La prigioniera del silenzio
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La prigioniera del silenzio

  1. 432 pagine
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La prigioniera del silenzio

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Venezia, 1327. Giulia Bondimier è l'unica erede di un'illustre famiglia patrizia della Venezia del Quattordicesimo secolo. La sua relazione con il giovane Samuel Macalia, setaiolo ebreo, è intensa e passionale, ma anche impossibile. Quando Giulia rimane incinta, deve cambiare vita e rinunciare al frutto della sua colpa. Un destino simile a quello di Nicoleta, figlia di un umile carpentiere e vittima di uno stupro, costretta a privarsi della creatura che porta in grembo. Giulia viene costretta alla vita monastica, in una Venezia trasformatasi per lei in una prigione. Nicoleta invece fugge in terraferma alla ricerca di una nuova dignità. In una società dominata dal potere degli uomini, due donne si trovano a combattere per la loro vita, per i loro diritti, per la loro libertà, alle soglie della più tremenda epidemia di peste mai conosciuta in Europa. Una vicenda dolce e potente, che, tra le pieghe della grande Storia, racconta il senso pieno dell'essere donne e madri.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2017
ISBN
9788858691519

SECONDA PARTE

40

Venezia, maggio 1347.

«… Fu allora ch’ella domandò all’amante
Dammi lo specchio ch’el non può mentire
Quando s’avvide dell’egual sembiante
Tanto gemette da voler morire…»
La voce stentorea del giullare si affievolì e il suo volto si aggricciò in una maschera di sofferenza. L’uomo strinse gli occhi, stirò le labbra all’ingiù e si voltò verso il canale: allungò il braccio e indicò la corrente.
«… Ella fuggì veloce verso il rio
E nul seguace poté più salvarla
Fu poi l’amante che pagò gran fio
Del destino crudel di cui si parla…»
Il giullare emise un lungo lamento sonoro. Sollevò il braccio al petto, abbassò la testa e rimase in silenzio.
Dopo un attimo di esitazione, il pubblico esplose in un applauso accompagnato da entusiastiche grida di apprezzamento. L’uomo si inchinò, estrasse dalla sacca il paniere del compenso e lo depose a terra. Poi aggirò il palco e, con l’aiuto del garzone, cominciò a smontarne le assi.
Recitava da più di un’ora e adesso sentiva arrivare la stanchezza. Aveva declamato tre fabliaux e l’ultimo gli era costato fatica. I primi due, mordaci quanto basta, si potevano facilmente improvvisare: un motteggio volgare qua, un’imprecazione là bastavano a far sbellicare dalle risate e il successo era garantito. Il terzo, invece, quello dedicato ai gemelli amanti, richiedeva ben altro impegno: oltre alla memoria ferrea richiesta dal succedersi delle quartine, la mimica e i gesti dovevano esaltare la drammaticità del racconto al punto da sollecitare le lacrime nel pubblico. Lo aveva rappresentato molte volte, e sempre in finale, perché sapeva che quella storia commovente, ascoltata per ultima, induceva gli spettatori ad allargare i cordoni della borsa. Come sperava sarebbe accaduto anche quel giorno: a giudicare dall’aspetto, si sarebbe detto che la maggior parte di coloro che avevano assistito allo spettacolo appartenesse al patriziato. C’erano anche popolani, ma non era certo dalle loro tasche che sarebbe arrivata la remunerazione adatta alla sua abilità di giullare.
Se il contenuto del paniere avesse soddisfatto le sue aspettative, avrebbe radunato gli attrezzi di scena e se ne sarebbe andato subito, prima che finissero le celebrazioni della Sensa. Entro due giorni doveva essere a Treviso, dove avrebbe replicato lo spettacolo. La recita sarebbe stata anche l’occasione per portare l’ambasceria che gli aveva appena affidato Arrigo Lion, un capo della Quarantia: il notabile, uno dei più abili mediatori della Repubblica, fruiva spesso dei suoi servigi e la discrezione con cui lui era solito eseguire quegli incarichi diplomatici gli aveva guadagnato grande fiducia nelle stanze di Palazzo Ducale.
Ne aveva bisogno, soprattutto ora che stava per fondare una vera e propria compagnia di giro: le esibizioni di un giullare, una giullaressa, quattro musici e tre saltimbanchi richiedevano una scena molto più complessa di quella di cui disponeva. Ci volevano fondali dipinti, colonne, scale, corde e tutto quanto servisse a catturare l’attenzione degli spettatori: un allestimento costoso a cui andavano aggiunti i necessari permessi di occupazione del suolo pubblico. Che, grazie alla stima di cui godeva presso le autorità veneziane, sarebbero puntualmente arrivati.
Nella folla ormai sfoltita, restavano solo tre o quattro servette che lo fissavano eccitate. Sapeva che, se solo avesse voluto, avrebbe potuto spassarsela tutta la notte con ognuna di loro, ma adesso non c’era tempo.
Dispensò qualche sorriso e raccolse il paniere: era colmo di monete. Compiaciuto, si spogliò del costume di seta vergata e indossò i suoi abiti. Poi ordinò al garzone di seguirlo verso il pontile del traghetto.
La Riva degli Schiavoni brulicava di gente. Confusi tra la folla, Cristina e Francesco camminavano vicini, diretti all’approdo di San Marco, dove era atteso l’arrivo del Bucintoro. Annunciata dallo stendardo ducale che sventolava sul pennone e circondata da decine di barche parate a festa, la galea aveva appena doppiato la Giudecca e fendeva maestosa le onde del canale. A tratti, un vento lieve portava con sé le voci salmodianti dei monaci che avevano affiancato il doge nella celebrazione dello Sposalizio del Mare.
Cristina allungò il collo e si alzò in punta di piedi.
«Eccoli, eccoli!» esclamò eccitata.
Francesco le sorrise e la prese saldamente per mano.
Precedendola di un passo per ripararla da gomitate, urti e spintoni, si fece strada tra la folla e raggiunse il molo: qui, seminascosti dietro le grandi ghirlande fiorite che addobbavano i piloni, i due giovani si disposero ad attendere l’attracco.
L’ultima onda sollevata dal Bucintoro si acquietò e sulla riva calò il silenzio: i musici rimasero con gli strumenti a mezz’aria, i cerusici smisero di magnificare le loro pozioni, i giocolieri deposero gli attrezzi, i giullari tacquero. Per un lunghissimo momento si udirono solo lo sciacquio dell’acqua e lo stridio dei gabbiani.
Poi, non appena la figura di Andrea Dandolo comparve sulla tolda, da ogni parte si levarono grida festose: patrizi, popolani, forestieri e marinai si riversarono lungo l’approdo e occuparono ogni spazio libero sulle passerelle che collegavano alla riva le barche dei mercanti.
Gli strumenti dei musici ricominciarono a suonare: i liuti, le ribeche, le zampogne e i tamburelli accompagnavano l’ondeggiare ritmico della folla che, trattenuta a stento da due cordoni di guardie, si stringeva pericolosamente intorno al doge appena sbarcato.
Preceduto da una folta schiera di arsenalotti e seguito da autorità civili e religiose, Andrea Dandolo si avviò verso Palazzo Ducale. Sebbene i veneziani fossero ormai avvezzi alla magnificenza dell’abito da cerimonia indossato dal doge, non furono poche le esclamazioni di meraviglia sollevate al suo passaggio. Alle pietre preziose ricamate sul corno di sciamito scarlatto faceva da contrappunto un pallio di damasco fiorato: era aperto sul fianco e lasciava intravedere il lucente broccato della dogalina sottostante.
«Ma è quello il doge?» chiese un mercante dalle fattezze nordiche al giovane popolano che si sbracciava davanti a lui. «Non dovrebbe essere più vecchio?» aggiunse stupito.
Il ragazzo smise di agitarsi, si voltò e lo fissò.
«Perché» rispose aspro, «devono per forza essere dei barbogi quelli che ci governano? È così che siete abituati voi forestieri, basta che il capo sia decrepito e allora va bene comunque? Ma cos’è, è la prima volta che venite a Venezia?»
Il mercante annuì.
«Ah, ecco perché! Allora non sapete che prima di eleggere un doge i veneziani fanno un mucchio di votazioni per essere sicuri di scegliere quello giusto. Ma ne fanno tante, eh, ma proprio tante! Cosa credete?» continuò raddrizzando le spalle in un moto d’orgoglio. «Noi lo sappiamo già da prima se quello che va su è capace di governare o no, e non sbagliamo mai: l’età non conta niente, l’importante è che lui è capace di difenderci e di tenerci tutti insieme. Avete capito adesso?»
Incerto, il mercante annuì di nuovo e si allontanò fra la calca.
«Ma chi si credono di essere questi qua?» commentò il ragazzo a voce alta. «Solo perché ci vendono argento e legname, pensano di poter mettere becco nelle nostre faccende? E la città che puzza, e i topi, e il doge che è troppo giovane… Ma che guardino cos’hanno in casa loro, per Dio!»
La sconosciuta che aveva accanto gli sorrise in segno di approvazione. Il ragazzo la guardò: indossava un abito servile ed era molto graziosa.
Le sorrise a sua volta. Chissà, pensò, forse potrei concludere in bellezza la festa della Sensa.
«Vieni con me a mangiare un boccone all’osteria del Cavalletto, c’hai voglia?»
La giovane assentì maliziosa, porse il braccio al suo inaspettato ammiratore e, insieme con lui, si fece largo tra la folla.
Luda si guardò intorno in cerca di Cristina, ma non riuscì a vederla. Nonostante fossero quasi i vespri, rive, piazze e calli erano ancora gremite di gente. I festeggiamenti si sarebbero conclusi solo a notte fonda, quando anche l’ultima brocca di vino fosse rimasta a secco: come accadeva sempre alla Sensa, le locande traboccavano di avventori e gli osti, che servivano il peggior vino dell’annata, facevano ottimi affari. L’indomani la città sarebbe stata invasa dall’immondizia e le fondamenta sarebbero state disseminate delle lordure degli ubriachi.
Luda sospirò, prevedendo una mattinata di ramazza e secchio. Era già successo due anni prima quando, riverso sulla porta della bottega, aveva trovato un uomo quasi affogato nel proprio vomito: dagli abiti pretenziosi si sarebbe detto un mercante. Lei e Simone avevano impiegato più di mezz’ora a cercare di farlo rinvenire e quando finalmente ci erano riusciti, l’uomo si era alzato in piedi e, borbottando in una lingua sconosciuta, se n’era andato chissà dove. Era lo scotto da pagare a quella festa: qualche giorno di confusione, ma molto denaro in più nelle casse dei commercianti. Comprese quelle della spezieria.
Era quasi arrivata al Ponte di Rialto, ma di Cristina non c’era traccia. Al mattino, prima di uscire, le aveva fatto promettere di tornare prima del calar del sole e invece, come capitava spesso, aveva disobbedito. Stizzita, decise che le avrebbe riservato una bella lavata di capo: quella benedetta ragazza non conosceva il pericolo e voleva sempre fare di testa sua.
Come con Francesco. Non che avesse qualcosa da ridire su quel giovane: era gentile e rispettoso, ma, buon Dio, era pur sempre un patrizio! Dove si era mai sentito che una semplice speziale si maritasse con uno del suo rango? Più di una volta l’aveva ammonita a troncare quella storia: ti porterà solo guai, le diceva. Fino ad allora i suoi consigli non erano stati ascoltati.
Cristina aveva conosciuto Francesco due anni prima, quando era venuto in bottega ad acquistare rimedi per sua madre, Beatrice Mengolo. Dicevano che la donna, moglie di un avogadore, fosse di salute cagionevole: lei l’aveva vista due sole volte e, sebbene celato dall’alterigia aristocratica comune a tutti i patrizi, il suo sguardo comunicava tristezza. Che dipendesse dai malanni a cui andava soggetta o da qualche altro motivo, lei non poteva saperlo, ma era certa che quella donna soffrisse.
Era altrettanto certa che, se fosse venuta a conoscenza della relazione tra i due ragazzi, la sua melanconia si sarebbe tramutata in furia: avrebbe sollevato un putiferio e avrebbe dedicato le poche forze che le restavano ad accusare Cristina di essere una sgualdrina. E probabilmente sarebbe riuscita a gettare fango anche sulla reputazione di Simone, compromettendo per sempre la sua fiorente attività di speziale. Vere o false che fossero, bastavano poche voci maligne a danneggiare una famiglia: lei, la slava che aveva osato sposare un cittadino della Repubblica, sapeva fin troppo bene quanto impegno le fosse costato farsi accettare dai veneziani. E adesso che finalmente la loro diffidenza aveva lasciato il posto alla tolleranza, non poteva permettere che quella testa calda di Cristina rovinasse tutto.
Percorse il ponte e scrutò con attenzione le facce delle decine di persone che lo affollavano, nella speranza di riconoscere le fattezze della figlia. Non era nemmeno lì.
Esasperata, scese sull’altra riva e si incamminò verso la bottega.
La gondola era ferma accanto a una bricola. Il remo, appoggiato alla forcola di poppa, affondava nell’acqua.
«Quanto ci vorrà, prima di riuscire a passare, Todaro?»
La voce di Giulia suonava stanca.
«Non molto, magistra. Mi sembra che le barche che vengono in giù sono diminuite. Fra un po’ potremo ripartire.»
Giulia sporse la testa a guardare: non era affatto sicura che Todaro avesse ragione. Il canale era ancora gremito di imbarcazioni e i barcaioli si lanciavano insulti coloriti che, sovrastati dal vociare proveniente da rive e fondamenta, formavano una singolare, sgradevole sinfonia.
Di lì a poco avrebbero costeggiato Ca’ Bondimier e, come faceva sempre, Giulia avrebbe chiuso gli occhi per non vedere. La palina di casata, variopinta e accarezzata dalla corrente, la scalinata davanti al portico buio, le colonnine alle finestre, la balconata dell’altana. Un passato che, nonostante il trascorrere degli anni, non aveva ancora dimenticato.
Non ci riuscirò mai, si disse. Il monastero, le penitenze, i digiuni, la preghiera: a cosa sono serviti se i ricordi continuano a divorarmi? Se nella mia mente scorrono ancora le immagini degli arredi di palazzo e del viso severo di zia Agnese? Se mi sembra di risentire il profumo del corpo di Samuel steso accanto al mio?
Si morse il labbro con violenza per scacciare quell’ultimo pensiero.
La verità, concluse mentre Todaro cominciava a dare qualche colpo di remo, è che avrei fatto meglio a uccidermi quando quel maledetto frate mi ha tolto i miei figli. Non ho potuto vezzeggiarli, calmare il loro pianto, giocare con loro: è come se quei nove mesi di gravidanza fossero appartenuti a un’altra donna, come se li avessi vissuti in sogno. Cosa mi resta adesso? Una vecchia domestica e un gondoliere, nient’altro.
All’improvviso le parve di soffocare. E se lo facessi oggi quello che avrei dovuto fare vent’anni fa? Basterebbe una fiala di veleno: la badessa di Santa Caterina ha subìto un deplorevole accidente, direbbero, la rimpiangeremo. E dall’indomani, un’altra monaca, magari più devota, sarebbe pronta a sostituirmi nella guida del monastero.
Si infilò un dito sotto il soggolo, lo scostò dal collo e trasse un respiro profondo.
No, devo vivere, si disse. Anche se non sanno di essere miei figli, Francesco e Cristina potrebbero ancora aver bisogno di me.
La gondola scivolava veloce adesso. Dietro l’ansa del canale, comparve la facciata di Ca’ Bondimier, sfiorata dalla luce rosata del crepuscolo.
Giulia si prese il viso fra le mani e si piegò su se stessa. Todaro se ne accorse e impresse maggior vigore al remo.

41

Thabita finì di spazzolare la tonaca della badessa, la ripiegò con cura e la appese alla stanga. Poi, muovendosi con cautela nella penombra della stanza, andò a prepararle il giaciglio.
Vestita solo della camiciola da notte, Giulia era china sul tavolo e scriveva una lettera. La luce del doppiere guizzava fra i suoi capelli: erano lunghi e ricadevano sc...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. Prima parte
  6. Seconda parte
  7. Nota dell’autrice
  8. Ringraziamenti