SECONDA PARTE
La tempesta perfetta
| Il principal fondamento della moralità di un individuo e di un popolo è la stima costante e profonda che esso fa di se stesso, la cura che ha di conservarsela (né si può conservarla vedendo che gli altri ti disprezzano), la gelosia, la delicatezza e sensibilità sul proprio onore.* |
| Giacomo Leopardi |
*Giacomo Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani (1824).
Da «popolo sovrano» a sudditi
| Gli Stati Nazionali debbono morire (anche se è bene che i popoli se ne accorgano il più tardi possibile) per far posto all’Impero Europeo. […] Disgregare l’Io dei Popoli, disgregando l’Io degli Individui in modo da poterli dominare con una nuova forma di sudditanza.153 |
| Ida Magli |
In quella formidabile metafora della storia italiana che sono I promessi sposi, c’è un episodio comico che ha come protagonista Renzo, simbolo dell’umile popolo italiano vittima di soprusi, il quale – furibondo per il torto subito dal potente e prepotente don Rodrigo – cerca una difesa nella legge chiedendo aiuto e patrocinio al dottor Azzeccagarbugli.
Ma costui – simbolo del mondo del diritto che spesso va a rovescio, e anche simbolo dei dotti che preferiscono maltrattare i deboli piuttosto che dispiacere ai potenti – quando sente il nome di don Rodrigo ha un sussulto di paura e subito butta fuori dalla porta il povero Renzo.
C’è però un dettaglio umoristico su quel viaggio di Renzo verso la casa di Azzeccagarbugli ed è rappresentato dai quattro capponi che il poveretto porta con sé, tenendoli per le zampe a testa in giù, allo scopo di retribuire il dotto della sua «illuminata» consulenza:
Così, attraversando i campi o, come dicon colà, i luoghi, se n’andò per viottole, fremendo, ripensando alla sua disgrazia, e ruminando il discorso da fare al dottor Azzeccagarbugli.
Lascio poi pensare al lettore, come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e tenute per le zampe, a capo all’ingiù, nella mano d’un uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che gli passavan a tumulto per la mente.
Ora stendeva il braccio per collera, ora l’alzava per disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per minaccia, e, in tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate; le quali intanto s’ingegnavano a beccarsi l’una contro l’altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura.154
I quattro sciagurati pennuti, per il Manzoni, rappresentano in genere l’umanità, ma in particolare gli italiani che – invece di allearsi come compagni di sventura – combattono gli uni contro gli altri.
È lo spettacolo a cui assistiamo anche oggi. E accade spesso per ignoranza del baratro che ci aspetta, tutti insieme.
Penso per esempio a certi ragionalismi che tornano a contrapporre regione a regione, il Nord al Sud, o il Nord a Roma. E penso a certe rivendicazioni particolari o a temi – pur sacrosanti – come l’esosa pressione fiscale o le pensioni o la sanità e lo stato sociale.
Tutti irrisolvibili senza prima ritrovare – insieme – la sovranità fiscale, monetaria e politica, sottrattaci dalla sottomissione ai mercati finanziari impostaci da «questa» globalizzazione, da «questa» Unione europea e dalla moneta unica.
Scriveva George Orwell nel suo 1984:
Perfino quando in mezzo a loro serpeggiava il malcontento (il che, talvolta, pure accadeva), questo scontento non aveva sbocchi perché privi com’erano di una visione generale dei fatti, finivano per convogliarlo su rivendicazioni assolutamente secondarie. Non riuscivano mai ad avere consapevolezza dei problemi più grandi.155
Accade fra la nostra gente. Del resto pure le nostre élite (politiche e intellettuali) si attardano a scontrarsi su questioni secondarie, un po’ per colpevole impreparazione e dilettantismo, ma in molti casi perché non si vuole riconoscere il vero, grande problema di fondo che imporrebbe loro una cocente autocritica.
In alcuni casi per cecità ideologica volontaria o per subalternità (psicologica o politica) a poteri sovrannazionali come la Ue. I principali leader e l’apparato intellettuale e mediatico che li supporta in genere non hanno avuto l’interesse nazionale come bussola dell’agire politico.
Un bravo analista americano che segue le nostre vicende, Andrew Spannaus, nel novembre 2017, così descriveva la situazione: «L’immagine dell’Italia è quella di un Paese poco orgoglioso di se stesso e poco deciso nel perseguire i suoi interessi legittimi. Per questo è destinata a rimanere un Paese subalterno».
È facile capire di quale subalternità parli: «[Subalterno] a una certa concezione di Europa innanzitutto. E poi a un establishment del mondo occidentale. […] Due esempi: la Libia nel 2011 e le regole finanziarie europee fatte per economie di tutt’altro tipo rispetto a quella italiana».156
L’Italia si è fatta imporre «in economia la visione iperliberista del mondo globalizzato», una sudditanza ai mercati pagata «sulla loro pelle» dai ceti popolari e da tutto il Paese che ora ha il cappio attorno al collo.
Spannaus osserva che la classe di governo italiana non ha difeso «gli interessi veri e legittimi della comunità nazionale», ma «si è messa del tutto in mano a Bruxelles», mentre «Germania e Francia hanno dato la precedenza all’interesse nazionale».
Ecco perché ci dibattiamo da anni nella crisi economica e nella decadenza del Paese, come i capponi di Renzo, senza saperne venire a capo e anzi perseverando nell’errata diagnosi e nelle errate cure che aggravano i problemi.
Prendiamo questa carrellata di titoli di giornale che coprono gli ultimi otto anni (occhio alle date):
Berlusconi: «La crisi è alle spalle» («la Repubblica», 28 giugno 2010)157
Le rassicurazioni di Monti: «La crisi è passata ora possiamo rilassarci» («il Fatto Quotidiano», 2 aprile 2012)
Letta: crisi alle spalle («Il Sole 24 Ore», 2 febbraio 2014)
Renzi: crisi alle spalle, l’Italia è ripartita (affaritaliani.it, 17 marzo 2015)
Gentiloni: «Non prometto miracoli, ma la crisi è alle spalle» («Il Messaggero», 2 settembre 2017)
Renzi: Il Pd ha portato l’Italia fuori dalla crisi (Repubblica.it, 29 ottobre 2017)
Nel frattempo le cose vanno sempre peggio. Viene in mente la battuta del capofamiglia dei Mazzalupi nel vecchio film Ferie d’agosto di Paolo Virzì: «La verità è che non ce state a capi’ più un cazzo, ma da mò».
Sulle cause della crisi in cui siamo immersi non ci hanno capito niente loro stessi o ci hanno raccontato balle, puntando il dito a casaccio: il solito elenco delle cose che non vanno.
«Il fatto» notava nel 2015 Vladimiro Giacché «è che nessuna di queste presunte cause è in grado di spiegare questa crisi: né il suo decorso, né la sua durata e gravità. Tanto meno possono spiegarne le conseguenze, drammaticamente evidenti dal 2009: ricchezza distrutta in enorme quantità (l’Asian Development Bank ne stimò l’ammontare in 50.000 miliardi di dollari), la peggiore contrazione del commercio internazionale dal 1945 (-10,7 per cento), crollo dei profitti, crollo degli investimenti (-17 per cento) e il maggiore aumento della disoccupazione da decenni (205 milioni di disoccupati nel 2010).»158
Siamo al capolinea di questa globalizzazione e non se ne vogliono dire le vere cause. Per questo che non ne usciamo.
Per anni tutti i maestri del pensiero e le classi dirigenti ci hanno indottrinato spiegando che lo Stato è il problema e il mercato è la soluzione (e ci avevamo creduto: io stesso e ne faccio ammenda).
Poi il mondo del «fare i soldi con i soldi» esplode, finiamo tutti sull’orlo del baratro e gli Stati (con i soldi di tutti noi) hanno dovuto «salvare» i magnifici e onnipotenti mercati.
Scrive Vladimiro Giacché:
Tra l’autunno del 2008 e i primi mesi del 2009, delle venti principali banche mondiali, almeno la metà ricevette un sostegno governativo diretto. Nel giugno 2009 il Financial Stability Report della Bank of England rivelò che i sussidi e le garanzie offerti dalle banche centrali e dai governi degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e dei Paesi dell’eurozona a sostegno del sistema bancario ammontavano alla cifra spaventosa di 14.000 miliardi di dollari. Si trattava – precisava lo stesso rapporto – di una cifra equivalente a circa il 50 per cento del prodotto interno lordo di quei Paesi.159
Giacché aggiunge:
Vale la pena di ricordare queste cifre oggi, mentre in tutto il mondo si decurtano le prestazioni sociali fornite dagli Stati «per tenere in ordine i conti pubblici» e «perché abbiamo tutti vissuto al di sopra delle nostre possibilità».160
Per socializzare le perdite, lo Stato faceva comodo e tornava d’attualità. Proprio quello Stato che negli anni precedenti era stato svillaneggiato e delegittimato in ossequio alla divinità insindacabile dei mercati.
Ma lo Stato è tornato di moda giusto il tempo necessario a realizzare «un gigantesco trasferimento del debito privato nel debito pubblico».161
Poi i mercati hanno ripreso in mano la partita addirittura mettendo sotto tiro speculativo proprio gli Stati per il loro debito pubblico cresciuto (addirittura facendo loro la predica per gli «sperperi» e sostenendo che devono mettere in regola i conti pubblici, magari «privatizzando» gli ultimi beni che restano pubblici).
Specialmente in Italia si è compromessa gran parte della nostra sovranità politica ed economica, quindi gran parte della nostra indipendenza.
La nostra sudditanza ai mercati è passata attraverso la perdita di sovranità politica, economica e monetaria a vantaggio dell’Unione europea. Siamo una colonia, vittima della «nuova ideologia dell’europeismo, che è la mistificazione dell’idea di Europa».162
Questa è la causa principale dell’impoverimento del Paese, al collasso nello sviluppo, spolpato da anni nel suo patrimonio produttivo, con un debito pubblico immane e in crescita (2300 miliardi di euro a luglio 2017, cioè 18,6 miliardi in più rispetto al mese precedente),163 con una generazione di giovani sprofondata nella disoccupazione.
Un Paese in cui, in dieci anni...