire gli appartamenti o arredarli. Se possibile, a buon mercato. Così erano diventati mobilieri e, durante il boom economico, avevano guadagnato tantissimo, arredando le case degli italiani, quelli della nascente media borghesia. I loro camion erano bianchi, con una riga rossa che percorreva tutta la fiancata. Sul portellone spiccava una enorme B. Erano conosciuti da tutti.
Quando la grande avventura del boom aveva imboccato il viale del tramonto e già si avvertivano i primi sussulti di malcontento popolare, causato dalla crisi economica e dall’incertezza sociale, suo fratello maggiore Mario – uomo lungimirante collocato dal padre con l’assenso di Ferruccio ai vertici dell’azienda – aveva avuto l’intuizione giusta. Vendere i mobilifici, diversificare, investire in altre attività: alberghi, edilizia – ma solo di lusso –, villaggi vacanze. Ferruccio non se n’era mai interessato, si fidava del fratello. E a ogni riunione del consiglio di amministrazione, in cui veniva presentato il bilancio annuale, non si stupiva dei sostanziosi dividendi. Quando uno è in gamba, è in gamba. E lui poteva dedicarsi alla politica.
Non gli interessava neanche il potere, non era bramoso come Lamperti e Tavelli. No, Baroni pensava davvero di poter dare una mano, di contribuire allo sviluppo dell’Italia. Rientrava alla perfezione tra gli esponenti di quella borghesia lombarda, ottimista e positiva, che si era imposta alla guida del Paese. Da un punto di vista economico, certo. Ma aveva sempre pensato che non bastasse, che bisognasse spendersi anche nel governo della Repubblica per il bene comune.
Così aveva dedicato alla politica quasi tutta la sua vita. Secondo il fratello, Ferruccio studiava da onorevole e da ministro anche alle elementari. E ora era lì, in esilio, a causa di una maledetta faccenda. Perché lui, a differenza di altri, aveva una morale, una coscienza, e non riusciva a sopportare l’idea di convivere, da politico di primo piano, con un peso simile, con una sporcizia del genere da lui stesso avallata.
Perciò se n’era andato, da un giorno all’altro. Non appena erano state indette le elezioni anticipate e il presidente della Repubblica aveva sciolto le Camere, aveva convocato una conferenza stampa e comunicato al popolo italiano che non si sarebbe ricandidato e che la sua carriera politica sarebbe finita lì, «per motivi di famiglia, a cui negli ultimi vent’anni ho dedicato solo una parte, troppo piccola, del mio tempo».
Il clamore era stato enorme, l’impatto mediatico fortissimo. Per un paio di giorni la notizia aveva infiammato le prime pagine dei giornali e i titoli di testa dei notiziari televisivi erano stati dedicati a lui, tra rivelazioni, retroscena e interviste a chi si presumeva sapesse molto, ma che poi, in conclusione, non sapeva un bel niente. Ne erano già passate sulla stampa di vicende come la sua. Avevano scomodato perfino gli psicologi, per indagare le motivazioni dell’addio.
Poi, come sempre accadeva e sarebbe accaduto, la notizia del suo congedo era stata spostata un po’ più in là, poi più in basso, poi un po’ più in piccolo, poi nelle pagine interne e, infine, era scomparsa del tutto.
Baroni si era ritirato sulla sua isola, difeso dall’acqua e dalla famiglia del custode, un gigante di Pola, fuggito dall’Istria quando quella fetta d’Italia era stata inghiottita dalla Jugoslavia del maresciallo Tito. Il gigante, Fausto all’anagrafe, non lo chiamava mai così, «perché Tito assomiglia a un nome italiano». Per lui era Josip Broz, com’era nato. E aggiungeva una serie di epiteti e di maledizioni a corredo.
Era un buono, però, Fausto, molto protettivo nei confronti di tutti i Baroni. Nel periodo successivo all’annuncio del suo esilio dal governo e dalla ribalta politica, Fausto correva da una parte all’altra dell’isola, con una doppietta caricata a sale, e sparava alle barche di fotografi e giornalisti troppo invadenti. Per fortuna, non aveva mai colpito nessuno. Ma ne aveva spaventati molti.
Ferruccio Baroni sorrise, mentre si avvicinava al pontile. C’era, nella piazzola che lo precedeva, una panchina. Si sedette un momento a guardare il tramonto. Era bellissimo. Nei primi giorni dopo la fine della sua carriera, non aveva potuto nuotare per la presenza dei media. Era stata una privazione tremenda da sopportare.
Sorrise di nuovo pensando che, in fondo, il suo ritiro aveva portato, per qualche mese, grande giovamento all’economia della zona. Camere affittate in piccoli alberghi e in abitazioni private, trattorie, osterie, bar, gommoni, barche, perfino canoe: tutto era stato preso d’assalto.
Ma adesso nessuno pensava più a lui, a un ministro potente che da un momento all’altro aveva deciso di mollare il potere. Giorni prima, il suo barcaiolo, riaccompagnandolo a casa dopo una commissione, aveva scherzato: «Onorevole, perché non dichiara che sta pensando di tornare a Roma? Niente di vero, ma lei butta lì una mezza rivelazione, così i rompiscatole tornano di nuovo per un po’ e dopo il garage mi faccio anche una macchina da metterci dentro».
Ferruccio Baroni era scoppiato a ridere. «Ci penserò, Gianni.»
Gli mancava la politica, certo. Eppure poteva vivere anche senza. In fondo, si disse, non gli mancava così tanto da decidere di tornare indietro. Anche di Roma non aveva alcuna nostalgia. Una città che non gli era mai piaciuta. Anzi, l’aveva sempre detestata. Troppo caotica, distratta, piena di esseri umani che si credevano più furbi degli altri, di inutili salotti, di personaggi ambigui con cui bisognava avere rapporti, nonostante lui, brianzolo concreto e realista, non ne avesse la minima voglia.
Non rimpiangeva neanche i colleghi, le lunghe vasche nel Transatlantico di Montecitorio, le riunioni fumose, interminabili e inconcludenti, di partito o di governo. Non gli mancavano neppure gli spostamenti, le auto blu, le sirene. Non avere sempre dietro la scorta gli comunicava un impagabile senso di libertà.
Non gli mancava nulla.
Tranne una coscienza pulita.
Di tutti i presunti segreti e retroscena elencati per giustificare il suo fragoroso addio al governo e alla politica, nessuno corrispondeva alla verità. Tra i cronisti sguinzagliati sulle sue tracce non ce n’era uno che fosse riuscito a individuare la reale ragione dell’abbandono. E come avrebbero potuto? Malattia, donne, uomini – una rivista, tra le più scandalistiche, aveva lasciato trapelare l’idea che Baroni fosse un omosessuale non dichiarato, e vittima di un ricatto – crisi esistenziale, figli caduti in brutti giri, adulterio, suo o della moglie. Su quest’ultima ipotesi entrambi avevano scherzato a lungo.
In tanti avevano detto la loro, ma nessuno, come in un quiz televisivo difficilissimo, aveva azzeccato la risposta. Poi si erano stancati di cercare. E per un lungo periodo anche Baroni non ci aveva più rimuginato sopra: lui la risposta la conosceva fin troppo bene. Viveva quasi sempre sull’isola con la moglie e, quando potevano o volevano, si aggiungevano i figli. Aveva viaggiato in luoghi che erano stati da sempre nei suoi desideri. Ogni tanto andava a Milano per il teatro o il cinema. E non si perdeva, come quando ancora non era ministro, la prima della Scala, ogni 7 dicembre. Quella era l’unica occasione in cui si serviva ancora di un autista, solo per risparmiarsi la fatica del parcheggio. Per il resto, lui e la moglie conducevano una vita monastica.
«Ti manca solo il saio, papà» aveva scherzato sua figlia, durante l’ultimo pranzo di Pasqua. Forse era stato l’accenno al monachesimo, ma da mesi si arrovellava su ciò che avevano commesso, sul loro patto scellerato. Ed erano emersi i dubbi, i ripensamenti. Del resto era stato educato in un certo modo, secondo certi principi. Il cattolicesimo, ma anche il rispetto laico, borghese e lombardo per le regole e l’onestà.
Le cattive azioni lo avevano sempre angustiato, fin da bambino.
Per anni aveva assistito al flusso illegale di denaro che entrava nelle casse dei partiti, ma aveva contenuto i rigurgiti morali, non toccando neanche una lira e ritenendo che l’Italia e l’Occidente si trovassero in guerra. Un conflitto non dichiarato, ma evidente e tangibile. Era convinto che il denaro contribuisse al successo dei partiti come il suo, e che quindi fosse un modo per sostenere la democrazia, per non far prevalere il rivale rosso, per contrastare «quelli là» che mantenevano il loro temibile apparato grazie alle somme provenienti da Mosca. I soldi servivano per la macchina politico-organizzativa, volta a contrastare i comunisti, sempre a un passo dal grande salto, dal paventato, catastrofico sorpasso. Nessuno di loro si arricchiva, in fondo, o almeno nessuno di quelli che gli erano più vicini. E degli altri preferiva non sapere. Dubitava che tutti disdegnassero, come lui, il fiume di banconote in cui infilare le mani, come bambini sulla riva di un fiume. Ma con questo riusciva a convivere, malgrado un senso di malessere.
Però la storia di quattro anni prima non riusciva più a tenerla sepolta sotto la sua coscienza come aveva fatto in principio. Strano, all’inizio era stato più facile non pensarci. Ma non doveva essere il contrario? Con il passare del tempo, non avrebbe dovuto dimenticare? A lui, invece, stava capitando l’opposto.
Ai tempi si era concesso una giustificazione per quella nefandezza: il bene del Paese. Ma ogni volta che si ripresentava il ricordo, il senso di colpa cresceva a dismisura.
Come doveva agire? Era dubbioso. Indire una conferenza stampa per rivelare tutto e andare incontro al pubblico disprezzo e alle inevitabili conseguenze giudiziarie?
Senza confidarsi con nessuno, aveva contattato un amico del figlio, uno in gamba. L’aveva visto crescere e, nonostante fosse giovane, era una persona perbene, quasi uno di famiglia.
Si erano incontrati un sabato in modo da essere soli, negli uffici di una delle aziende dei Baroni, vicino a Seregno. Avevano studiato nei minimi dettagli una linea d’azione. Ferruccio era davvero soddisfatto, si sentiva molto meglio, finalmente libero. Aveva preso la decisione giusta, ne era convinto.
Si alzò e s’infilò la cuffia sulla testa. Lasciò l’accappatoio sulla panchina e si avvicinò al bordo del pontile. Respirò a pieni polmoni, poi fece il segno della croce e si tuffò, con uno stile impeccabile. Riemerse a qualche metro di distanza e cominciò a nuotare verso ovest, costeggiando l’isola.
Il sub era rimasto acquattato in un tratto della riva ricoperto da un canneto. Offriva un buon nascondiglio. Nei giorni precedenti aveva studiato il rito quotidiano del ministro, constatando che non cambiava mai. Il sub amava gli abitudinari. E Baroni, dopo il tuffo, percorreva lo stesso tratto, raggiungeva la punta, poi compiva il percorso in senso opposto, fino all’altra estremità dell’isola, quindi ritornava al pontile, risalendo dalla scaletta di metallo sistemata sul lato destro. Sempre uguale. Proprio come gliel’avevano descritto. Bene. Il sub vide che l’uomo si stava avvicinando, infilò il boccaglio collegato alla bombola d’ossigeno, controllò la cintura con i pesi – ne aveva messi due supplementari, a scanso di equivoci – e si immerse piano, allontanandosi dal nascondiglio. L’acqua era fresca e non inquinata, si era sincerato a riguardo. Ma poteva essere torbida. Anche se non avesse avuto una perfetta visuale, a lui bastava seguire la scia del nuotatore. Se lo lasciò sfilare davanti, poi iniziò ad andargli dietro, tenendosi a qualche metro di profondità.
Ferruccio Baroni nuotava rilassato e non si accorse di nulla, fino a quando, una dopo l’altra, si sentì agguantare entrambe le caviglie, e venne trascinato inesorabilmente a fondo. Pensò a un m...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’estate degli inganni
  4. In principio
  5. Molti anni prima Luglio
  6. Molti anni prima Luglio
  7. Molti anni prima Aprile
  8. Molti anni prima Luglio-Agosto-Settembre
  9. Qualche mese dopo Marzo
  10. Nota dell’autore