La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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La vita è una guerra ripetuta ogni giorno

  1. 252 pagine
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La vita è una guerra ripetuta ogni giorno

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In guerra non «spari garofani. Spari pallottole, bombe, e uccidi innocenti». E anche in tempo di pace la guerra è sempre in agguato, in ogni sua forma. L'odio che Oriana Fallaci prova nei confronti della guerra è nato molto presto, quando era bambina e ha imparato a correre sotto i bombardamenti del secondo conflitto mondiale. Lei, che dalla prima linea ha raccontato carneficine ed eccidi, non si è mai arresa alla logica di «fracassare e uccidere per ritrovare dignità», a cominciare da quella che doveva essere una corrispondenza di pace e si è trasformata invece in una delle sue prime corrispondenze di guerra: Oriana voleva entrare a Budapest e descrivere la rivolta del 1956, ma i carri armati sovietici l'hanno fermata al confine. Era la fine di un sogno. Passano poco più di dieci anni e un altro sforzo fallisce, quello di «mettere insieme le razze, ricavarne un popolo unito». Questa volta è Detroit che brucia per le rivolte razziali, come bruciano molte altre città degli Stati Uniti. Oriana Fallaci vuole capire, la sua coscienza è tormentata dal dubbio. È per questo che parte per il Vietnam, che incontra i fedayn in lotta contro gli israeliani, che incide con la sua penna senza risparmiare nessuno, nemmeno gli ipocriti generali di un conflitto dimenticato, come quello tra India e Pakistan nel 1971. Vent'anni più tardi, alla prima guerra del Golfo, mentre i pozzi petroliferi sono in fiamme, riconosce il primo round di una crociata destinata a dividere due sistemi di vita, due civiltà. Con la sua nota veemenza rifiuta l'arrendevolezza dell'Occidente, e in una pagina inedita qui pubblicata per la prima volta tuona: «Io non voglio morire neanche da morta». Ogni giorno per lei è quello giusto per combattere, qualche volta arrendendosi, come nell'attimo in cui l'amore per Alekos Panagulis la colpisce come un proiettile che le si conficca nel cuore.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2018
ISBN
9788858692783

Sette anni in guerra

1967-1975

L’inviata

È la guerra che la consacra, quella del Vietnam. Ma è soprattutto il conflitto che confermerà la sua convinzione che la guerra è folle, inutile, «imbecille».
È lei a chiedere di andarci a Tommaso Giglio, allora direttore de «L’Europeo»: «Voglio andare in Vietnam, Giglio». «E tu vai in Vietnam.» «Che tipo di reportage le piacerebbe sul Vietnam?» «Il reportage che vuoi.»
Parte a novembre del 1967 e racconterà gli scontri da vicino, giorno per giorno, in diversi viaggi, per più di sette anni, ai lettori del settimanale e poi in Niente e così sia. Un libro, come disse in un’intervista a «Tuttolibri» del 1969, che è «un estremo atto di fede nell’uomo. Perché, quando si vede quello che io ho visto, e tutti quelli che siamo stati nel Vietnam abbiamo visto, il massacro, l’assassinio, il crimine della guerra, quando si è visto tutto questo, non ci si può non credere nell’uomo, perché se non ci si crede, se non lo si difende, se non lo si ama, si torna a casa e veramente si tirano le bombe ai bambini».
«Io volevo soltanto raccontare la guerra a chi non la conosce.»
C’era la guerra in Vietnam e se uno faceva il giornalista finiva prima o poi per andarci. Perché ce lo mandavano, o perché lo chiedeva. Io l’avevo chiesto. Per dare a me stessa la risposta che non sapevo dare a Elisabetta [la sorella minore, N.d.R.], la vita cos’è, per ricercare i giorni in cui avevo troppo presto imparato che i morti non rinascono mai a primavera. Ed ora mi trovavo a Saigon e i miei occhi vagavan sorpresi senza vedere la guerra: dov’era la guerra? Nell’aeroporto di Than Son Nhut i caccia a reazione, gli elicotteri con le mitraglie pesanti, i rimorchi con le bombe al napalm si allineavano insieme ai soldati dall’aria triste. Ma questa non era ancora la guerra. Lungo la strada che porta in città si ammucchiavano sbarramenti di filo spinato, fortificazioni coi sacchi di sabbia, torrette da cui i soldati puntavan fucili. Ma questa non era ancora la guerra. In città passavano jeep coi militari armati, camion coi cannoncini spianati, convogli con le cassette di munizioni. Ma questa non era ancora la guerra. Cosa c’entra la guerra coi risciò che si tuffan leggeri, a pedalate, nel traffico, le venditrici di acqua che corrono a piccoli passi bilanciando la merce sui piatti a stadera sospesi a una canna di bambù, le minuscole donne dai lunghi vestiti e i capelli sciolti che dondolan dietro le spalle come veli neri, le biciclette, le motociclette, i bambini con le scatole di cera e le spazzole per pulirti le scarpe, i taxi luridi e svelti. C’era un caos quasi allegro a Saigon nel novembre del 1967, ricordi? Tu giungevi a Saigon, nel novembre del 1967, ricordi, e non ti accorgevi molto della guerra. Essa sembrava semmai un dopoguerra: coi negozi pieni di cibo, le gioiellerie piene d’oro, i ristoranti aperti, ed il sole. Entravi in albergo e funzionava perfin l’ascensore, il telefono, il ventilatore al soffitto, e il cameriere vietnamita era sempre pronto a un tuo cenno e sul tavolo c’era sempre un vassoio di ananas freschi e di mango, e non pensavi a morire.
Poi, all’improvviso, era notte, la guerra mi lacerò gli orecchi. Con un colpo di cannone. E poi un altro, ed un altro. Le mura tremarono sotto le scosse, i vetri tintinnarono fin quasi a spaccarsi, la lampada in mezzo alla stanza paurosamente oscillò. Corsi alla finestra, il cielo all’orizzonte era rosso, e riconobbi la guerra in cui avevo troppo presto imparato che non si rinasce più a primavera. E pensai che in quel momento, nel resto del mondo, la polemica infuriava sui trapianti del cuore: la gente, nel resto del mondo, si chiedeva se fosse lecito togliere il cuore a un malato cui restano dieci minuti di respiro per darlo a un altro malato cui restano dieci mesi di vita, qui invece nessuno si chiedeva se fosse lecito togliere l’intera esistenza a un intero popolo di creature giovani, sane, col cuore a posto. E l’ira mi avvolse penetrandomi sotto la pelle, bucandomi fino al cervello, e promisi di scrivere questa incoerenza, e da questa incoerenza crebbe un diario.7
LUNEDÌ MATTINA. La tragedia incomincia con la paura. E la paura incomincia appena sali sul cargo militare che ti conduce alla zona del fuoco insieme ai soldati che tacciono in un rassegnato silenzio. Ieri un cargo come questo è precipitato, sembra per un sabotaggio, e nessuno ha fatto in tempo a usare i paracadute con cui dovremo buttarci se saremo colpiti. Del resto, il paracadute a che serve? Mentre cali a terra ti sparano, voliamo su una regione che pullula di vietcong. Fa caldo, sudi. Anche perché il soldato accanto ti fissa da almeno mezz’ora scuotendo la testa e poi, cercando di superare il rombo dei motori, ti grida: «Sei giornalista?». «Sì.» «E il lungo con te è un fotografo?» «Sì.» «Andate a Dak To?» «Sì.» «Idioti, chi ve lo fa fare?» Te lo chiedi anche tu, all’improvviso. Hai superato tanti ostacoli per arrivare fin qui, visti permessi burocrazie, e all’improvviso vorresti esser mille miglia lontano dove la guerra è solo una parola, una fotografia sul giornale, una immagine alla televisione. Provi a scherzare, la voce ti suona falsa: «Moroldo, ci pensi alla faccia dell’ambasciatore quando gli consegnano i nostri cadaveri?». Per raggiungere Dak To abbiamo firmato un foglio con cui sdebitiamo le forze armate e il governo degli Stati Uniti della nostra possibile morte, e in fondo al foglio c’era questa domanda: «A chi dovrà essere consegnato il vostro cadavere?». Presi alla sprovvista, abbiamo scritto: «Ambasciata italiana a Saigon». Moroldo brontola che lo disturba solo un particolare: l’intera faccenda è avvenuta di venerdì 17. Anche le uniformi le abbiamo prese di venerdì 17, ma bando alle spiritosaggini: in poco più di due anni sono morti dieci giornalisti in Vietnam. Ricordiamoli, non lo fa mai nessuno. Maggio 1965, Pieter Ronald Van Thiel: ucciso dai vietcong a sud di Saigon. Giugno 1966, Jerry Rose: precipitato con l’aereo colpito da una cannonata a Quang Ngai. Ottobre 1966, Bernard Kolenberg: precipitato con un caccia sulla zona demilitarizzata. 1966, Huynh Thanh My: ucciso in battaglia a Can Tho. Novembre 1966, Dickey Chapelle: saltata su una mina a sud di Da Nang. Novembre 1966, Charlie Chellapah: disintegrato da un mortaio a Cu Chi. Dicembre 1966, Sani Castali: ucciso in combattimento nelle pianure centrali. Febbraio 1967, Bernard Fall: sventrato da una mina nella foresta di Hué. Marzo 1967, Ronald Gallagher: ucciso per errore dall’artiglieria americana nei pressi di Saigon. Maggio 1967, Felipa Schiller: mitragliata sull’elicottero che la portava a Da Nang.
Di feriti, quest’anno, ce ne sono stati una trentina. Ieri a Saigon ho conosciuto Catherine Leroy, fotografa francese. Ha ventitré anni, il braccio destro, la gamba destra, la parte destra del volto coperti di cicatrici, e cammina zoppa. Lo scorso maggio, durante un combattimento al 17° parallelo, le scoppiò accanto un colpo di mortaio. È stata tre mesi in ospedale, dal corpo le hanno tolto diciotto schegge, ma al piede la ferita continua a riaprirsi, riaprirsi, e i medici non sanno più cosa fare. Le ho chiesto: «Perché non torni a casa, Catherine?». Ha sorriso senza rispondermi. Che strani tipi questi miei colleghi in Vietnam. Alcuni sono fior di giornalisti e potrebbero stare a Londra o a Parigi: invece bestemmiano e rimangono qui. Altri sono reporter improvvisati, nessuno li voleva mandare: ma hanno supplicato o sono venuti da sé, a loro spese. Cosa cercano, dimmi. Uno scopo che non avevano prima? Un brivido che li scuota dalla noia? Una pallottola che risolva un loro dolore? Un’imitazione di Hemingway? Ho tentato un’indagine, uno ha risposto: «Voglio dimostrare a mio padre di non essere il cretino che dice». Un altro ha risposto: «Mia moglie ha divorziato». Un altro ha risposto: «È eccitante e, se fai la foto giusta, sei a posto per sempre». Quasi nessuno m’ha dato la sola ragione che a me sembra valida: «Sono qui per capire».
Io sono qui per capire, per sapere cosa pensa un uomo che ammazza un altro uomo che a sua volta lo ammazza: senza conoscerlo. Sono qui per provare qualcosa a cui credo: che la guerra è inutile e sciocca, la più bestiale prova di idiozia della razza terrestre. Sono qui per spiegare quanto è ipocrita il mondo quando si esalta su un siero che curerà il cancro, o sull’operazione chirurgica che sostituisce un cuore con un altro cuore: mentre migliaia di creature giovani e sane, senza cancro, col cuore a posto, vanno a morire come animali, vacche al macello. C’è la guerra da tre anni in Vietnam e la gente che piange su Washkansky dice: «Uh, che noia». Ci si massacra da venti giorni a Dak To, e la gente che prega sorride: «Davvero?». Dak To è un villaggio situato a dieci miglia dal confine col Laos e la Cambogia, proprio dove sbocca la pista Ho Chi Minh: vale a dire la strada da cui arrivano i rifornimenti di Hanoi alle formazioni vietcong e alle truppe nordvietnamite infiltrate nel Sud. Verso la fine di ottobre a Dak To c’era solo un battaglione di americani con una base aerea, minuscola. Poi un disertore nordvietnamita rivelò che i suoi compagni erano riusciti ad ammassare sulle colline intorno a Dak To ben settemila soldati e con questi si accingevano a sferrare l’attacco. Il generale Westmoreland reagì concentrando diecimila fra paracadutisti e soldati, il primo novembre ebbe inizio la più sanguinosa battaglia combattuta fin oggi in Vietnam. A Saigon si dice: «O gli americani vincono entro sette giorni o Dak To diviene la loro Dien Bien Phu». Non è facile obbedire al consiglio che un amico della France Presse, François Pelou, mi ha lasciato in albergo con un bigliettino: «N’aie pas peur».
LUNEDÌ NOTTE. Invece è facile. La paura ti passa, di colpo, con la paura degli altri. L’elicottero su cui siamo saliti alla base di Pleiku, ultima tappa prima di Dak To, ha posto per quattro persone oltre i due piloti e i due mitraglieri. Uno dei quattro è un telecronista appena giunto da New York. Il suo viso ha il colore del gesso, il suo corpo è scosso da un tremito convulso, e tutte le sue dieci dita sono ficcate dentro la bocca dove tutti i suoi trentadue denti le mordono furiosamente. Dopo pochi minuti si alza, batte alle spalle di un pilota, lo scongiura invano di tornare indietro, e provi tanta vergogna per lui che di colpo sei un’altra persona. Tranquilla, lucida, con ogni tuo nervo pronto a scattare per salvarti la pelle. Puoi perfino osservare con curiosità le colline a sinistra da cui si alzano fumate nere, il napalm che gli americani sganciano sui nordvietnamiti, poi le colline a destra da cui si alzano fumate bianche, le bombe che i nordvietnamiti lanciano sugli americani: ben consapevole che ci stai passando nel mezzo, come sotto un arcobaleno, sorvolando la giungla dove sono nascosti i vietcong i quali mirano dritto alle pale dell’elicottero. Puoi perfino capire perché questa guerra è una guerra diversa da ogni altra guerra che hai studiato a scuola, e perché dicono che non ha un fronte preciso, che il fronte è dovunque. Il mitragliere dietro di te s’è abbassato sulla mitraglia e spara raffiche contro una macchia da cui è partito un colpo appena avvertito. Sembra il personaggio di un western dove i bianchi sparano dal vagone agli indiani. Anche allora i bianchi tenevano in pugno un Paese di cui possedevano solo qualche fortino, e per andare da fortino a fortino bisognava ammazzare o venire ammazzati. Sostituisci alla parola «fortino» la parola «base aerea», alla parola «indiani» la parola «vietcong», alla parola «vagone» la parola «elicottero»: ed ecco il Vietnam. Ecco il nostro viaggio a Dak To, con quel poverino che geme. Siamo a Dak To. Un campo militare con una pista nel mezzo, bucata dai mortai di stanotte. Decine di elicotteri e aerei che decollano o atterrano in una tempesta di polvere rossa, un fragore che spacca gli orecchi. Centinaia di camion e di jeep che trasportan soldati dalla barba lunga e lo sguardo stanco. Postazioni di artiglieria che vomitano cannonate ogni trenta secondi facendo tremare la terra e il tuo stomaco. Eppure come doveva esser bello il Vietnam quando non c’era la guerra. I monti dove ora si muore son blocchi di giada e smeraldo, il cielo dove ora schizzan le bombe è una cappa color fiordaliso, e il fiume che ora serve a spegnere gli incendi ha un’acqua così limpida, fresca. Come doveva essere facile sentirsi felici quaggiù, andando a pescare sulle rive, a passeggiare nei boschi.8

Saigon andata e ritorno

Dopo più di un mese al fronte, Oriana Fallaci, insieme al fotografo Gianfranco Moroldo, lascia il Vietnam e, dopo un periodo in Toscana, torna a New York. Le sembra di fuggire ma salterà sul primo aereo disponibile dopo aver avuto notizia che a Saigon sta per succedere qualcosa. Per chi come lei è ormai abituato alla guerra, la vita «normale» è solo noia. Ma quando rientra trova la città distrutta dall’offensiva vietcong che conta i morti e le distruzioni.
Alla mente della giornalista si affacciano le immagini di altre guerre, altre distruzioni, da Stalingrado a Hiroshima. E la battaglia non è ancora finita.
«Qualcosa ho imparato in questo Paese, in questa città, in questa guerra: ad amare il miracolo d’essere nato.»
Domani lasciamo il Vietnam. Ci sembra quasi assurdo rientrare in un mondo dove si piange per un morto solo e non si sente sparare i cannoni. In certo senso ci sembra di fuggire, disertare. Proviamo come una colpa, un rimpianto. Comprendiamo coloro che son qui da mesi, da anni, a rischiare la pelle: c’è qualcosa di magico in questo Paese, in questa città. Forse la stessa tragedia: lo spettacolo della morte ti fa sentir così vivo quando sei vivo. Dinanzi alla morte ogni momento, ogni oggetto, ogni gesto diventano preziosi. E il cibo è più buono, l’amicizia più profonda, l’allegria più allegra. Dalla terrazza del mio albergo guardo Saigon. Così brutta, così affascinante. Le venditrici di acqua che corrono a piccoli passi sotto i cappelli a pagoda, bilanciando la merce sui piatti a stadera che pendono da una canna di bambù. I risciò che si tuffano come bambini ciechi nel traffico folle esponendoti ai camion, al terrore. Le jeep degli americani che passano con la mitragliera spianata. Le splendide donne dai corpi sottili e i capelli lunghi che dondolano dietro le spalle come veli neri. Le fortificazioni coi sacchi di sabbia da cui si affaccia sempre un soldato impaurito, pronto a spararti. Gli accattoni ciechi sui marciapiedi. Le palme verdi dentro i giardini. I taxi luridi che cadono a pezzi. Gli ananassi freschi sul tavolo. Il caldo pesante che ti addormenta in un misterioso languore. Il sospetto continuo che ti sveglia i sensi e il cervello. Infine, una certa saggezza che hai conquistato. Sembra che in questi giorni, nel resto del mondo, la polemica bruci sui trapianti del cuore. La gente, nel resto del mondo, si chiede se sia lecito togliere il cuore a un moribondo cui restano dieci minuti di vita. Qui ci si chiede se sia lecito, con una bomba o un plotone di esecuzione, rubare una intera vita a un uomo che è sano. Qualcosa hai imparato in questo Paese, in questa città, in questa guerra: ad amare il miracolo d’essere nato.9
Graham Greene ha scritto che gran parte della guerra consiste nello star fermi senza far nulla, in attesa di qualcos’altro. Ed è vero. Ma non ha scritto che anche quando stai fermo non ti ci annoi. Perché alla guerra, vedi, non sei mai seduto in platea ad osservare: sei sempre sul palcoscenico, fai sempre parte dello spettacolo. Perfino se bevi un caffè sulla terrazza dell’hotel Continental. Potrebbe scoppiare una mina su quella terrazza, piombare una granata: ciò ti rende partecipe di una atmosfera eroica, ti impegna in una continua attenzione che esclude ogni forma di noia. E questo, ecco, mi mancava a New York dove le giornate schizzavano via in una corsa affannosa, gonfie di problemi, di appuntamenti, di tedio. Non succedeva nulla di straordinario a New York, nulla di imprevisto. Mi sentivo una formica persa fra milioni di altre formiche: attive, organizzate, e senza alcun merito della loro sopravvivenza. Le finestre che vedevo dalla mia finestra erano tutte uguali. Il fornello del gas si accendeva da sé, non avevo bisogno di alcun fiammifero. I miei amici erano buoni, educati, e protetti da una assicurazione sulla vita. E in tale stato d’animo giunse la lettera di François. Non col timbro «Apo Mail» che macchiava appena la busta di Pip ma coi francobolli vietnamiti che bastavan da soli a nutrire il mio scontento. Era una lettera breve, chiara come lui. Ironizzava sul mio rientro nella pax americana e forniva un ritratto di Saigon sotto le feste. «V’è una tranquillità a cui nessuno crede. A mio parere i vietcong stanno preparando qualcosa di grosso. […] Se il grosso accade e torni a Saigon, portaci una bottiglia di Chianti. Saluts, Pelou.»
La lessi in preda all’invidia. Stava per accadere qualcosa a Saigon e io non ero a Saigon. Se avessi potuto trovare una scusa per avvicinarmici. Un reportage ad Hong Kong, in un posto da cui fosse svelto rientrare laggiù se il grosso fosse scoppiato. Poi aprii il «New York Times» e vidi la notizia. Diceva che due ore dopo l’inizio del Tet, il capodanno vietnamita, diciannove vietcong avevano attaccato l’ambasciata americana. Armati di razzi anticarro B40 e bazooka da 35 pollici, avevano fatto un buco nel muro di cinta e attraverso quello erano entrati nel giardino restando padroni del campo fino al mattino. La battaglia s’era conclusa alle nove, i diciannove vietcong erano stati uccisi, ma combattimenti avvenivano in ogni punto della città. L’indomani le cronache erano ancor più drammatiche. Non si trattava del solo attacco a Saigon bensì di un’offensiva coordinata e in grande stile: ci si ammazzava a Danang, a Dalat, a My Tho, a Hué, in trentacinque capoluoghi del Vietnam. Quanto a Saigon, l’intero quartiere di Cholon era in mano vietcong, e buona parte di Gia Dinh, di Phu Tho. All’aeroporto di Than Son Nhut nessun aereo poteva atterrare. Le riprese televisive mostravano strade ridotte a cumuli di macerie, edifici in fiamme, mucchi di cadaveri intrisi di sangue, pagode completamente distrutte. E la fotografia più atroce mi riportava qualcuno che conoscevo assai bene: il generale Loan ritratto nel gesto di ammazzare un vietcong con le mani legate.
Anzi non era una sola fotografia, era una sequenza di tre fotografie. Nella prima si vedeva il vietcong, un giovane coi pantaloni corti e la camicia a quadri, spinto da un Marine americano che gli sussurrava chissà cosa come ad incoraggiarlo. Nella seconda si vedeva Loan che puntava la rivoltella e sparava a bruciapelo nella tempia destra del vietcong. Era stata scattata proprio nell’attimo in cui il proiettile penetrava il cervello e il vietcong chiudeva gli occhi, piegava le labbra in una smorfia dolorosa. Nella terza si vedeva Loan che riponeva la rivoltella e si allontanava lasciando il vietcong riverso sull’asfalto: un piede nudo alzato nell’ultimo sussulto. Loan e le sue rose, una perla di rugiada sul petalo di ciascuna rosa. Loan e il suo pianoforte, i suoi notturni di Chopin. Loan e la sua poesia incorniciata: «Cresci placidamente nel rumore degli altri, esponi la tua verità in modo quieto e tranquillo…». Ma come avevo fatto a sperare che un giorno egli riuscisse a piangere? E come faceva François ad accettarlo su un piano umano? E quali altre infamie, quali altri eroismi, bruciavano nella nuova tragedia il Vietnam?
La noia divenne impazienza. Non appena ebbi ottenuto il visto, le carte necessarie, saltai sul primo aereo diretto a Bangkok via Hong Kong. Non portavo con me che una borsa, una macchina fotografica, un magnetofono, e una bottiglia di Chianti.10
MERCOLEDÌ, 7 FEBBRAIO. Sono tornata a Saigon con un aereo militare via Bangkok. Non c’è altro mezzo da quando la città è in stato di assedio: l’aeroporto di Tan Son Nhat è chiuso al traffico civile dall’alba del 31 gennaio e i combattimenti vi infuriano intorno, di giorno gli americani respingono verso la campagna i vietcong e di notte i vietcong riacquistano le posizioni perdute. Ostinatamente, disperatamente. Non è stato facile infatti neanche scendere a Tan Son Nhat: il fuoco dell’artiglieria era così intenso che il comandante non osava atterrare, ha volato sopra l’aeroporto per circa quaranta minuti. Una volta atterrati, abbiamo dovuto attraversare la pista correndo: la sparatoria era vicina, dal cancello sud-ovest dell’aeroporto si alzavano fumate nere. Ci siamo rifugiati dentro una baracca piena di soldati. I soldati avevano un’aria stanca, spaurita, e l’ufficiale è parso molto sorpreso quando gli ho detto che volevo entrare subito in città. La strada che da Tan Son Nhat porta al centro della città si snoda lungo i quartieri dove sono annidati i vietcong, poche ore prima una jeep di americani era saltata in aria per una granata. Convincerlo a darmi una camionetta è stato tutt’altro che facile, il sergente che mi accompagnava insieme a una scorta armata aveva l’aria di odiarmi.
Quando gli ho chiesto, tentando lo scherzo, se saremmo arrivati, ha risposto cupo «Speriamo» e ha lanciato una bestemmia terribile. Siamo arrivati. Ma è stato un viaggio assai lungo, malgrado sia durato solo venti minuti. La strada era vuota fuorché per pochi camion militari che la percorrevano a velocità pazza. Entrando nel centro di Saigon ho provato un grande sollievo. Anzi, una felicità. L’autista invece ha detto, con un tono di rimprovero: «E ora noi d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
  4. La guerra che non finisce mai. 2006
  5. La prima guerra di Oriana. 1943-1945
  6. Rivoluzione fallita. 1956
  7. Furore razziale. 1967
  8. Sette anni in guerra. 1967-1975
  9. Massacro alle Olimpiadi. 1968
  10. Palestina anno zero. 1970
  11. Una guerra da museo. 1971
  12. Amore e guerra. 1973-1976
  13. Libano, la guerra sporca. 1982-1983
  14. Embedded. 1991
  15. L’ultima battaglia. 1991-2006
  16. Fonti