Solo io posso scrivere la mia storia
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Solo io posso scrivere la mia storia

  1. 280 pagine
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Solo io posso scrivere la mia storia

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Oriana Fallaci ha vissuto la Storia: lo ha fatto dalle trincee in Vietnam e dagli uffici della Casa Bianca, così come dalla tenda di Gheddafi o dal quartier generale di Khomeini. Ha subito sparatorie e bombardamenti, ha testimoniato "l'umana crudeltà e imbecillità", e con lucidità ha saputo riconoscere il più grande incubo del Ventunesimo secolo: il terrorismo globale. In una vita dedicata alla scrittura della verità, mai e poi mai avrebbe autorizzato una sua biografia. C'era una sola persona al mondo in grado di intervistare Oriana Fallaci, e l'ha fatto: nei fogli di bozze e tra le righe degli articoli, negli appunti pubblici e privati, Oriana non ha fatto altro che scrivere e raccontare la sua storia straordinaria. La raccolta di questi scritti restituisce con precisione il carattere e il pensiero di una donna che ha affrontato ogni sfida senza mai inchinarsi al potere, e che ha lasciato ai suoi lettori il testamento di una vita leggendaria.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2017
ISBN
9788858690734

PARTE SECONDA

Lavorare, viaggiare

Nel mondo

La parola lavoro suscita in me un’immagine. Ho cinque o sei anni e sto ritta sul letto: mia madre mi sta infilando una camiciola di lana. Ruvida, ruvida. Pizzica. La mia testa arriva al collo di mia madre, sicché per guardarla in faccia devo rovesciare il capo all’indietro. La guardo e lei piange. Silenziosamente, di rabbia. E piangendo dice: «Non devi fare come me! Non devi diventare una moglie, una mamma, una schiava ignorante! Devi andare a lavorare! Lavorare! Viaggiare! Il mondo! Nel mondo!». E io non capisco perché lei lavora tanto, lavora sempre: il suo non è lavoro? E un giorno, ero ormai un’adolescente, ricordai l’episodio a mia madre e le dissi: «Ma il tuo non era lavoro?». E lei mi rispose: «No. Era schiavitù».1

Primo viaggio a Teheran

A Roma, tutti eravamo molto eccitati all’idea di venire in Persia. A dire la verità neppure noi avremmo saputo spiegare esattamente la ragione. Il mio amico Guzman diceva che eravamo tanto nervosi perché la Persia è in Oriente e l’Oriente ha un indiscutibile fascino su di noi europei. […]
Eravamo cinque giornalisti, tre operatori cinematografici e un radiocronista. Viaggiavamo con un aereo che inaugurava la linea Roma-Teheran e incontrandoci a Ciampino ci salutammo con grande effusione come se partissimo su un razzo per andare sulla luna. […]
«Ecco Teheran» gridò con voce allegra la hostess. L’aereo cominciò lentamente ad atterrare. Scorgemmo, schiacciata contro la terra, l’immensa, gialla città. Lunghissimi viali alberati la tagliavano a rettangoli e ad angoli retti, case piccole e basse come capanne si stringevano una accanto all’altra. Immensi palazzi di candido marmo, circondati da aiuole verdi e da vasche, si alzavano rari e preziosi: le regge dello Scià. Rosse ed azzurre brillavano al sole le cupole appuntite delle moschee e si stagliavano, dritti e sottili come fiammiferi, i bei minareti. Eravamo arrivati in Persia, nella terra di Dario e di Serse, di Mossadeq e del petrolio, eravamo giunti al Paese dei Re Magi, dei racconti di Mille e una notte, e di Soraya.2
La preoccupazione di dover intervistare Soraya ci ossessionò fin dalla partenza, ci accompagnò per tutto il viaggio, si acutizzò gravemente all’arrivo. La prima cosa che chiedemmo agli amici persiani appena scesi all’aeroporto di Mehrabad fu il modo più breve per arrivare a Soraya. Gli amici persiani furono colti da molto stupore: «Intervistare Soraya? Più facile entrare al Cremlino e intervistare Malenkov». Rispondemmo che a Roma Soraya si faceva intervistare senza eccessive difficoltà: perché a Teheran la cosa appariva così difficile? Gli amici sorrisero con pazienza: una cosa era intervistare una regina in vacanza o in esilio, una cosa intervistarla nella sua reggia. Non solo nessun giornalista era mai entrato a palazzo reale per chiacchierare con l’imperatrice: ma l’intero Paese era in lutto per la morte di Alì Reza, fratello dello Scià, e correvano inoltre giorni difficili. Fatemi era stato fucilato da poche ore, molti ufficiali erano in attesa di condanna. Udienze e ricevimenti erano stati cancellati, per adeguarsi alle circostanze, dalla lista degli impegni delle loro maestà.
Delusi ci recammo dall’ambasciatore italiano il quale fu molto gentile e promise di occuparsene. Ma i giorni passavano e di intervistare Soraya non si parlava nemmeno. Io, Guzman e Barbicinti diventammo irascibili, quasi nemici. Ci sorvegliavamo a vicenda per paura che qualcuno si recasse a palazzo imperiale, ci inseguivamo, ci facevamo la spia, formavamo temporanee alleanze contro il terzo che sembrava sospettabile. Inventavamo trucchi abilissimi per scoprire le vere intenzioni. Per esempio ci telefonavamo, di notte, chiedendoci: «Quando vai da Soraya?» sicuri che nel dormiveglia quello parlasse. Eravamo diventati insopportabili, dispettosi come bambini.
La comunicazione con cui si inizia la storia che piace tanto al mio amico Mazandi giunse, improvvisa, durante un cocktail. Fu l’ambasciatore a portarmela, strizzando un occhio: «Congratulazioni» disse sottovoce. «Lei vedrà la regina. E soltanto lei. Le richieste degli altri non sono state accettate.» «Davvero, eccellenza?» strillai e fui tanto felice da dimenticare di chiedergli il giorno dell’appuntamento. L’ambasciatore, brindando, se ne dimenticò con me. Ero talmente ciarliera ed euforica, che Barbicinti mi guardò con sospetto. «Sembra tu debba andare dalla regina» disse di malumore. «Infatti» risposi io, «vado proprio dalla regina.» «Già» disse lui, sicuro che scherzassi, «salutamela tanto.»
L’indomani mi alzai piena di progetti e per festeggiare l’avvenimento invitai tutti quanti a venire in giro per Teheran. Andammo al Bazar, poi al museo, poi al mercato dei tappeti, poi al mausoleo di Reza Scià, poi a mangiare da Suren che è il locale più elegante di Teheran, gestito da un ex ufficiale dello Zar, e quando fu quasi buio e non avemmo più alcun posto in cui andare, ci recammo all’ambasciata. Appena entrai scorgemmo un gruppo di persone eccitate. «È inaudito» diceva uno, «è scandaloso.» «Anche lo Scià se n’è avuto a male» diceva un altro, «roba da provocare complicazioni internazionali.» «Non è mai successo» ripeteva un altro ancora agitando le mani. «Cos’è successo?» chiesi a un usciere. «Non lo sa?» rispose lui. «La regina ha concesso un colloquio ad una giornalista italiana e la giornalista non è andata all’appuntamento.» Un brivido mi corse lungo la schiena. «A che ora doveva andarci?» balbettai. «Alle undici» disse l’usciere. Guardai l’orologio. Erano le sei. Per otto ore Soraya mi aveva aspettato ed io, ignara, me ne andavo in giro per Teheran a festeggiare un colloquio perduto. […]
Mi allontanai in punta di piedi per non farmi vedere. Rientrai in albergo con una gran voglia di piangere. Nessuno, ch’io sappia, ha mai fatto aspettare una regina, neppure in questi tempi di democrazia. Avevo commesso la più grave delle scorrettezze, ed avevo perso una delle migliori occasioni della mia carriera di giornalista. Disperata, annichilita, telefonai a Joe. «Joe» dissi. «È successa una cosa terribile. La regina mi aspettava e io non lo sapevo.» «Cosa?» urlò Joe e buttò giù il ricevitore. Anche lui era rimasto indignato, dunque. E quando un giornalista americano si indigna vuol dire proprio che la si è combinata grossa. Non sapevo che fare, lentamente mi avviai verso l’uscita. Ero sulla porta quando mi trovai circondata da una ventina di giornalisti e di fotografi. In prima fila c’era Joe che mi spinse nella hall e mi obbligò a raccontare quel che era successo. Fu una conferenza stampa con tutte le regole. I reporter mi interrogarono per quasi un’ora. Il fatto era per loro eccezionale e divertente. L’indomani tutti i giornalisti riportavano la notizia e le mie fotografie: «Ha fatto aspettare la regina», «Ha un colloquio con la regina e va in giro per il bazar». Questo era ancora peggio e io fui doppiamente disperata. Per consolarmi, Joe decise di portarmi a visitare il Golestan e mi regalò una quantità incredibile di dolci, di pistacchi, di miniature d’avorio, mi comprò una stampa antichissima, una pipa per fumare l’oppio e perfino un tacchino vivo. Era paziente e affettuoso come se si fosse trattato di consolare una ragazza afflitta da una immane sciagura. «Non te la prendere» diceva mentre passeggiavamo per la città, «dopotutto puoi sempre scrivere di aver fatto aspettare una regina. Non è mica da tutti.» Stavamo facendo questi discorsi quando un soldato ci fermò. Chiese il mio nome, volle vedere il mio passaporto. «Mi scambia per qualcun’altra» dissi a Joe. «No» rispose lui che parla il persiano come l’inglese, «cercano proprio te.» Il soldato aveva molta fretta, chiese a Joe di seguirlo. Salimmo su un taxi, col soldato che mi guardava fisso e cominciammo a correre attraverso la città.
«Cosa vuole?» chiesi a Joe, incominciando a preoccuparmi. «Chi lo sa» disse lui. «Forse vogliono arrestarti perché hai fatto aspettare la regina.» Guardai il soldato: continuava a fissarmi con aria gelida. Non c’era dubbio, voleva arrestarmi. Malinconicamente, meditai sul mio strano destino: essere venuta in Persia per finire in prigione. Pensai con rimorso a mia madre, a mio padre, alle mie sorelle, alla faccia che avrebbero fatto sapendo che ero stata rinchiusa in una prigione di Teheran per aver fatto aspettare la regina. «Joe» gridai disperata. «Mi fucileranno?» Joe scosse la testa. «Non credo. Dopotutto sei una straniera.» Appariva molto divertito, avevo una voglia pazza di prenderlo a schiaffi. Stavo per farlo quando il taxi si fermò a un portone elegante. Scendemmo. Attraversai un giardino, entrai in una bella casa arredata con gusto europeo. Non è una caserma, pensai, rinfrancata, e in quel momento un signore autorevole e sorridente entrò quasi gettandomi le braccia al colo. Era il Gran Ciambellano. «Che Allah la protegga» disse, tirando un gran respiro di sollievo. «Grazie al cielo l’abbiamo trovata. Ho sguinzagliato tutti i miei segugi per individuarla fra tutte le straniere piccole e bionde della città. Corra a cambiarsi, si metta un abito nero: la regina l’aspetta. È così curiosa di conoscerla dopo quel che è successo che ha fissato un nuovo appuntamento.»
Mi precipitai in albergo, misi il mio abito da cerimonia, mi recai con Joe a Palazzo Imperiale. Joe rideva perché sapeva fin dall’inizio la ragione per cui il soldato mi aveva ordinato di seguirlo sul taxi. «Ora sì che diventerai la ragazza più celebre della città» disse. Ed io non ebbi tempo di chiedere spiegazioni perché appena scesa dinanzi alla reggia di marmo venni di nuovo assalita dai fotografi e dai giornalisti. Il resto è noto. Un picchetto armato ci consegnò a un ufficiale, l’ufficiale a un altro ufficiale, e così scortata attraversai il parco del palazzo imperiale, salii lo scalone d’onore, attraversai molti saloni dov’erano i tappeti più belli del mondo, venni introdotta nella sala degli ospiti che è quasi grande come il Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio e raccoglie i quadri dei più celebri attori della Persia. Ora verrà qualcuno per introdurmi dalla regina, pensai. Invece Soraya entrò sola, chiudendosi la porta alle spalle e tutto ad un tratto me la trovai davanti. Era così piccola e fragile nell’abituccio nero da lutto, col volto pallido e senza trucco, così diversa dalle fotografie dove appare severa e imponente, che lì per lì credetti trattarsi di una dama di corte. «Good morning» dissi, «how do you do?» Subito dopo rimasi senza fiato: colei che avevo salutato con tanta familiarità era l’irraggiungibile imperatrice della Persia. Tentai qualche parola di scusa, mi ricordai che dovevo farle un profondissimo inchino. Soraya mi porse invece la mano, disse di non preoccuparmi: «Don’t worry, please». Mi sembrò quasi grata dell’errore. «Si accomodi, prego» disse indicandomi la poltrona, aspettò che mi fossi seduta poi anche lei si sedette sul divano di fronte. […]
La ventiduenne più invidiata del mondo era timida come una bambina, arrossì lievissimamente prima di iniziare il discorso. Volle sapere a che albergo ero, come era andato il mio viaggio sull’aereo che inaugurava la linea Roma-Teheran della LAI, cosa avevo visto di Teheran, volle sapere notizie sull’Italia. «Ah, l’Italia, l’Italia» diceva con la sua vocina sottile ed acuta. «Ah, Roma, che nostalgia! Come invidio lei che ci vive!» A Roma sarebbe tornata volentieri, disse, ma suo marito era sempre così indaffarato, non ce la poteva mai accompagnare. Diceva «mio marito» e non «lo Scià» come avrebbe preteso l’etichetta. Disse che adorava anche Venezia e Firenze. C’era stata prima di sposarsi. Diceva «prima di sposarsi» come se fosse stata una moglie qualunque. Poi parlammo di vestiti, di cinematografo, della gente che conoscevamo (il Gran Ciambellano mi aveva supplicato di non farle domande politiche o indiscrete); sembrava d’essere a un tavolino di via Veneto invece che in una delle regge più favolose del mondo, e io mi chiedevo se era proprio questa la sovrana per avvicinare la quale avevo vissuto tante avventure. «Le piace la moda francese?» chiedeva Soraya. «Le piace la linea H?» «Conosce Dior?» «Conosce Fath?» «Conosceva la signora Lollobrigida? E la Mangano, com’è?» «Ha mai visto in persona Gregory Peck?» Poneva continue domande, non mi era mai capitato di andare a intervistare qualcuno ed essere invece intervistata. «Capirà» disse a un certo punto, quasi scusandosi, «io sto sempre qua dentro. Vedo così poche persone.» Quanto a lei adorava la moda francese ma anche quella italiana, detestava la linea H, era addoloratissima per la morte di Fath, aveva incontrato la Lollobrigida a Roma e le sembrava bellissima, la donna più bella del mondo (e io mi chiesi, meravigliata, se era conscia della sua bellezza), non aveva mai visto Gregory Peck ma contava di conoscerlo a Hollywood: sarebbe partita per l’America fra pochissimi giorni.
«Ah, New York, la Fifth Avenue, le Montagne Rocciose!» esclamava con aria felice, sembrava una dodicenne al suo primo viaggio in treno e immediatamente compresi che la ricchissima e potentissima Soraya si annoia mortalmente nella sua torre d’oro e d’avorio. Era così eccitata dall’idea di andare in America che per qualche minuto non ebbi il coraggio di chiederle se veramente andava in America per divertimento o per farsi visitare da un celebre medico, come i bene informati a corte sostengono. Infatti Soraya non ha ancora dato, dopo tre anni di matrimonio, un figlio allo Scià e questo è il suo grande dolore. La sua mancata maternità è alla base della crisi dinastica che travaglia l’Iran e, se l’erede non nasce, Soraya potrebbe essere ripudiata coma fu la prima moglie dello Scià, Fawzia. Poi mi decisi: Sua Maestà si recava in America per qualche «medical treatment»? Di colpo Soraya perse il sorriso e diventò silenziosa. Poi alzò la testa e non era più la bambina timida ma l’imperatrice alla quale si è fatto una domanda indiscreta, rispose: «No, for pleasure». «Sono così contenta di averla conosciuta» disse poi per mitigare la durezza della risposta, «ero veramente curiosa di conoscerla.» La ringraziai, abbozzai delle scuse per ciò che era successo; «Don’t worry», non si preoccupi, ripeté lei e mi porse la mano, alzandosi, per dimostrarmi che il colloquio era finito. «Mi saluti l’Italia» disse prima di chiudersi l’uscio alle spalle. Subito dopo una dama di corte mi accompagnò fuori. Ripercorsi di nuovo i fastosi saloni coi tappeti più belli del mondo, scesi lo scalone d’onore, attraversai il parco pieno di vasche e di fiori, fui sul portone del palazzo dove i colleghi di Teheran mi aspettavano con pazienza. «Com’è?» chiese Joe col lapis e il taccuino in mano. Restai un attimo zitta: è difficile qualificare una donna come Soraya. «È davvero una regina» risposi per cavarmi d’impaccio: «Che scoperta» commentò Joe.3

Ungheria, morte della libertà

Non sono riuscita a entrare a Budapest. Non ho visto la città straziata, né i corpi dei gerarchi comunisti penzolare impiccati dagli alberi di piazza della Repubblica. Non ho visto le donne di Budapest piangere sui figli morti in combattimento, ferme dinanzi ai cadaveri circondati di candele. Ma ho passato due volte la frontiera ungherese, per due volte mi sono spinta nel Paese più martoriato d’Europa, quando ormai più nessuno osava avventurarsi laggiù. E, sabato 3 novembre [1956, N.d.R.], ho visto qualcosa che è più tragico, e disperato, degli spettacoli orrendi di Budapest. Ho visto morire, per la seconda volta, la libertà ungherese. Ho visto la cortina di ferro calare per la seconda volta su un popolo eroico. Ho visto i carri armati russi puntare le loro mitragliere su creature inermi. Ho seguito il dramma dei miei colleghi giornalisti sequestrati dai sovietici. Ho assistito alla sconfitta senza rimedio dei miei amici ungheresi.4
Ho visto un rivoluzionario di Budapest a cui i comunisti dell’AVH hanno tagliato la lingua. Ho visto i profughi arrivare carponi fra i campi, inseguiti dalle fucilate dei russi, e li ho interrogati mentre, ancora sporchi di fango, si accasciavano al di qua della frontiera. Ho visto i ragazzi che distruggevano i carri armati sovietici, e non erano più ragazzi, ma sconcertanti creature rugose. Ho ascoltato la radio degli insorti mentre un interprete sconvolto mi traduceva frase per frase. Sono tornata a Hegyeshalom dove non c’erano più il professor Hollo e la partigiana Ludmilla ma soldati ungheresi che hanno rimesso la stella rossa alle mostrine dell’uniforme e al berretto. Sono entrata per sbaglio in territorio cecoslovacco, insieme ad alcuni colleghi, e sono fuggita mentre dalle torrette di guardia i soldati cecoslovacchi puntavano i fucili a cannocchiale verso di noi. Sono fuggita lungo un viottolo, badando bene a non mettere i piedi nei campi perché i campi sono pieni di mine. […] Ed ho capito che il mondo è in pericolo, e quella che chiamavamo la seconda «belle époque» sta per finire.
Forse gli orrori ai quali assistiamo ci impediscono di considerare le cose nella loro giusta misura. Ma mi sembra che non ci sia più posto, nel nostro interesse di uomini e donne consapevoli, per gli amori dei divi, gli scandali mondani, le prime cinematografiche alle quali si va in smoking e décolleté.5

L’antipatica

Detesto cenar con gli attori e anche farci solo merenda; il timore poi che mi invitino perché dedichi loro due righe di pubblicità mi avvilisce, mi umilia.6
Ovunque si parla di loro, ovunque si discute di loro, delle loro gesta, dei loro amori, delle loro corride, delle loro poesie, dei loro gol, della loro musica, dei loro comizi, dei loro film, dei loro miliardi, della loro miseria, e la loro celebrità è così vasta, così rumorosa, così esasperante che ci ossessiona, ci tormenta, ci sof...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Solo io posso scrivere la mia storia
  4. PARTE PRIMA. Fiorentino parlo, fiorentino penso
  5. PARTE SECONDA. Lavorare, viaggiare
  6. PARTE TERZA. Amore e libertà
  7. PARTE QUARTA. Il mestiere di scrivere
  8. PARTE QUINTA. Prova del fuoco
  9. Nota dell’editore
  10. Note
  11. Indice