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Io, il revisionista
È da sessant’anni che studio e racconto la Resistenza italiana e la guerra civile tra il fascismo e l’antifascismo. Ho cominciato nel 1957, preparando la mia tesi di laurea dedicata alla guerra partigiana fra Genova e il Po. Allora avevo appena ventun anni, ero uno studente pendolare tra Casale Monferrato e Torino. E la tesi che nel luglio del 1959 avrei presentato a una commissione presieduta dal rettore dell’università, Mario Allara, era sterminata rispetto a quelle dei laureandi di oggi: seicento pagine, più duecento di appendice documentaria.
Da quel giorno ho continuato a studiare la nostra guerra interna, un conflitto fra italiani, con tanti libri, saggi, articoli, interviste, dibattiti pubblici, alla radio e alla televisione, polemizzando con politici, giornalisti e accademici che la pensavano nel modo opposto al mio. Non mi sono mai considerato uno specialista di quell’epoca storica. Ma soltanto uno studioso dilettante, volitivo e appassionato. C’è chi studia l’Alto Medioevo o il Risorgimento. La sorte ha voluto che mi occupassi di una storia molto più vicina alla mia vita e ai miei ricordi.
Adesso, nell’introdurre questo nuovo lavoro, mi domando perché mi sia interessato così tanto di ciò che avveniva in Italia tra il 1943 e il 1945. Il primo motivo è che quella guerra l’ho vista, sia pure con lo sguardo del bambino che sta fra gli otto e i dieci anni. Quando nel gennaio del 1945 è passato a pochi metri da casa nostra un gruppo di partigiani catturati dai fascisti repubblicani e destinati alla fucilazione, nella mia piccola città piemontese faceva molto freddo. Durante la notte il gelo aveva ceduto il passo alla neve. I fascisti avevano legato i partigiani con le catene dei buoi. E per impedire che riuscissero a fuggire, o per infliggere una sofferenza in più, li avevano lasciati senza le scarpe e i calzettoni. Poi gli era stato imposto di sfilare per il centro cittadino, affinché tutti vedessero i ribelli sconfitti. Dalle finestre di casa nostra si scorgevano nella neve le orme insanguinate dei loro piedi nudi.
Tre mesi dopo ho visto sfilare lungo la stessa strada i fascisti sconfitti. Li avevano rinchiusi dentro grandi gabbie di legno, collocate su carri agricoli agganciati a dei trattori. Li stavano portando sulle rive del Po per ucciderli con raffiche di mitra o colpi di rivoltella alla nuca. Loro sapevano di dover morire. Ma proprio come i partigiani di gennaio stavano in silenzio. E si limitavano a osservare con occhi sbarrati la gente che li insultava.
Non ho più dimenticato quelle due scene contrapposte. Ancora oggi che ho superato gli ottanta, quando ci penso, ritorno il bambino del 1945. Le rivedo con la nitidezza dei ricordi dell’infanzia. E la memoria mi presenta dettagli finora rimasti nascosti. Subito dopo la cattura, i partigiani erano stati percossi con i calci dei fucili. A uno di loro era stato imposto di reggere un cartello che recitava: «Ecco i leoni della banda di Tom». I fascisti repubblicani in gabbia avevano i volti tumefatti dalle botte ricevute. Il più giovane di loro, un ragazzo sui sedici anni, piangeva come un bambino.
Tanti anni dopo il mio esordio di storico dilettante, constato ancora una volta che molti politici e molti storici professionali rifiutano di accettare alcune verità che riguardano la complessità della nostra guerra civile. Verità che i vertici politici e accademici delle tante sinistre italiane si ostinano a non vedere, con un accanimento che mi pare assurdo. La loro cecità culturale è sempre più minoritaria nell’opinione pubblica e si riflette nelle scelte elettorali. Eppure emerge di continuo.
Oggi, sul finire del 2017, assistiamo a un paradosso. Le sinistre si trovano sul ciglio di un baratro. Hanno subìto un’altra secessione. Gli elettori e gli iscritti sono in caduta libera. Il loro credito tra gli italiani sta scemando a vista d’occhio. Eppure le posizioni di molte eccellenze rosse a proposito della nostra guerra civile non mutano. Tanto da indurmi a dire quattro semplici «Non capisco».
Non capisco perché si insista a sostenere che sono stati i partigiani da soli a liberare l’Italia occupata dai nazisti affiancati dai fascisti. Non è così. Il nostro paese ha riconquistato la libertà e la democrazia soprattutto grazie agli americani e agli inglesi che, nella lunga campagna d’Italia, hanno visto morire in battaglia decine di migliaia dei loro giovani. Insieme a soldati francesi, canadesi, sudafricani, brasiliani, indiani, nepalesi, algerini, marocchini, senegalesi e ai volontari della Brigata ebraica. Sono stati questi ragazzi, venuti a combattere per noi, per un paese che nel settembre 1943 era ancora una nazione nemica, a decidere le sorti della guerra sul fronte italiano.
La festa del 25 aprile, che è anche la mia festa, non dovrebbe mai dimenticarlo. Celebrare quella data senza ricordare questa verità è un errore morale, prima ancora che politico e storiografico. Insistere è fare torto agli stessi partigiani. Nel descriverli come un esercito strapotente, in grado di sconfiggere le divisioni tedesche in Italia, si annullano i loro sacrifici. E si dimenticano la povertà dei mezzi militari di cui disponevano, l’esiguità delle loro forze in uno scenario bellico enormemente più grande e terribile, la generosità dei pochi che avevano scelto di resistere, il coraggio quasi solitario dei tanti caduti della Resistenza che è giusto onorare.
Tuttavia, si continua a ripetere questo errore. Lo considero il risultato di un comportamento carico di arroganza politica e di superbia storiografica. Al punto da rendere quasi obbligata una domanda molto scomoda: ha ancora senso festeggiare la Liberazione seguitando a ignorare quanto è accaduto nella realtà? Dire il falso, ostinarsi in quella che in un mio vecchio libro ho chiamato la Grande Bugia, non garantisce la durata di nessun mito positivo. E rischia di diventare la tomba della Resistenza e della sua memoria.
Non capisco perché si continui a sostenere che la guerra civile è stata un confronto fra angeli, i partigiani, e diavoli, i fascisti della Repubblica sociale italiana. È un’altra falsità. Le guerre sono sempre sporche. Quelle civili lo sono ancora di più. Partigiani e fascisti combattevano per obiettivi contrapposti. Ma hanno commesso le stesse atrocità. La ferocia ha travolto entrambi i fronti, dando vita a un disordine crudele che aveva un solo motto: «Pietà l’è morta». Riconoscerlo e rifiutare tutte le guerre, anche quelle per una causa che riteniamo giusta: ecco quale sarebbe la forma più alta di pacifismo.
La mia patria morale è da sempre la Resistenza. Ma non accetto la retorica falsa che sostiene: di qui c’erano tutti i buoni, di là tutti i cattivi. La sinistra che afferma ancora questa grande menzogna reca danno soltanto a se stessa. E andrà incontro a nuove sconfitte, perché un’opinione pubblica sempre più larga rifiuta questa lettura della guerra interna tra italiani.
Non capisco perché si insista a dire e scrivere che quanti hanno combattuto nella Resistenza perseguivano gli stessi scopi. Certo, tutti i partigiani lottavano per liberare l’Italia dall’occupazione tedesca e dalla dittatura fascista. Ma l’unità dell’esercito partigiano terminava lì. Subito dopo cominciavano differenze molto profonde e spesso inconciliabili. La favola dell’unità resistenziale le ha poi fatte sparire, nella melassa di un racconto monco e dunque falsato della guerra di liberazione.
La grande maggioranza delle formazioni partigiane combatteva sotto la guida politica e militare del Partito comunista italiano. Anche le pietre sanno che per il blocco politico guidato da Palmiro Togliatti, da Luigi Longo e da Pietro Secchia la sconfitta del fascismo e la liberazione del paese erano soltanto il primo passo di un cammino assai più lungo: la conquista del potere e l’affermazione di una dittatura rossa, sotto l’ombrello dell’Unione Sovietica.
L’obiettivo ultimo dei comunisti era di fare del nostro paese uno Stato satellite di Mosca, agli ordini di Stalin. Il loro traguardo finale era l’insurrezione armata contro la borghesia, il capitalismo, i padroni. Rappresentati soprattutto da un partito che pure aveva partecipato alla lotta antifascista: la Democrazia cristiana.
Durante la Resistenza, molti militanti del Pci sono caduti in battaglia nell’intento di realizzare questo disegno. È un sacrificio che merita rispetto. Ma se il loro proposito si fosse realizzato, l’Italia sarebbe diventata la provincia mediterranea dell’impero sovietico. E la libertà dal fascismo, appena conquistata, avrebbe ceduto il passo a un nuovo totalitarismo, in grado di soffocarla nel sangue. Come sarebbe poi avvenuto in Polonia, in Cecoslovacchia e in Ungheria.
Ecco un’altra verità che spiega quel che è accaduto dopo il 25 aprile: l’inizio di una seconda guerra civile. Nei miei libri revisionisti ho raccontato anche questa fase e l’ho descritta quasi giorno per giorno, sino alla fine del 1946. Le città e i paesi soprattutto nell’Italia del Nord conobbero un nuovo inferno. Si aspettavano la pace e invece videro esplodere una nuova tragedia. Si aspettavano la pace e si trovarono di fronte a una spietata strategia del delitto politico. Diretta non soltanto contro i vinti in camicia nera, ma contro tutti i possibili avversari della rivoluzione rossa.
Mentre gli altri gruppi partigiani deponevano le armi, l’apparato militare comunista rimase in campo e seguitò a sparare, a uccidere e a sequestrare gli avversari di classe, per farli sparire nel nulla. Al punto che lo stesso Togliatti, dopo molte ambiguità e tentennamenti, fece molta fatica a imporre l’alt ai compagni degli Squadroni della morte, protetti da una frazione importante del gruppo dirigente del partito. E a mettere fine a una catena di omicidi dannosa per l’immagine legalitaria del Pci.
Non capisco perché chi descrive questa verità debba essere tacciato di revisionismo, come se questo fosse un reato da perseguire con il carcere. È l’accusa più ridicola inventata dai gendarmi rossi della memoria resistenziale. Ma è un’accusa che a me non fa più effetto. Tutti gli storici veri sono revisionisti. La storiografia non è una costruzione immutabile, da non correggere mai. Essere revisionisti è un merito, non una colpa. Ma, a sentire gli anatemi delle tante sinistre, in Italia continua a essere quasi un reato politico, per un motivo che mi sembra chiaro.
Il motivo è che nel dopoguerra le sinistre hanno imposto un racconto della Resistenza che giovava all’immagine del Pci perché nascondeva i suoi propositi totalitari, quelli di fare dell’Italia un paese comunista e uno Stato satellite dell’Unione Sovietica. Per decenni, della Resistenza hanno scritto soprattutto autori legati al carro del Pci. Perfino usare l’espressione «guerra civile» era proibito, poiché veniva considerata una formula reazionaria, di destra, filofascista.
Dopo la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’Urss, la musica è cambiata, ma soltanto in parte. A iniziare dagli anni Novanta, è stata finalmente proposta una storia della Resistenza meno conformista, più attenta alla realtà di quanto accaduto in quel periodo terribile. Abbiamo parlato e scritto «delle zone d’ombra, degli eccessi e delle aberrazioni» che esistevano anche nel campo partigiano. Sono le parole pronunciate dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il 15 maggio 2006, nel suo primo messaggio al Parlamento. Parole che allora non erano per niente piaciute ai custodi della retorica resistenziale.
Ma prima di quella data qualcuno, compreso il sottoscritto, aveva già pubblicato libri che, senza faziosità rosse o nere, offrivano un racconto meno incompleto e bugiardo della guerra civile. Per quel che mi riguarda, dopo aver scritto tanto sulla Resistenza, ho iniziato a narrare dei vinti, dei fascisti sconfitti, ascoltando le loro voci, raccogliendo le loro testimonianze, descrivendo la tempesta che avevano attraversato dopo la caduta dell’ultimo regime di Mussolini.
Ho anche spiegato in che modo la soggezione politica del Pci alle strategie dell’Urss avesse subito provocato la fine dell’Anpi come associazione unitaria di tutti i partigiani. Portando alla nascita di altri due gruppi di ex combattenti della Resistenza: dapprima i partigiani cattolici e, all’inizio del 1949, i partigiani socialisti e del Partito d’azione.
Ho lavorato con lo stesso spirito in tutti i miei libri. Per una ragione quasi banale: le guerre civili si combattono sempre in due e per raccontarle bisogna descrivere con equità anche il mondo degli sconfitti e i contrasti sanguinosi nel campo di vincitori. Questo è fare del revisionismo? Sì, un revisionismo inevitabile e giusto. Questo è mettere sul medesimo piano chi combatteva per la libertà e chi difendeva un regime autoritario? No, non è mai stato il mio intento. Chi lo sostiene, e chi lo affermerà di nuovo anche dopo questo mio viaggio nel mondo dei vinti, mente sapendo di mentire.
Una parte di questi bugiardi ha un carattere violento. E ritiene che si debba far tacere con le minacce e le aggressioni chi non sta ai loro ordini. Ne ho fatta esperienza anch’io. Ma quei match poco piacevoli mi hanno aiutato a capire sino in fondo di che pasta sia fatta l’area ottusa delle sinistre italiane.
Nel suo discorso per il 25 aprile 2008, pronunciato a Genova, il presidente della Repubblica aveva ammonito a non attaccare la Resistenza. Qualche giornale, sbagliando, aveva tradotto il monito del capo dello Stato con uno sbrigativo: «Troppi revisionismi». Ne ho sorriso, perché non esiste autorità al mondo che possa dettare le regole della ricerca storica. E stabilire: fin qui è consentito andare, più in là no.
Grazie agli italiani, l’Italia è sempre un paese libero. Dove un autore di saggi storici o di romanzi ha un solo suggeritore: la propria coscienza. E dove gli editori stampano i libri che ritengono giusto pubblicare.
Quando lesse la prima stesura di questo capitolo, Adele mi propose qualche correzione di poco conto. Però mi disse: «Giampa, penso che il libro che scriverai verrà considerato un libro di destra. A me sta bene, ma a parecchi sembrerà un lavoro fascistoide».
«E chi sarebbero questi che tu definisci “parecchi”?» le domandai.
«Alle sinistre, quelle che tu chiameresti in gergo pansiano “il sinistrume”…»
Alzai le spalle e replicai: «Le sinistre? Ma sento dire dappertutto che la sinistra non esiste più!».
Adele ribatté con un sorriso: «Esiste, esiste… E te ne accorgerai!».
2
Ventimila morti
Quando e come è iniziata questa mia nuova avventura nel mondo dei vinti della guerra civile? Confesso di non saper indicare una data, ma soltanto un momento che si è ripetuto nel corso degli anni. Il momento che mi vedeva chiedere a Adele: «Perché abbiamo scritto Il sangue dei vinti? Forse tu lo ricordi…».
La sua risposta è stata ogni volta la stessa: «Perché nelle presentazioni del libro precedente, I figli dell’Aquila, incontravamo sempre qualcuno che ci chiedeva di scriverlo. Erano signori ben oltre la mezza età che dichiaravano di aver combattuto tra il 1943 e il 1945 come militari della Repubblica sociale italiana. Uno di loro, a Colorno, in provincia di Parma, durante un dibattito alla Libreria Panciroli, si alzò dicendo: “Anche io sono stato un figlio dell’Aquila”. In sostanza erano soprattutto loro a domandarci di dare un seguito a quel libro».
I figli dell’Aquila, uscito nell’autunno del 2002, terminava con la descrizione di due eccidi di marò della Divisione San Marco, catturati dai partigiani qualche giorno dopo la fine della guerra. Il primo era il massacro del Manfrei il 27 aprile 1945: cinquanta morti, ma i reduci della San Marco sostenevano che fossero duecento. Il secondo, avvenuto l’11 maggio 1945, era quello della corriera di Cadibona, con trentotto-quaranta ammazzati, comprese tredici donne.
Dissi a Adele: «Questi sono soltanto due dei molti omicidi commessi dai partigiani ai danni dei fascisti sconfitti. Raccontarli significa fare un viaggio negli orrori del primo dopoguerra e nel lato oscuro della Resistenza. Sino a oggi ci ha provato soltanto un giornalista fascista, Giorgio Pisanò. Perché non tentiamo anche noi? Forse il nostro lavoro sarebbe più completo del suo».
Lei osservò: «Se ritieni di esserne capace, provaci. Come è sempre successo da quando viviamo insieme, io sarò con te. Ma ho l’obbligo di avvertirti che il libro che immagini ti metterà contro una parte importante del tuo ambiente professionale. Diranno che sei passato nel territorio opposto, quello della destra fascista. E ti assaliranno con una protervia che non immagini. Dovrai ricorrere al tuo carattere. Ho sempre saputo che ami combattere. Ma neppure per te risulterà una prova facile».
Quella di Adele fu una previsione che si rivelò azzeccata. Però non ne fu turbata, o almeno non mostrò di esserlo. Tra l’altro fu lei a trovare il titolo del libro. La Sperling & Kupfer, il nostro editore di allora, dopo aver letto e approvato il manoscritto non sapeva in quale modo intitolarlo. Mentre affogavamo nell’incertezza, a rompere gli indugi ci pensò Adele. Ci suggerì di chiamarlo Il sangue dei vinti.
Ma ritorniamo ai primi passi del lavoro. Iniziammo a mettere in ordine geografico e cronologico tutte le fonti a stampa che avevo raccolto per anni, a partire dalla stesura della tesi di laurea, ossia dalla metà degli anni Cinquanta. Erano libri, opuscoli, articoli, sentenze giudiziarie, memorie personali di protagonisti e di testimoni, lettere private scritte a me soprattutto da donne: vedove, figlie o nipoti di chi aveva combattuto l’ultima battaglia di Benito Mussolini.
Poi tentammo una prima scrematura, scartando i testi che ci sembravano inutili o poco attendibili. Quindi individuammo gli episodi narrati da almeno due fonti diverse e decidemmo che valeva la pena di approfondire. Infine preparammo l’elenco dei luoghi da visitare.
In complesso risultò un lavoro meno difficile di quanto immaginavo. A sorreggermi esistevano alcune semplici verità. La prima è quella che, come accade in tutte le guerre, le parti coinvolte sono in sostanza due: i vincitori e i vinti. La seconda è ch...