Il figlio perduto
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Il figlio perduto

  1. 378 pagine
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Il figlio perduto

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Sulla strada che da Milano porta a Como, per oltre un secolo un cancello di ferro ha segnato il confine tra follia e normalità, tra il mondo immobile dei pazzi e quello di chi, fuori, è impegnato a fare la Storia. È il 1933, anno XI dell'Era Fascista, quando Giuseppe varca quel confine per fare il suo ingresso nel manicomio di Mombello. Non ha più casa né famiglia, solo la speranza che tra quelle mura possano curarlo dal "male caduco" che senza preavviso s'impossessa di lui. Le sue giornate sono scandite dalle ore vuote nel padiglione Tranquilli e quelle di lavoro nello studio del direttore. Fino a quando incrocia lo sguardo cupo di un ragazzo della sua età che dice di chiamarsi «Benito Mussolini» e sostiene di essere il figlio del Duce. Ricoverato contro la sua volontà nel reparto Agitati, Benito Albino Bernardi teme che gli infermieri lo avvelenino e inizia a manifestare segni sempre più preoccupanti di squilibrio, perché ha la certezza che da Mombello non uscirà mai. Non è pazzo, dice a tutti - come quasi tutti lì dentro. Ma in quell'inferno il suo è un grido disperato e vano. Neppure Giuseppe, l'unico amico che ha, riuscirà a dargli una ragione per andare avanti, ma spetterà a lui raccontare la verità sulla sua fine: una pagina oscura e dimenticata dalla grande Storia, che Alessandro Gallenzi ci restituisce come una fotografia d'epoca in questo romanzo vibrante di dolore e umanità.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2018
ISBN
9788858692844
PARTE PRIMA

Prologo

A chi fosse uscito da Milano verso la fine del Settecento e avesse proseguito una decina di miglia sulla strada per Como, sarebbe apparso sulla sinistra, in cima a un poggetto alberato, l’elegante palazzo di Mombello, un tempo appartenente ai Pusterla e a quell’epoca proprietà della famiglia Crivelli. Dai tetti della villa si sarebbe potuto dominare l’intero arco delle Alpi, con il massiccio del Monte Rosa a occidente e, verso oriente, le prealpi comasche e le montagne del bergamasco, digradanti tra le distese della Brianza fino alla pianura milanese. Là, alta su tutti gli altri edifici, si stagliava la mole del Duomo, visibile nelle giornate serene e incorniciata dal profilo degli Appennini all’orizzonte.
Tra gli alberi della pineta che si stendeva ai piedi del colle passeggiava da solo in un pomeriggio di giugno del 1797 Napoleone Bonaparte, il giovane generale che l’anno prima aveva guidato l’entrata trionfale dell’esercito francese a Milano dopo aver sconfitto quello austriaco e piemontese. Aveva ancora freschi nella memoria i cadaveri e il sangue delle battaglie più recenti, e l’angoscia per il futuro gli faceva passare notti insonni.
Ma ad agitare la sua mente, quel giorno, non erano questioni diplomatiche o rovelli militari. Si preoccupava invece se con quel caldo soffocante la ghiacciaia della villa sarebbe bastata a tenere in fresco il cibo e i vini per la guarnigione e per le feste serali che aveva indetto. Pensava a quel parroco caprone – don Brioschi, o come diavolo si chiamava – che gli aveva fatto mille difficoltà pur di non celebrare le nozze delle sorelle, tanto che era stato costretto a mandare uno squadrone di cavalleria a chiedere la dispensa all’arcivescovo di Milano. Ma l’avrebbe spuntata lui alla fine su quel prete. Più di tutto però era in pensiero per la sua “vecchietta”, Giuseppina, rinchiusa in camera da due giorni dopo che il mastino del cuoco aveva ucciso il suo adorato Fortuné. A dire il vero, aveva provato un brivido di piacere vedendo il corpo straziato, i denti scoperti, la lingua floscia di quel cagnaccio: non aveva dimenticato il morso che gli aveva dato alla gamba quella volta che aveva cercato di scacciarlo dal letto della moglie. Ma non sopportava di restare separato da Giuseppina un altro momento, e i pianti che sentiva dall’altra parte della parete lo facevano impazzire. Le avrebbe subito fatto consegnare una lettera in camera. Le gocce profumate di resina di un temporale estivo andarono a interrompere i pensieri del generale corso in quel pomeriggio di giugno.
Il vento della storia ha spazzato via lo scricchiolio dei suoi stivali che si inerpicavano sulla terra secca verso la cima del poggio, nonché il fragore e i fumi di Trafalgar, Austerlitz e Waterloo.
Dopo neanche cent’anni, il palazzo di Mombello è trasformato in un manicomio. Nelle sale lussuose e lungo i corridoi ornati in cui rimbombava il suono di feste e balli ora si aggirano torme di dementi. Là dove il giovane conquistatore urlava ordini ai suoi legionari polacchi si vedono dei poveri mentecatti seduti a capo chino sulle panche, chiusi in un muto stupore. Nel giardino in cui le sorelle di Napoleone saltavano la corda spensierate, un folle zappa un’aiuola. Le notti che per secoli erano rimaste placide e silenziose sono ora lacerate da risa, voci e grida demoniache.

Capitolo 1

Oltrepassai i cancelli dell’Ospedale psichiatrico di Mombello una mattina piovosa d’inizio settembre del 1933, Anno XI dell’Era Fascista. Avevo ventun anni, una valigetta di pelle che mi seguiva da quando ero entrato ancora bambino in collegio, e non possedevo casa, famiglia né orologio. Un infermiere mi accompagnò in una saletta di un edificio a due piani per la visita d’ingresso. Un dottore mi fece spogliare, mi misurò l’altezza, mi tastò il polso e mi esaminò occhi e lingua, poi mi chiese di rivestirmi e accomodarmi su una sedia di fronte a una scrivania carica di scartoffie e cartelle cliniche.
Qualche minuto dopo, entrò un altro dottore, e dietro il direttore dell’ospedale, un uomo di mezza età con la barba grigia, gli occhiali e lo stetoscopio al collo, anche lui in camice bianco, che sembrava più alto di quanto non fosse per via della sua camminata impettita. Si presentò col nome di professor Luigi Lugiato.
«Allora» disse il direttore, sedendosi alla scrivania, «vediamo oggi chi abbiamo, è vero?» Aprì un fascicolo e avvicinò un foglio al naso. «Giuseppe Giudici di fu Antonio, classe 1912.» Alzò gli occhi e mi vide annuire. «Professione: studente. Chiede di essere ammesso di sua spontanea volontà in base all’articolo 53 del regolamento del 16 agosto 1909, eccetera eccetera, avendo raggiunto la maggiore età ed essendo cosciente del proprio stato di alienazione parziale di mente.» Il direttore emise un sospiro e si raddrizzò sulla sedia. «Ma dài, Giuseppe… che ci viene a fare un bel giovanotto come te – alto, sano, robusto – in un posto come questo? L’ospedale è già al completo, è vero? Non facciamo a tempo a costruire altri padiglioni che si riempiono subito fino a scoppiare. Non ci servono mica altri ricoverati – specie quelli che sembrano in salute e capaci come te.»
Vedendo che non rispondevo, passò il foglio a uno dei dottori e gli fece segno di prendere appunti.
«Casi di malattie mentali in famiglia? Precedenti di pellagra, alcolismo? Attacchi nervosi? Tendenze suicide, melanconia? No?»
«No, professore.»
«Perché allora hai deciso di entrare a Mombello?»
«Soffro di mal caduco» dissi, abbassando gli occhi per un momento.
Il direttore si lisciò la barba. «Ah sì? Crisi ricorrenti?»
«Due o tre volte al mese.»
«Mmm, ho capito. Descrivimi uno dei tuoi attacchi, se puoi.»
«Be’, prima di sentirmi male, per un po’ di giorni, avverto come… come una sensazione di benessere.»
«Di euforia, è vero? È normale. È normale, Giuseppe.»
«Sì. Poi a un tratto mi sembra come di cadere in un pozzo. Tutto diventa nero, non esiste più nulla.»
«E poi?»
«E poi passo giornate intere senza fare niente. Non riesco a pensare. La mente è vuota, non sento più nulla. Perdo la voglia di fare, di vivere. Poi piano piano comincio a riscuotermi, a sentire di nuovo… le cose… i suoni, gli odori.»
«Anche questo è normale. È da molto che soffri di questo male?»
«Da quando sono rimasto orfano e m’hanno messo in collegio. Avrò avuto sei anni.»
«Ho capito» disse il professore, abbozzando un sorriso e facendosi ripassare il foglio. «Quindi vogliamo vedere se un po’ di tranquillità e d’aria buona ci aiutano a sentirci meglio e a guarire, è vero? Che facevi prima di venire qui?»
«Studiavo. Lettere straniere, all’università.»
«Che lingue?»
«Francese e inglese.»
«Ma allora abbiamo parecchio in comune, è vero? Anch’io mi interesso di letteratura. Ho scritto persino dei saggi – poi magari te li faccio leggere, eh? Ti piacciono i libri, Giuseppe?»
«Sì.»
«Allora cercheremo di trovarti un posto in biblioteca o in sala archivi, va bene? Il lavoro tiene viva la mente, non è vero? Specie quello di concetto. È con l’attività, è col sentirsi utili che si guarisce, non con le medicine, è vero? È questa la nostra filosofia, qui a Mombello. Quelli che entrano qui in ospedale in genere sono barboni e ubriaconi, oppure contadini analfabeti. Uno come te che sa leggere e usare la penna ci farà comodo di sicuro.» Si rivolse ai dottori e disse: «Dieta ipoclorurata. Cura a base di Sedobrol. Visite settimanali». Poi di nuovo a me: «Giuseppe, mi ha fatto davvero piacere conoscerti. Ti auguro una buona permanenza qui a Mombello. Breve, soprattutto».
«Grazie, professore.»
Mi portarono al piano di sopra e mi assegnarono il penultimo letto a sinistra in fondo a un lungo dormitorio disposto su due file. La sveglia, mi spiegò l’infermiere che mi aveva accompagnato, era alle sei e mezza, colazione giù in refettorio alle sette, mensa a mezzogiorno, cena alle diciotto e silenzio alle venti.
«E il resto del tempo?» chiesi all’infermiere.
«Vedi tu cosa fare» mi rispose, lasciandomi da solo vicino al letto.
Cose da fare, oltre che seguire gli orari comandati e passeggiare nei corridoi e nei cortili recintati del reparto, non è che ce ne fossero tante. Gran parte dei miei compagni di sala erano abilitati al lavoro e stavano fuori tutto il giorno: chi nei campi dell’ortaglia, chi in tessitoria o in falegnameria. Quelli che rimanevano all’interno del reparto Epilettici erano talmente apatici e indolenti che cercavo di starne alla larga per non perdere la voglia di vivere. Ingannavo il tempo leggendo giornali vecchi di qualche settimana che celebravano gli ultimi successi del Fascio.
La cosa strana era che a Mombello il mondo esterno quasi non esisteva. Fuori non si faceva altro che parlare del Duce, di politica, di tedeschi, russi e americani, ci si preoccupava di Carnera, Cesarini e Beniamino Gigli, d’amore e di crisi economica. Là dentro, invece, non sembrava importare più niente a nessuno.
Col passare dei mesi cominciai a sentirmi meglio: gli attacchi si facevano sempre meno frequenti e intensi. All’inizio dell’anno nuovo mi trasferirono nel padiglione Tranquilli all’interno della villa Pusterla-Crivelli. Qualche settimana dopo mi abilitarono al lavoro e presi servizio come aiutante nella biblioteca medica e nell’archivio generale dell’ospedale. Questo significava una certa libertà di movimenti e una vita migliore. I soffitti erano più alti, le stanze meglio illuminate, i dormitori meno affollati, meno infestati di cimici, pidocchi e scarafaggi. La notte si poteva dormire senza paura di essere svegliati di soprassalto da urla e pianti. Dalle finestre si vedeva persino un bel panorama. Non per niente quelli della villa erano chiamati “i signori”.
Ogni giorno mi venivano date commissioni da sbrigare: ora dovevo portare un documento in direzione o all’economato, ora un libro a un dottore, ora una cartella clinica a uno dei reparti maschili o femminili. Fu allora che mi resi conto di quanto era grande l’ospedale. I viali erano immensi, fiancheggiati da file di edifici. Oltre alla vecchia chiesa, un tempo cappella gentilizia della villa, c’era persino un teatro e il cinematografo. Uscivo dalla biblioteca per due o tre consegne e tornavo a passo di marcia mezz’ora dopo. Mi ci volle un po’ di tempo per cominciare a orientarmi in quell’intreccio di percorsi, stradine e cancellate tra i vari padiglioni.
Il professor Lugiato aveva ragione: l’ospedale stava scoppiando di gente. I dormitori erano così sovraffollati che gli infermieri sistemavano i letti anche nei corridoi. Nei bagni e nelle latrine c’era sempre da fare la fila, così come nei refettori. I dottori cercavano di dimettere quanti più pazienti possibile, ma ne arrivavano di continuo altri. A volte un malato veniva rilasciato e poi ripescato per strada qualche giorno dopo. A volte una donna dimessa la sera prima veniva a farsi ricoverare di nuovo la mattina seguente. Si trattava per lo più di gente senza casa e famiglia come me. Certo era meglio stare dentro che fuori: un piatto caldo a Mombello non te lo negavano. Spesso mi chiedevo se non ci fossero anche dei sani di mente che si facevano internare per sbarcare meglio il lunario.
Alcuni dei degenti erano ricoverati da anni. Molti non si sapeva nemmeno quando fossero entrati o se sarebbero mai usciti. Della maggior parte si ignorava quasi l’esistenza: erano figure anonime, di passaggio o troppo inferme. Altri, invece, erano personaggi pittoreschi, conosciuti da un capo all’altro di Mombello. C’era ad esempio Guglielmín, che mangiava sassi e vetri, e faceva bolle di sapone con la bocca. Poi c’era Torelli, il poeta, che ti rispondeva sempre per le rime. Gli dicevi: «Buongiorno», e lui: «Levati di torno». Ti chiedeva il nome: «Giudici» – e lui: «Tutti sudici».
E poi c’era Bottacchi, il patriota con la camicia rossa.
Uno gli domandava: «Ehi, Butàch, chi era a capo dei Mille?».
«Garibaldi.»
«E chi è il capo del governo?»
«Garibaldi.»
«Butàch, chi è che ha creato il mondo?»
«Garibaldi.»
Quanto a me, visto che andavo sempre in giro con libri e carte, dopo un po’ di tempo gli altri ricoverati cominciarono a chiamarmi “Professorèl”.
Era passato poco più di un anno dal mio arrivo a Mombello, quando una sera mi mandò a chiamare il professor Lugiato. La direzione era già deserta, ma lui mi aspettava nel suo studio con la pipa in bocca e un libro tra le mani.
«Entra, entra» disse il direttore, quando mi vide esitare sulla soglia. «Accomodati, accomodati qui, Giuseppe.»
Mi misi a sedere davanti alla scrivania e restai a guardarlo in attesa. Poggiò la pipa da un lato e chiuse il libro, poi mi fissò negli occhi.
«Allora, Giuseppe, come vanno le cose?»
«Bene. Bene, professore, grazie.»
«Ti sei fatto già un anno di vacanza qui a Mombello, è vero? Il tempo vola… sembra ieri che sei arrivato, eh, Giuseppe?» Spostò il libro sulla scrivania: era la Medea di Euripide. «Va meglio adesso, è vero?»
«Sì, va molto meglio.»
«Quel Sedobrol» disse, continuando a giocare con gli spigoli del libro, «quel Sedobrol è una manna, non è vero? Una cosa miracolosa, un toccasana. Quand’è che hai avuto l’ultimo… l’ultimo accesso?»
«Due o tre mesi fa. Non mi ricordo.»
«Non ti ricordi? Bene. Bene. Vuol dire che stai guarendo, è vero? Vedi, la medicina è noiosa, non è come la letteratura» alzò il volume e lo rimise giù, «ma è utile, ecco, fa vivere meglio la gente. Non servono mica tanti virtuosismi spagirici nella nostra professione: basta un buon medicinale, un ben di Dio come questo Sedobrol, e la vita già migliora, è più accettabile, è vero?»
Feci di sì con la testa.
«Insomma, Giuseppe» continuò il dottore, succhiando la pipa spenta, «mi hanno detto buone cose di te, è vero? Il bibliotecario viene da me e mi fa: “Ma sai che quel Giudici è davvero un bravo giovanotto? Ma bravo, bravo davvero. Mi fa tutti i servizi ed è proprio intelligente e volenteroso”. Perché abbassi gli occhi? Guarda che è vero, Giuseppe… Il bibliotecario non è che fa i complimenti tutti i giorni… tu lo conosci bene: è un burbero, uno di poche parole. Però è venuto qui da me in persona e m’ha detto: “Quel Giudici è uno che merita proprio”. Insomma, per tagliarla corta, volevo chiederti se verresti a darmi una mano qui in direzione… nel mio ufficio, ecco. Perché fai quella faccia? Non sei contento?»
«Certo, direttore. Io però non è che abbia molta esperienza…»
«Ma non ti preoccupare, Giuseppe. Basta la buona volontà. Vedi, far funzionare un manicomio non è facile, è vero? Specie un grosso manicomio come questo, che è sempre un cantiere. Qui c’è tanto lavoro da fare.» Col braccio disegnò un arco ad abbracciare le montagne di carte, libri e cartelle sparse sulla scrivania, sugli scaffali e sul pavimento della stanza. «Ma è fattibile, non è vero? Come diceva Virgilio? Labor omnia vicit. Con un po’ di pazienza...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il figlio perduto
  4. PARTE PRIMA
  5. PARTE SECONDA
  6. PARTE TERZA
  7. Nota storica
  8. Ringraziamenti