Tritacarne
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  1. 266 pagine
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Informazioni sul libro

Quanto costa quello che mangiamo? Se nel nostro piatto c'è un hamburger o una bistecca, conosciamo bene il suo prezzo in denaro: quello che invece non sappiamo è quanto costa la carne in termini di risorse, di vite animali e umane - le nostre. È veramente sicuro ciò che mangiamo? Cosa accade negli allevamenti e nei macelli del nostro Paese? In un'inchiesta senza precedenti sull'industria italiana della carne e dei formaggi dell'eccellenza "Made in Italy", Giulia Innocenzi affianca animalisti, veterinari e allevatori per svelare un mondo oscuro in cui gli animali sopravvivono a malapena in spazi microscopici, sporchi, senz'aria; costretti a vere e proprie torture, malati, finiscono sulle nostre tavole imbottiti di antibiotici. Dalla prima edizione di questo libro, la ricerca della Innocenzi non si è fermata e, tra querele e inchieste scandalo, qualcosa sta cambiando. Ma non basta e non può bastare: una scelta alimentare consapevole da parte di ognuno può fare la differenza. L'importante è essere consci che il cibo ha un costo. E ognuno di noi deve valutare se ritiene quel costo accettabile.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2017
ISBN
9788858691342
Categoria
Ecology

1

Dentro gli allevamenti

IL «BENESSERE ANIMALE»

Centosessanta chili

Se sei un maiale e vivi in Italia, hai molte probabilità di essere un maiale DOP: degli otto milioni di suini presenti nel nostro Paese,1 gran parte rientra nella denominazione di origine protetta.2 Sei cioè destinato a diventare salume pregiato, principalmente prosciutto di Parma e San Daniele, ma anche prosciutto di Modena, culatello di Zibello o salame di Varzi. Sei anche più fortunato degli altri: a voi sono concessi tre mesi di vita in più dei maiali normali, e questo perché dovete raggiungere un peso maggiore. Vi chiamate suini pesanti: 160 chili in nove mesi di vita. E che vita.

Quella notte in mezzo al campo

Avevo guardato qualche video su YouTube, ma non potevo credere che quella fosse la condizione in cui vivono i maiali. Non da noi. Non la maggioranza. Di certo non quelli destinati a diventare un prodotto di eccellenza. Decisi di entrare in un allevamento. Non con una visita guidata organizzata dall’allevatore, ma come avevo visto fare: di notte, di nascosto, per verificare il vero stato delle cose. Contattai una delle associazioni che avevano girato quei video. «Sono una giornalista, vorrei entrare in un allevamento intensivo.» Dall’altra parte della cornetta c’era un ragazzo: «Certo, parliamone a voce». Un mese dopo mi ritrovai in mezzo a un campo della Pianura padana, a mezzanotte, pronta a compiere il reato di violazione della proprietà privata per vedere dei maiali. O peggio, pronta a farmi sparare. Un magistrato, che quelle zone le conosceva bene, prima della mia missione si raccomandò di fare attenzione: «La maggior parte degli allevatori ha un fucile in casa, e molti di loro hanno il grilletto facile». Scoprii infatti che erano frequenti i furti di bestiame. Pochi giorni prima, e poco distante da dove stavamo andando, dei ladri avevano rubato duecento maiali, per un valore di 50.000 euro. Da lì il «grilletto facile» degli allevatori, pronti a tutto per difendere il loro patrimonio.
Nel viaggio in macchina per arrivare in quel posto, individuabile solo attraverso le coordinate satellitari annotate dagli animalisti in un precedente sopralluogo, pensavo a cosa avrei preferito: meglio fuggire da un allevatore col colpo in canna o dalla polizia? Sicuramente dalla polizia. Sarebbe stato difficile spiegare chi ero a un allevatore che pensava di avere di fronte un ladro. Per tranquillizzarmi mi aggrappai alle statistiche: non mi risultava fosse mai morto nessun animalista per essersi intrufolato in un allevamento. Non osai però chiedere ai miei accompagnatori se fosse vero.
Era anche la prima volta che camminavo di notte in un campo. Senza poter usare una torcia, ogni passo era potenzialmente pericoloso. E portava con sé un rumore maledetto. Sterpaglie, fusti di coltivazioni, pozzanghere: mi sembrava che con i nostri passi avessimo già svegliato tutti gli abitanti nei dintorni. Le luci alle finestre rimanevano spente, e capii che dovevo liberarmi dalle mie paranoie.
Decisi di affidarmi completamente agli animalisti. D’altronde, erano loro a farmi entrare ed erano loro a guardarmi le spalle. Un ragazzo mi avrebbe fatto da guida dentro l’allevamento, mentre altri due sarebbero rimasti fuori a fare i «pali» per controllare che nessuno, a piedi o in macchina, si avvicinasse. In quel caso, ci avrebbero avvertito con la radiolina.
A cinquanta metri dall’allevamento, iniziammo a sentire delle grida. Erano i versi degli animali. Di notte, e nelle condizioni in cui ci trovavamo, ammetto che la mia percezione potesse essere alterata, ma quelle grida sono fra le cose più inquietanti che abbia mai sentito. Sembrano la reazione a qualcosa di straziante, come quando urliamo d’istinto per un dolore lancinante. Un coro che squarcia le notti immobili e con cui i vicini avranno fatto i conti già da un pezzo, ma che a te, novellino che ti senti Indiana Jones solo perché stai attraversando un campo, gela il sangue. Superammo nauseati i vasconi dei liquami, e raggiungemmo la porta dell’allevamento. I pali erano lì: uno sull’unico ingresso possibile venendo dalla strada, e l’altro sul sentiero che collegava l’allevamento alla casa dell’allevatore. Indossate le tute, i calzari e le mascherine, necessari per questioni di biosicurezza, eravamo pronti a entrare.

Abbassai la maniglia

Entrare fu più facile del previsto: bastò aprire la porta. Nessuna catena, neanche un giro di serratura. Davanti a noi un corridoio, lunghissimo, con una distesa di porte sui due lati. Ne aprimmo una. Solo in quella stanza ci saranno stati duecento maiali. Alla vista della lucina della nostra torcia, si alzarono piano piano dal loro stato di torpore, distesi uno sopra l’altro. Erano enormi, a fatica si riusciva a vedere il pavimento sotto di loro. Il ragazzo che era con me mi spiegò che quelli erano al settimo o ottavo mese, mancava poco perché andassero al macello. Il loro grugnito si accese come una sola orchestra, facevano un rumore assordante. La puzza mi prese subito alla gola, era come stare davanti a una piscina di pipì. Colpa dell’ammoniaca presente nelle deiezioni degli animali che cadono sotto il pavimento fessurato, oppure rimangono nel recinto. E colpa anche del sistema di aerazione. O meglio, del mancato sistema di aerazione. Non c’erano finestre, solo una ventola sul muro. Spenta, e lo sembrava da chissà quanto, visto che era ricoperta di ragnatele. Mi accorsi che stavamo camminando letteralmente sulla cacca. Nonostante fossimo sul corridoio centrale che divideva le recinzioni in due, le feci erano così tante che fuoriuscivano dal recinto. Finivano pure nelle canaline che contenevano il mangime. Assistetti in diretta a un maiale che defecava sulla schiena di un altro maiale.
Potevano starci, lì dentro, tutti quei maiali? Era accettabile che mangiassero le loro feci, e che ci dormissero sopra? E quella puzza, era normale odore di campagna?

La legge

«Benessere animale» è una delle espressioni che ho sentito più spesso da quando ho cominciato il mio viaggio nel mondo degli allevamenti. Rischia però di essere una di quelle formule vuote utilizzate proprio dove più se ne sente la mancanza, come «legalità» in alcuni angoli dimenticati d’Italia o «lotta alla corruzione» in politica.
Gli allevatori, attraverso i loro rappresentanti e le direttive che guidano il settore, parlano costantemente di «benessere animale», come un mantra. È vero che il benessere dei loro animali è fondamentale, e per una ragione molto semplice: meglio sta l’animale, e più dura. Più dura, e più rende. E se sta davvero bene rende ancora di più, perché il suo benessere si traduce in qualità del prodotto. C’è un però. Realizzare concretamente il «benessere animale» costa. Laddove si possono fare dei tagli, mantenendo una produzione soddisfacente, si fanno, come in una qualsiasi industria. E quella che ha a che fare con esseri viventi non fa eccezione.
Anche la legge parla di benessere animale, e le disposizioni sono talmente lapalissiane che c’è da chiedersi perché si siano presi la briga di scriverle. Se fossero normative per gli esseri umani, sarebbe un po’ come dire che nel corso della propria vita tutti devono avere la possibilità di respirare. Se il legislatore le scrive, però, è perché nella realtà non è scontato che vengano rispettate. Gli animali devono potersi distendere tutti contemporaneamente, in una zona che sia prosciugata e pulita in modo adeguato. Devono potersi alzare e sedere con movimenti normali. Nell’allevamento in cui ero entrata tutto questo non accadeva. Gli animali erano letteralmente gli uni sopra gli altri, senza spazio sufficiente a toccare il pavimento.
Scoprii solo dopo, nelle tante notti di blitz, che purtroppo non era un’eccezione. Gli allevamenti sovraffollati, con i maiali che non riescono a distendersi completamente e costretti a vivere nei loro escrementi e pure a mangiarli, sono comuni. E queste condizioni inducono i suini all’aberrazione più grande: il cannibalismo. I suini sono animali onnivori che in natura vivono spostandosi in uno spazio ampio: dai cento agli ottocento ettari. Trascorrono più della metà del tempo in esplorazione alla ricerca di cibo, di un luogo dove riposare, o anche solo per conoscere l’ambiente. Le porcilaie sono però un ambiente monotono e privo di stimoli, «l’impossibilità di esprimere il comportamento esplorativo è indicata come la principale causa della comparsa di comportamenti anomali e potenzialmente pericolosi».3 Per passare il tempo, insomma, i maiali si mangiano fra di loro, a partire dalle estremità: orecchie, genitali, e soprattutto code.
Cosa fanno allora gli allevatori?

Mutilati

Partiamo da una pratica di cui l’Italia è grande estimatrice: la castrazione. È fatta principalmente per una questione di gusto della carne, e cioè per evitare «l’odore di verro», dovuto a un ormone che i maiali sviluppano in pubertà. I maialini sono afferrati per le zampe a testa in giù e immobilizzati. Un operatore taglia lo scroto del maiale con uno strumento che assomiglia al bisturi che recide i testicoli. È una pratica molto dolorosa, ma se il maialino non ha superato i sette giorni di vita, può essere fatta senza anestesia. Esistono alternative alla castrazione, come per esempio il vaccino che inibisce la formazione dell’ormone che causa l’odore di verro, utilizzato già in 63 Paesi. Solo Italia, Ungheria, Repubblica Ceca e Polonia non si sono ufficialmente impegnati a mettere fine a questa pratica.4
Un’indagine compiuta in diversi allevamenti ha mostrato inoltre come gli operatori buttino i materiali organici direttamente nel recinto dei maiali, che poi se li mangiano.5 Spesso proprio nel recinto della mamma scrofa, che assiste e non può fare niente.
Per evitare che i suinetti creino ferite ai capezzoli delle scrofe durante l’allattamento, ai cuccioli vengono troncati i denti. La punta dei denti viene rotta con una pinza. Anche questa pratica è permessa senza anestesia, se effettuata entro i primi sette giorni di vita dell’animale.
Le pratiche citate fanno rabbrividire. A loro modo, però, una spiegazione ce l’hanno. C’è una pratica, invece, che mi colpisce più delle altre, perché causata solo dalle condizioni contro natura in cui vivono gli animali: il taglio della coda. Ho assistito a una scena raccapricciante. Davanti a me una, poi due, poi tre, infine quattro code sanguinanti di maiali che stavano chiusi nello stesso recinto. Sento il grido di un maiale: un altro gli aveva morsicato la coda. Un maiale mi si avvicina: sul suo viso una macchia di sangue, probabilmente della ferita aperta di un altro maiale. E tutti questi maiali avevano già le code tagliate, proprio per evitare che se le mordessero fra loro. Eppure succedeva lo stesso.
La legge vieta il taglio della coda. Meglio, dice che «non deve costituire operazione di routine», perché prima «si devono adottare misure intese a evitare le morsicature delle code», modificando le «condizioni ambientali o sistemi di gestione inadeguati». Sul tema è intervenuta anche la Commissione europea.6 Quali sono le misure che possono evitare le morsicature delle code, richiamate dalla legge? «I suini devono avere accesso permanente a una quantità sufficiente di materiali che consenta loro adeguate attività di esplorazione e manipolazione, quali ad esempio paglia, fieno, legno, segatura, composti di funghi, torba o un miscuglio di questi.»7 Fattibile, no? L’approvvigionamento di questi materiali costa qualche euro in più, è vero, ma ci sarebbe un sicuro risparmio in termini di cura di infezioni e lesioni. E allora perché negli allevamenti dove sono entrata non ho mai, ma dico mai, visto un filo di paglia?
Per capirlo basta andare sul sito dell’Associazione nazionale degli allevatori di suini, che ha pubblicato un rapporto dell’Università degli studi di Milano sull’uso dell’arricchimento ambientale.8 Lo studio dice che il suino è un animale «estremamente intelligente», per questo ha bisogno di un materiale che lo stimoli e mantenga alto il suo interesse. Deve inoltre essere pulito, perché «il suino perde rapidamente interesse in ciò che è imbrattato in feci e urine». La paglia è il materiale manipolabile «che meglio stimola il comportamento esplorativo» dell’animale, tanto che a oggi non esiste «un altro arricchimento ambientale in grado di garantire un livello di occupazione superiore a quello della lettiera di paglia». La paglia può essere «masticata, grufolata, ingerita, e migliora il comfort termico e fisico della zona di riposo». Il problema allora qual è? Il pavimento. Per raccogliere le deiezioni, il pavimento ha delle fessure, sotto le quali ci sono dei vasconi. La paglia bloccherebbe le fessure, mettendo ko il sistema di evacuazione delle feci. E se la paglia fosse messa nelle rastrelliere? Migliorerebbe comunque il benessere, grazie a un «aumento del livello di occupazione dei suini e il conseguente contenimento delle morsicature di orecchie e code». Soluzione trovata, quindi? No, perché «il principale svantaggio di questi sistemi è l’aumento dei costi, legato all’elevata richiesta di manodopera, all’eventuale acquisto di attrezzature come le rastrelliere, e all’elevata quantità di paglia».
Ricapitolando: la legge dice che prima di tagliare le code ai suini devono essere migliorate le condizioni in cui essi vivono. Per migliorare le condizioni in cui vivono basterebbe aggiungere della paglia, che però blocca il sistema di evacuazione delle feci, quindi non si può aggiungere. La conclusione è che l’allevamento intensivo è un luogo che per sua stessa conformazione spinge gli animali a commettere atti di cannibalismo e l’unica soluzione che rimane agli allevatori è il taglio della coda, nonostante questa sia vietata dalla legge. In parole povere, bisognerebbe chiedere agli allevatori di mettere mano al portafoglio, ma nessuno ha il coraggio di farlo. Si va avanti così in questa ipocrisia sistemica che non scontenta nessuno. È contento il legislatore, che ha la coscienza pulita perché formalmente vieta il taglio della coda; ed è contento l’allevatore, che può continuare a tagliare le code dei suoi maiali, senza agire sulle condizioni che portano gli animali a mangiarsi fra loro. Tutti contenti, quindi. Tutti, fatta eccezione per i maiali.

Ho raccolto maiali scoppiati

Ho lavorato per più di una decina d’anni in un allevamento della provincia di Reggio Emilia. Lo spazio era per cinquemila suini circa, ma ce n’erano stipati più del doppio. Erano in condizioni di sopravvivenza proprio al limite: sporchi, pieni di escrementi, urine e feci. Se li mangiavano anche. Quando gli portavamo il mangime, erano uno sopra l’altro e facevano a gara a chi arrivava per primo. Chi non ci riusciva saltava sopra gli altri capi, azzoppandosi o prendendo botte o cose simili; qualcuno poteva pure rimanerci secco. Un maiale quando muore, se non si toglie subito dal recinto e non si mette in cella frigo, crea del gas al suo interno, e in certi casi può anche esplodere. Mi è successo di dover raccogliere maiali aperti a metà, letteralmente scoppiati.9

Chiuse in gabbia

Ci sono gli allevamenti da ingrasso, che fanno crescere solo i maiali destinati alla macellazione; gli allevamenti da riproduzione, che fanno nascere i suini che venderanno ad altri allevatori da ingrasso; e quelli che svolgono entrambi i processi. Il primo allevamento in cui sono entrata era sia da riproduzione che da ingrasso. Scoprii poi che rispetto alla media era molto pulito e ben tenuto, e fu proprio questo lucido rispetto delle regole a rendermi lampante l’aberrazione delle condizioni dell’allevamento intensivo. Le scrofe erano chiuse in gabbie con zanne di ferro circolari, grandi più o meno quanto il corpo degli animali che dovevano contenere. La mangiatoia da una parte, le feci che si accumulavano dall’altra. Una di fianco all’altra, tutte posizionate nella stessa direzione. Al soffitto, dei tubi collegati alle mangiatoie, che portavano automaticamente il cibo. La luce era accesa, anche se era notte. Una luce al neon che le illuminava a giorno. Nessuna di loro poteva uscire dalla gabbia. Nessuna di loro poteva avere contatti con altri animali. Nessuna di loro poteva girarsi dall’altra parte. Perché? Che motivo c’è di chiuderle in gabbia?
In un convegno tenutosi a Cremon...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Tritacarne
  4. Introduzione
  5. 1. Dentro gli allevamenti
  6. 2. Gli scarti
  7. 3. «La natura l’abbiamo persa»
  8. 4. I macelli degli orrori
  9. 5. Il Paese più controllato del mondo
  10. 6. Cosa ci fa davvero male
  11. 7. Forse è già tardi
  12. Conclusioni
  13. Ringraziamenti
  14. Note
  15. Indice