Lettere a un racconto
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Lettere a un racconto

  1. 136 pagine
  2. Italian
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Lettere a un racconto

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Informazioni sul libro

Un testo biografico involontario, uno spazio aperto da cui poter intravedere l'anima della più grande poetessa italiana. Alda Merini ci ha lasciato in questo libro lettere e prose di una delicatezza unica, inviate a destinatari reali o inventati, ad amici o a fantasmi, in cui la scrittrice sembra quasi sempre rivolgersi al suo cuore, alla sua mente. E ci racconta, come in un diario dei sentimenti, l'eccezionalità quieta della sua quotidianità, l'amore viscerale per la scrittura, il cammino percorso tra le esplosioni di un confitto costante e creativo tra ragione e follia. Un libro prezioso e intimo che restituisce il ritratto di una delle artiste più importanti del Ventesimo secolo.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2018
ISBN
9788858692158
Argomento
Letteratura
Categoria
Poesia

1. GUERRE DI POETA

Chi ha un bel cuore è ornato per tutta la vita, e credo che i poeti siano i meglio ornati del proprio cuore.
Gente potente, baroni dell’anima, feudatari del pensiero che altri designano come stupidi arroganti, i poeti hanno una terra di conquista che nessuno conosce. Sono grandi Don Chisciotte, liutai, artigiani del cuore che sanno come pizzicare una corda per farne uscire una goccia di acido limone e che tengono nella loro casa, non visti, tutta una serie di alambicchi e distillati. I poeti pensano che la copula sia solo un pensiero: fanno confusione tra predicato nominale e istituzione della chiesa, e quando apostrofano gli altri con malevolenza, lo fanno perché sono superbamente ignoranti. Ma si sa che il cuore non ha bisogno di imparare per crescere.
Nel cuore hanno sede tutte le nostre provviste conoscitive. Però le faccende del cuore sono quelle che da sempre scatenano le guerre.
Il motivo di un libro
è sempre la poesia
ma il cuore di un libro
è la centrale elettrica
e pulsa come un uomo
sino a che ti tradisce.
Un tempo c’era una donna bellissima ma tremendamente sola. Abitava tra i suoi vaticini, che la invadevano delle loro forme.
Era una donna che gli altri ritenevano inviolabile: su di lei spirava una grande aria di soavità non terrena, che la faceva apparire più dedita alla luce che alla miseria delle cose. Secondo i poveri faceva incantesimi, ma nessuno riusciva ad avvicinare questa donna, sola, sormontata da una grande follia che le faceva da corona. Per alcuni era depositaria di un grande tesoro: tutto al mondo le riusciva facile, tanto che si supponeva facesse grandi miracoli.
Ma «miracolo» non è la parola giusta: non avendo ella religione, non avendo un padre e una madre, non poteva fare miracoli.
Non era nemmeno una fata. Parlava poco e non teneva in alcun conto gli altri perché era come se fosse passata dall’ambascia della morte alla più alta filosofia dei sensi.
Ma anche «senso» non è la parola giusta.
Gli uomini la lasciavano vivere. Avevano capito che comunque quella donna non oscurava nessuno. Incendiava solo se stessa, era un rogo vivente, un’anima che aveva messo in mostra il corpo perché, contrariamente ai rituali soliti, aveva sovvertito la credenza degli altri dimostrando con la propria virtù che l’anima precede la carne.
Il poeta, come il bambino, ha bisogno di fiabe perché non è un essere felice. Egli conserva e alimenta nel suo animo la dinamica del desiderio, di un fulgido passato e della caduta dal grembo materno. Di caduta si tratta, infatti: baratro dell’uomo che cade nell’infelicità naturale. Infelicità rispetto alla madre che lo abbandona, poi infelicità rispetto al cosmo tutto.
Forse le favole le hanno create le madri e i poeti per consolare della barbarie della civiltà, tremendo e provvisorio periodo nel quale il bambino, l’uomo, deve accedere alla coscienza del mondo dimenticando il proprio rimpianto iniziale.
Queste notti sono piene di visite. Mi dimentico le chiavi di casa nella toppa e i profittatori notturni non si fanno certo pregare per entrare. Così, la notte scorsa mi hanno fatto visita il Fantasma e la Bambola.
IL FANTASMA Io abito qui come goccia di rugiada sul letto. Sono stato carne, carne d’amore. Ho ferito per il gusto di ferire gli altri, ma dormo ancora in questa casa, nell’attesa della soavità del nulla. Considerate che dopo la morte non c’è alcun paradiso, ma che si può tornare nelle case di sempre perché il corpo è rimasto lì, scuoiato dalle unghie di Dio.
Dio è un grande alligatore. Esce dalle acque del nostro grembo, generato da noi, e ci mangia il cuore. Io ho amato una donna e l’ho identificata con Dio! Per questo madornale errore sono diventato fantasma. Io che l’ho amata, distrutta, bestemmiando il suo creatore, perché non ho amato un albero invece di lei? o un ciottolo, una pietra o addirittura la ghigliottina? Perché non l’ho uccisa prima che potesse farmi morire? Perché si è dipinta il volto così bene da apparire pura?
Adesso so che la sola purezza in vita è la morte, e non mi domando più se ci sia o non ci sia un Dio prima della nascita. Lei, come chiunque altro, era soltanto materia. Difatti non sono morto io, ma lei.
LA BAMBOLA La società attuale vuole che io sia una donna: un chiaroscuro, un tramonto. Sin da ragazza mi piaceva leggere e mi identificavo in Madame Bovary, meditavo su quel Charles tanto oscuro, irrisorio, medio, e contemplavo la mia lingua di fuori, poiché mi ero avvelenata per una passione. Persino lo speziale non sapeva cosa fare davanti al mio grido d’amore rivolto a Charles, proprio a colui che non vedeva la mia vanità, i miei fronzoli e, soprattutto, la mia passione.
Nell’Ottocento la passione era peccato, per questo ho tentato una morte stomachevole, pensando che qualcuno mi avrebbe salvata. Se tutti coloro che si uccidono sapessero che neppure le bambole possono tornare indietro e che a volte basta un gesto simbolico per troncare la vita...
Questa mattina ho visto un bellissimo dipinto, nel quale un angelo reggeva un’anima moribonda. L’angelo era grande e grosso come un fornaio, tutto bianco proprio come un panettiere, e colui che gli stava tra le braccia era un povero con le ginocchia piegate e gli occhi quasi chiusi. Pareva che invocasse la morte, come anch’io talvolta vorrei. Vorrei che tutto finisse in un lungo, collettivo perdono, perché le passioni sepolte bruciano sempre e i denti già stridono nell’eterna dannazione.
Intorno al Naviglio hanno costruito una zona di omertà che trasforma la clientela in un artificio spacciato per arte. La gente ama solidificarsi nella sua materia, a costo di sfondare il soffitto di coloro che sognano nella notte della loro privata solitudine.
Nelle notti che insanguinano il mio palazzo io penso di avere trovato la cervice di qualcuno che osò spalancare queste finestre sul fato. Io vivo così, ormai svuotata da ogni senso, messo in fuga dagli zotici che penetrano ad ogni ora nella mia casa e percorrono i molti cammini della mia vita.
I misfatti dovrebbero sempre essere documentati con parole, nomi ed eventi precisi, ma questi si frangono contro la grande solitudine del mio canto. Ma fare un romanzo vuole anche dire battere la fiacca sul fronte del migliore offerente di nomi o parole, per disserrare invece mandibole di fuoco lontano dal guadagno. Intanto, ecco che continuano le telefonate anonime che mi chiedono di tacere: tacere su che cosa?
Ho avuto strani incubi stanotte: di uno che voleva ribadire la necessità della lotta ma che mi nascondeva la sua passione dentro la scusa banale di una moralità che non conosco. Lui non sa che la passione non conosce né viltà né specie e nemmeno riesce ad assorbire il duro comando della vita. È a lato del sentiero della passione che crescono gli alberi del teatro delle nostre vite, mentre le parole che ne seguono fedeli il percorso si trasformano in un latrato contro il freddo duro della notte.
Il triste romanzo di Hawthorne, La lettera scarlatta, parla di una donna che aveva amato, messa al bando da tutti perché aveva avuto una figlia molto vivace che il popolo diceva essere indemoniata. Questa bambina si chiamava Perla e, con la sua mamma, venne costretta alla solitudine.
La povera donna dovette portare sul petto come crocefissione estrema e vanto infernale una lettera scarlatta: una «a» dipinta che voleva significare adultera, ma anche «Alda», poiché anch’io un giorno ho incontrato un giovane dalle fattezze di angelo, sulla cui bellezza serena e morbida gli altri hanno equivocato.

Cara Maria Corti,

mi hai vista nascere e mi hai vista morire, e sempre con il tuo nome sulle labbra. Ti ho amata, Maria, tanto, come maestra e madre di cultura, e come donna ispiratrice. Perché negarlo? La Terra Santa è stata una grande tastiera, una sonata d’amore che ti ho dedicato. È stato fatale ma è stato così. Non sono la prima poetessa ad avere avuto per musa una donna virginea estremamente capace di cieli aperti.
Avevamo una vicenda in comune, una grande paura della terrestrità e del discorso, una grande paura della pelle. Mi hai definita «selvatica», selvatica come la ninfa. È vero: io scappo da tutti, spaventatissima, ma soprattutto mi sono sempre arresa alla tua magniloquenza.
Avrei voluto incontrarti ogni giorno per imparare da te le cose che non ho mai imparato nemmeno dal cielo. Ti ho vista poco, ti ho persino odiata. Ma i poeti sono fatti così: parlano sempre male di coloro che amano.
Ho ritrovato le chiavi che anche ieri sera ho lasciato nella toppa. Stamattina, un po’ stanca e raffreddata, le cercavo disperatamente per casa, sino a che mi è venuto in mente di cercarle fuori, dove in effetti erano rimaste tutta la notte, dimenticate. Alle cinque del mattino il vate se ne è andato di casa, sbattendo la porta. È un uomo piccolo, tenuto bene, dal passo molto veloce, rimasto vedovo un po’ di tempo fa. Mi sono veramente molto arrabbiata perché, per semplice cortesia, avrebbe potuto avvertirmi delle chiavi, tenuto anche conto che alla moglie io avevo fatto tanti favori.
Non so come, ma da qualche tempo quest’uomo pare ringiovanito. È felice, fischietta, rientra solo a notte fonda, tant’è vero che per causa sua io ho preso una brutta abitudine: mi addormento solo quando lo sento rientrare, consapevole che al mio piano della casa c’è almeno un uomo. Così come anche molti anni addietro aspettavo un vedovo, che rientrava a notte inoltrata, felice di aver perso la moglie.
Su questi due casi la mia mente ha lavorato a lungo. Il primo vicino, subito dopo i funerali accettò un mio presente: sei bottiglie di barbera. Mi portò a vedere la sua camera da letto dicendo che, se avessi voluto, sarebbe stata mia. Gli risposi con molto tatto che la mia casa era sovraccarica di mobili e che quindi non avrei potuto fare trasloco. Il vedovo si arrabbiò e non mi chiamò più.
Anche lui, come il successivo, verrà rapito dalla vicina di sotto, che comincerà ad accoglierlo in famiglia, a coccolarlo. Siccome ero anch’io vedova, non capivo perché questi uomini benestanti e felici fossero tanto ripagati e assistiti dagli altri, mentre io languivo nella povertà più assoluta, facendo da sola la spesa e le faccende di casa. Mi sembrava strano che una donna con una famiglia felice non tenesse conto della solitudine dell’altra.
Io comunque, stamani, appena desta e quasi in pace mentre il telefono taceva, ho pensato: «Perdio, faccio di continuo le mie rimostranze in questura, ma sulla sparizione della mia posta non si fa mai luce!». E mi viene in mente un osso, trovato in cortile durante dei lavori di scavo. Me lo buttò in grembo un operaio da me chiamato «massone», il quale, ridendo, disse: «Aveva ragione lei, qui sotto c’erano delle ossa». Arrivò la questura, mi fecero odorare l’osso, dissero che era di trenta anni fa. Ma poi non se ne seppe più nulla.

Pietà

In Italia si ha pietà dei cani ma non dei bambini.
Non delle vedove, non dei morti.
Si ha persino pietà dei pazzi,
che trovano naturale invadere il letto degli altri.
La natura è così benevola in Italia,
e dal momento che ci han dato il sole
perché non scaldare anche le ombre?
Quante ombre ha la mia casa!
E poi dicono che sono falsi pensieri.

Lettera a nessuno

Ho delle idee mie proprie, idee che non posso comunicare. Per esempio, certe cose che ho visto a Taranto non so raccontarle al Naviglio. Sono un sovraccarico d’inganni. Non è la psichiatria che mi tormenta, non è il disordine di casa mia e neanche il disamore dei figli. Mi tormenta la religione segreta di quei figli del Sud che ho tanto amato e che mi hanno dimenticata. Non solo dimenticata: essi continuano a depauperarmi dei miei beni. Io vivo nello squallore e qualcuno mi fa però i conti in tasca: sono loro.
Lo so, mi hanno diffamata, ma è mai possibile che nessuno riesca a far tacere la mafia?
Penso alla Pazza della porta accanto: una donna che per il miraggio del denaro si è lasciata comperare, corrompere fino ad ottenere le chiavi del mio destino. E chi altri è l’uomo venuto dopo, il portinaio, se non un raccomandato di ferro? È un delinquente, uno che alla signora Merini venerata dai critici non dà nemmeno il buongiorno.
La mafia fa queste cose. La mafia toglie il privilegio della lingua, dell’abbandono secolare agli amori, e soprattutto toglie l’anima.
Potrei accusare il mio ultim...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. LETTERE A UN RACCONTO
  4. 1. Guerre di poeta
  5. 2. Una pace disordinata
  6. 3. Congiure di palazzo
  7. 4. Fosche memorie
  8. 5. I ragionieri del demonio
  9. Nota di Benedetta Centovalli
  10. INDICE