Dieci piccoli infami
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Dieci piccoli infami

Gli sciagurati incontri che ci rendono persone peggiori

  1. 224 pagine
  2. Italian
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Dieci piccoli infami

Gli sciagurati incontri che ci rendono persone peggiori

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La migliore amica che tradì la sua fiducia dopo cinque anni, quelli delle elementari, di complicità ininterrotta e simbiosi pressoché totale. Un parrucchiere anarchico, poco incline all'ascolto delle clienti e molto a gestire taglio e colore in assoluta libertà. Il primo ragazzo a essersi rivolto a lei chiamandola gentilmente "signora". Un ex fidanzato soprannominato Mister Amuchina per la sua ossessione paranoide verso l'igiene e l'ordine, prima che un incidente ponesse provvidenzialmente fine all'asettica relazione. La suora che avrebbe voluto fare di lei la prima "Santa Selvaggia" della storia. Sono solo alcuni dei personaggi inseriti da Selvaggia Lucarelli nella sua personalissima blacklist, un girotondo di piccoli infami che, più o meno inconsapevolmente, l'hanno trasformata anche solo per pochi minuti in una persona peggiore. Dopo il grande successo di Che ci importa del mondo, suo romanzo d'esordio, Selvaggia Lucarelli ci consegna un libro scritto con sincerità, autoironia e con il suo inconfondibile stile corrosivo. Perché Dieci piccoli infami non è solo una rassegna di incontri sciagurati ma un'autentica resa dei conti: con i mostri più o meno terribili in cui inciampiamo nella vita e anche un po' con la nostra capacità di riderne e di (non riuscire proprio a) perdonare.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2017
ISBN
9788858690352

La mamma di Nicoletta

L’ultimo anno del liceo fui una delle prime della mia classe a prendere la patente. Avevo superato l’esame teorico con successo nonostante una raffica di domande sui componenti del motore e nonostante alla domanda «La spia più insidiosa?» avessi risposto «Mata Hari».
Anche la pratica era andata piuttosto bene: l’esaminatore, un uomo piuttosto anziano dalla somiglianza inquietante col tenente Colombo, che aveva più voglia di aprirmi lo sportello e portarmi a cena fuori che di chiudermelo e portarmi alla rotonda per vedere se azzeccavo le precedenze, aveva chiuso l’esame con una manovra che più che una prova pareva un subdolo tentativo di rivedermi un mese dopo: un parcheggio in salita con retromarcia tra due macchine che anche Lewis Hamilton avrebbe trovato complesso. Quello che il tenente Colombo non sapeva è che io ero l’esaminanda più motivata che si fosse mai messa alla guida della sua Panda verde bottiglia. Da quell’esame dipendevano la mia autostima, la mia vita sociale, la scalata nella gerarchia di classe. E poi, era il mio primo vero moto di indipendenza, ergo avrei fatto con disinvoltura quel cazzo di parcheggio in salita e in retromarcia anche se avessi dovuto infilare la macchina tra due mine antiuomo con detonatore magnetico. E infatti, parcheggiai la Panda con una sicurezza tale che il tenente Colombo mi strinse la mano e osservò: «Lei la patente se la merita tutta!». Il sottotesto era chiaramente: «E, volendo, anche una pacca sul culo», ma feci finta di non intuirlo. Comunque no, fu infame, ma non così infame da meritare un capitolo di questo libro. E poi, tutto sommato, mi promosse pure.
Il punto fondamentale è che, come accadeva e accade in ogni classe, quelli che tra noi avevano la patente erano destinati a essere gli autisti ufficiali di tutta la compagnia. Questo mi consentiva di aspirare a una leadership altrimenti inaccessibile e io desideravo fortemente conquistarmi un ruolo in classe che fosse ben oltre “È quella che fa bene i temi”. Purtroppo, però, rappresentavo un pietoso caso di autista ibrido: possedevo la patente ma non la macchina, per cui diventavo utile alla comunità solo se riuscivo a procurarmi un mezzo. Il mezzo che ogni tanto potevo procurarmi era la Y10 di mio fratello Fabio. Naturalmente, non era così facile: Fabio usciva tutti i giorni, aveva la vita sociale di Kim Kardashian, una fidanzata che abitava nel viterbese e una tendenza a rimanere col serbatoio vuoto, quindi spesso la macchina era sì disponibile, ma al chilometro 356 dell’Aurelia, a bordo strada. E poi non me la lasciava volentieri perché sapeva che se si raccomandava «Riportamela entro le sette!», io alle dieci di sera ero ancora a girare in tondo in piazza Duomo solo per la felicità di possedere un mezzo di locomozione.
In quel periodo mi piaceva parecchio un ragazzo della mia classe, Gianluca, che non mi si filava di pezza. O meglio, non mi si era mai filato di pezza, ma da quando avevo la patente, ogni tanto mi chiedeva: «Che ore sono?». Mi pareva cominciassero a esserci i presupposti per un matrimonio lungo e felice, insomma. Gianluca possedeva una casa di famiglia ad Allumiere, un paesino sui Monti della Tolfa, a una ventina di chilometri da Civitavecchia. Il paesino era famoso per due motivi: il primo era una chiesetta sconsacrata che in realtà si diceva non fosse mai stata consacrata perché anni prima, sul pavimento, durante i lavori di costruzione, era apparsa l’impronta di una capra. In effetti non era poi così strano, visto che Allumiere contava più capre che abitanti. Solo che si sa, capra uguale diavolo e quindi il primo prete disponibile ad accollarsi la parrocchia, a quel punto, fu un noto vescovo esorcista di Città del Messico che però era noto anche per casi di possessione in cui era lui a possedere giovani catecumeni, quindi la sua proposta fu gentilmente declinata. Il secondo motivo per cui Allumiere godeva di una discreta fama era che la circondava un bosco piuttosto vasto in cui parevano sopravvivere felicemente alcuni rari esemplari di lupi. Insomma, Allumiere, per noi civitavecchiesi, era una specie di Twin Peaks di cui io, senza poterlo minimamente sospettare, sarei diventata a breve Laura Palmer.
Gianluca, un sabato di maggio, organizzò una cena con pochi compagni di classe nella sua casa tra i boschi, ad Allumiere. Io fui una delle due sole ragazze invitate. Mancava poco all’esame di maturità e quella cena era una delle ultime opportunità che mi rimanevano per conquistarlo. Avevo un solo problema: la macchina. I ragazzi sarebbero stati lì dal giorno prima e io e Nicoletta, l’altra invitata, per andare dovevamo organizzarci da sole. I collegamenti Civitavecchia-Allumiere, dopo le otto di sera, erano al massimo a dorso di mulo e comunque erano venti chilometri di cui almeno cinque di tornanti e una strada più buia di uno sgabuzzino delle scope. Non era il genere di passaggio che chiunque avrebbe avuto voglia di offrirci. E infatti, nessuno ce lo offrì. Io però avevo la carta Y10 da giocarmi e, sebbene sapessi che il sabato sera mio fratello avrebbe rinunciato più volentieri al polmone destro che alla sua macchina, intavolai una serie di trattative che quelle per la risoluzione della guerra nella ex Jugoslavia, al confronto, furono una formalità. Alla fine, estenuato, Fabio concesse di lasciarmela solo e unicamente per quel sabato sera, senza orario di rientro prefissato. Non vorrei sbagliare, ma credo che dopo ventiquattro anni circa, mio fratello, in virtù di quell’accordo, mi pignori ancora un quinto dello stipendio. Comunque. Avevo la macchina, avevo l’invito, avevo un nuovo paio di shorts ma avevo pure imperdonabilmente sottovalutato una questione fondamentale: la madre di Nicoletta.
La madre di Nicoletta era una di quelle mamme con un tale stato di allerta che avrebbe potuto degnamente sostituire il sistema di allarme della centrale nucleare di Krško. Nicoletta ne era sopraffatta. A diciott’anni suonati, le doveva chiedere il permesso per qualsiasi cosa e spesso il permesso le veniva negato in virtù di elaborati sillogismi tipo: «Un pullman di studenti olandesi quindici anni fa è finito in un fosso, quindi le gite sono pericolose, quindi è inutile che rompi i coglioni, in gita non ci vai!». Inutile dire che l’entusiasmo per aver strappato la Y10 a mio fratello fu prontamente smorzato dalla notizia di Nicoletta: «Mia madre dice che possiamo andare, ma io alle 21,30 devo essere a casa».
Considerato che la cena cominciava alle 20,30 e che da Allumiere a Civitavecchia c’era mezz’ora di strada, avevamo trenta minuti in tutto da trascorrere in compagnia di Gianluca e degli altri. Insomma, una tragedia. Provai a parlare con la madre di Nicoletta al telefono, ma mi liquidò in fretta e furia con un altro dei suoi sillogismi («Non sei madre, un giorno sarai madre, quando sarai madre capirai!») e non mi restò che prendere l’unica decisione di buonsenso possibile, quella che qualunque diciottenne saggio e avveduto avrebbe preso: andare anche solo per mezz’ora a quella cazzo di cena. Partimmo in netto anticipo perché non conoscevamo il paese e perché avevamo solo un indirizzo, ma grazie alle indicazioni di qualche contadino che rientrava per la cena trovammo subito la casa di Gianluca. Alle 20,30 spaccate eravamo già sul divano del salotto sfoggiando i nostri migliori sorrisi e due shorts Onyx che oggi, al massimo, potrei usare come polsino da tennis. I ragazzi, a dire il vero, sembravano più colpiti dalle due birre che avevamo portato che dal nostro stacco di coscia, ma Gianluca mi aveva già domandato se preferivo patatine o salatini, per cui mi sembrava che la strada verso il nostro fidanzamento fosse tutta in discesa. Tra saluti e quella ricerca tipicamente maschile di un contenitore pulito in cui mettere le patatine erano già volati dieci minuti. Me ne restavano solo venti. Mi alzai dal divano decisa ad aiutare Gianluca a travasare le patatine. Seppi che era amore puro quando notai che le stava mettendo in una specie di insalatiera rossastra con su scritto “Ehi amico peloso, stanco della solita pappa? Ciappi!” e non protestai.
«Ma davvero alle nove te ne vai già?» mi disse con un’inattesa aria malinconica. Ora, dovete sapere che io e Nicoletta ci eravamo guardate bene dal raccontare la verità sulle ragioni per cui saremmo andate via di lì a poco. “Mamma dice che dobbiamo rincasare presto” ci pareva un argomento da sfigate e in effetti lo era, per cui avevamo concordato una versione più ammaliante: «Sapete, alle nove e mezzo dobbiamo andare alla festa di un amico più grande che ha un sacco di amici più grandi tutti di Roma che si laureano tutti insieme!». I ragazzi ci avevano guardato un po’ perplessi, Gianluca aveva replicato: «Peccato, potevate fermarvi a dormire qui sul divano» e io, col piglio della donna di mondo, avevo prontamente risposto: «Alla prossima sicuramente, eh Nicoletta?». Lei, che probabilmente sarebbe dovuta rincasare alle 21,30 presso il domicilio materno anche la prima notte di nozze, pronunciò un sììììììì troppo squillante per risultare realistico e la discussione si chiuse lì, nella perplessità generale.
Era passato un quarto d’ora e non era successo niente. Poi il disastro. Francesco, uno di quei compagni di classe che arrivano dritti alla maturità copiando i compiti in classe a tutti, ma con un meccanismo di rotazione così abile e impercettibile da non risultare neppure fastidioso, aprì il frigorifero e sentenziò che non c’erano abbastanza birre per la loro lunga nottata di tv e cazzeggio, per cui occorreva fare un salto al bar del paese. Il bar del paese però chiudeva alle otto, quindi bisognava citofonare al proprietario che abitava al piano di sopra del locale per farselo aprire. Chiese quindi a Gianluca, che era l’unico che lo conosceva fin da bambino, di accompagnarlo. La mia serata era ufficialmente finita. Gianluca non sarebbe tornato neppure in tempo per salutarmi. «Sì, dai, tanto le ragazze stanno per andare all’altra festa, le accompagniamo giù alla macchina!» disse infastidito. In pratica, stavamo andando via anche dieci minuti prima del previsto. La buona notizia, però, è che a me quel fastidio percepito nella voce di Gianluca inorgoglì parecchio. Arrivati alla macchina, Francesco si mise a flirtare con Nicoletta e Gianluca mi afferrò delicatamente un braccio, spostandomi a poca distanza da loro.
«Non fare la cretina con i laureati stasera, eh.»
«Ahahahah.» (All’epoca ridevo come tutte le diciottenni idiote finte sdegnate.)
«Dai, magari la prossima settimana, se stasera non ti fidanzi con uno di loro, ti porto a mangiare una pizza, che dici?» aggiunse.
Era fatta. Alla fine, questa fuga prematura aveva sortito un effetto insperato: quello di regalarci il fascino dell’inafferrabilità. E questo fu l’argomento di discussione con Nicoletta mentre giravo la chiave della macchina. «Hai visto come mi guardava???» mentre svoltavo a destra. «Ora passeranno tutta la serata a rosicare, ahahah!» mentre svoltavo a sinistra. «A Francesco comunque tu sei sempre piaciuta!» mentre proseguivo dritta. «Sì, anche tu a Gianluca, ma ci voleva questa cosa di ingelosirlo per dargli una spinta…», «Sì, alla fine tua madre la devo pure ringraziare…» mentre mi si parava davanti una ripida discesa che non ricordavo nell’itinerario dell’andata. “Era giorno, ora è quasi buio, magari mi sembra tutto diverso” pensai. Dopo un attimo di esitazione, decisi di scendere giù per quella discesa ripida, ma sentii che il terreno faceva uno strano rumore. Soprattutto, mentre Nicoletta continuava a ripetere che ora per Gianluca e Francesco avevamo il fascino delle donne di mondo, mi resi conto che non eravamo uscite da Allumiere e che quello che avevamo di fronte non era il primo tornante per scendere a valle, ma il bosco. «Abbiamo sbagliato strada!» dissi spegnendo all’istante il suo entusiasmo.
«Ok, torniamo indietro, no?» mi rispose Nicoletta. Feci inversione con uno strano presentimento. La salita era molto ripida e la superficie non era asfalto, ma brecciolino finissimo. Il motivo per cui una strada asfaltata fosse divenuta improvvisamente lettiera di gatto è l’ennesimo mistero di quelli che Allumiere porterà sempre con sé. Le ruote della Y10 persero aderenza quasi subito e la macchina tornò indietro, al punto di partenza. Riprovai accelerando al massimo, ma a metà salita sollevammo tanto di quel brecciolino e polvere che probabilmente la nube fu avvistata anche a Roma Nord e la macchina tornò nuovamente indietro. Avevo la patente da un mese e mi sforzavo di ricordarmi se sul libro di scuola guida ci fosse il capitolo “Come trasformare una Y10 canna da zucchero in una macchina agricola a trazione anteriore con un rossetto rosa pallido e una cipria compatta”, ma non mi sovveniva. Nicoletta, che aveva in dote il codice genetico che sappiamo, andò in panico dopo tre minuti netti. Io tentai di essere razionale. «Allora. Non sappiamo dove siamo, tra poco è notte, su non possiamo tornare, davanti a noi c’è una stradina che entra nel bosco, se c’è una stradina vuol dire che va da qualche parte e sbuca da qualche parte, quindi noi ora ci calmiamo e attraversiamo il bosco.»
«Ma nel bosco di Allumiere ci sono i lupi!»
«Ho capito, ma non penso che prenderanno a capocciate il tergicristalli. Nel caso si palesassero fingi di essere al Safari Park, guarda!»
«A me il bosco di notte fa paura!»
«Nicole’, c’è qualche animale, nessuno ha mai visto il Bigfoot da queste parti, io vado.»
«Faremo tardi!»
«Dai, magari tagliamo il bosco in cinque minuti e tua madre si lamenterà al massimo per un po’ di ritardo!»
Fu così che alle 21,13 circa di un sabato sera di maggio del 1993, ormai all’imbrunire, una Y10 con due diciottenni di belle speranze si infilò spavalda nel mitologico bosco di Allumiere. Il bosco dei faggi, delle leggende, dei lupi, dei funghi giganteschi e del muschio per il presepe a Natale. Peccato non esistessero droni a riprenderci dall’alto perché, visto quello che stavamo per fare, saremmo finite dritte dritte sul canale del National Geographic. La stradina di terra battuta, come da me brillantemente previsto, in effetti portava da qualche parte, e con l’ausilio di coordinate geografiche, dati satellitari, navigatori e mappe 2.0, oggi sono anche in grado di indicarvi esattamente dove: nel buco del culo del mondo. Era indubbiamente lì che capimmo a breve di essere dirette. La stradina si faceva sempre più stretta, la vegetazione sempre più fitta e scura. I rami degli alberi erano sempre più bassi, ormai sbattevano contro il tergicristalli. Il terreno era sconnesso e talmente incerto che andavo a due chilometri orari, finendo comunque in buche che parevano voragini. Nicoletta continuava a ripetermi «Torna indietro!», io provavo a spiegarle che non si poteva più tornare indietro perché non avevo spazio per alcuna manovra, ma lei andava avanti col suo mantra «Torna indietro torna indietro torna indietro» e forse intendeva dirmi di tornare indietro a due giorni prima, quando avevo deciso che per mezz’ora valeva la pena venire qui, in una colonia di lupi e a due passi dalla casa di Satana. Il suo settantaquattresimo «Torna indietr…» fu interrotto da un rumore fortissimo e da un’inclinazione improvvisa della macchina sul lato destro. Fino a quel momento, lo spavento più grosso che io e Nicoletta avevamo mai provato era stato il sangue del primo mestruo, per cui le sue grida si mescolarono ai miei improperi, in uno strano mix che ancora oggi ricordo come il suono più molesto mai udito, a parte un qualsiasi ritornello di Gigi D’Alessio. Restammo immobili, sorprese di essere ancora vive. Gli abbaglianti illuminavano solo boscaglia impenetrabile e grovigli di rami ostili. La strada era finita così, improvvisamente, come certi viadotti del Sud mai terminati, che si interrompono a mezz’aria, perché negli appalti c’era di mezzo la mafia e tanti saluti. Forse anche la strada nel bosco di Allumiere era stata appaltata alla mafia del mirtillo selvatico, non lo so, fatto sta che la nostra corsa era bella che finita e la situazione era la seguente: avevamo percorso circa due chilometri nel bosco, non potevamo più proseguire né andare indietro, non sapevamo perché la macchina si fosse inclinata in quel modo, non eravamo tra le poche fortunate dell’epoca a possedere telefoni cellulari e all’improvviso era buio pesto. In tutto ciò, eravamo terrorizzate dalla creatura più spaventosa che abitava nell’alto Lazio e che era sicuramente da qualche parte ad attenderci, girando in tondo nervosamente: la madre di Nicoletta.
«Restiamo in macchina» dissi io.
«No, torniamo indietro a piedi!» disse lei.
«Hai provato a guardare dietro di te? A due metri dall’auto la strada è così buia che non ti vedi neppure le dita dei piedi!» dissi io.
«Devo avvisare mia madre!» disse lei.
«Non puoi avvisare tua madre! Dobbiamo restare qui finché non albeggia e quando albeggia rifacciamo la strada all’indietro, a piedi, e torniamo in paese!»
Nicoletta cominciò a piagnucolare dicendo che sua madre l’avrebbe uccisa e io, che sentivo di doverla confortare ma di non poterle dare torto, annuivo sobriamente, accarezzandole il braccio. Non so quanto tempo trascorse così, tra la paura e lo sconforto, ma so esattamente cosa accadde a un tratto: le luci della macchina cominciarono ad affievolirsi. La batteria si stava scaricando e noi saremmo rimaste al buio, nel bosco, come la terza classe del Titanic prima di affondare. È un’altra cosa che non avevo studiato all’esame della patente: le luci accese, a macchina spenta, scaricano la batteria. Fu così che arrivò il momento tanto temuto: il buio totale. Ora, io non lo so se l’avete mai visto un bosco di notte sotto un tetto di rami e boscaglia, senza neanche un puntino luminoso in lontananza, senza mezza stella in cielo a indicare almeno la direzion...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Dieci piccoli infami
  4. Introduzione
  5. Susanna Di Lello
  6. La mamma di Nicoletta
  7. Il ragazzo della funivia
  8. L’uomo con la Mini grigia
  9. Il parrucchiere anarchico
  10. Miss San Giacomo di Roburent
  11. Il ragazzo gentile
  12. Mister Amuchina
  13. Mito di gioventù
  14. Suor Clelia
  15. Ringraziamenti
  16. Copyright