Seconda parte L’università
Oxford, 2000
Il giorno in cui Nazperi Nalbantoğlu, fresca di diploma, arrivò a Oxford, era accompagnata dall’ansioso padre e dall’ancor più ansiosa madre. L’idea dei genitori era quella di passare la giornata insieme; dopo essersi accertati che la figlia si fosse ambientata nella sua nuova vita, sarebbero rientrati con un treno serale a Londra. Di lì avrebbero poi preso l’aereo per Istanbul, dove avevano trascorso quasi tutti i trentadue anni del loro matrimonio così saldamente instabile; una scala che traballava, eppure ancora resisteva agli attacchi del tempo. Ma le cose si rivelarono più complicate del previsto. Selma scoppiò due volte in singhiozzi, altalenava pazzamente tra la commiserazione e l’orgoglio; ogni poco afferrava un lembo del velo che aveva in testa con l’aria di volersi tamponare il viso, ma in realtà le serviva per asciugarsi una lacrima. Da una parte era esaltata dai risultati ottenuti dalla figlia, visto che mai nessuno in famiglia si era conquistato un posto in un’università straniera, e figuriamoci a Oxford. Non avevano mai neanche pensato a quell’eventualità, tanto il loro «qui» era lontano da quel «là».
Per un altro verso, tuttavia, non riusciva proprio ad accettare l’idea che la figlia più piccola, la sua bambina, dovesse vivere a un continente di distanza da lei, sola, in un posto dove tutto era straniero. Il fatto che Peri avesse fatto domanda a sua insaputa e senza la sua approvazione la feriva profondamente, e percepiva l’ombra del marito dietro il fait accompli. I due l’avevano informata solo a cose fatte, e a quel punto lei aveva potuto borbottare giusto una fievole obiezione, per non rischiare di alienarsi la figlia per il resto della vita. Avrebbe voluto che ci fosse un parente, o almeno il parente di un parente, una persona qualunque – purché fosse musulmana, sunnita, turcofona, timorata di Dio, pratica del Corano e facile da raggiungere per telefono – in quella città forestiera, a cui affidare Peri; ma non conosceva nessuno che rispondesse a quell’identikit.
Dal canto suo Mensur, per quanto desiderasse vedere la figlia eccellere negli studi, non era meno disperato all’idea di lasciarla andare. Esteriormente composto, si esprimeva però a frasi incerte e sconnesse, con lo stesso tono che avrebbe usato per parlare di un terremoto avvenuto chissà dove: si adeguava, ma con un sottofondo di dolore. E Peri capiva, ed entro certi limiti condivideva, il malessere dei genitori. Mai prima si erano separati; mai prima era stata lontana dalla sua famiglia, dalla sua casa e dalla sua patria.
«Avete visto che bello, qui?» disse. Con tutta la tensione che le cresceva in petto, non riusciva però a trattenere l’euforia, e si sentiva pronta a iniziare trionfalmente una vita nuova.
Il sole infilava tra le nubi raggi di luce tiepida, dando l’illusione che l’estate fosse tornata, malgrado le sporadiche folate di frizzante vento autunnale. Con le sue strade acciottolate, le torri merlate, le gallerie ad arcate, i bovindi e i portici scolpiti, Oxford pareva uscita da un libro di fiabe. Tutto, nel loro campo visivo, grondava storia; al punto che persino le caffetterie e i grandi magazzini sembravano parte integrante di quell’eredità secolare. A Istanbul, che pure era una città antichissima, il passato veniva trattato come un visitatore che si era indebitamente trattenuto troppo a lungo; mentre qui a Oxford era chiaramente l’ospite d’onore.
I Nalbantoğlu trascorsero il resto della mattinata a passeggio, ad ammirare i giardini seminascosti dietro mura consunte dal tempo e avvolte dall’edera, a passi incerti sulla ghiaia scricchiolante, senza sapere se in quegli spazi si potesse entrare e senza nessuno a cui chiedere. Alcune zone della città erano talmente vuote che i muri di calcare scrostato che fiancheggiavano gli antichi vicoli sembravano anelare a un po’ d’attenzione umana.
Stanchi e affamati, notarono un pub su Alfred Street, un locale con i soffitti bassi, il pavimento ad assi di legno cigolanti e una clientela assai rumorosa. Si sedettero timidamente a un tavolino angusto presso la finestra. Tutti bevevano birra in bicchieri a misura di gigante. All’arrivo della cameriera, una ragazza con un piercing al labbro inferiore, Mensur ordinò fish-and-chips per tutti e una bottiglia di vino bianco.
«Pensa, questo posto ha secoli di vita...» disse poi, fissando il perlinato di quercia come se contenesse un codice che, mettendocela tutta, sarebbe infine riuscito a decifrare.
Selma assentì col capo. Ma aveva notato ben altre cose, guardandosi intorno: studenti che tracannavano birra in un angolo, una ragazza in un abito così succinto che forse era una sottoveste, un tizio tatuato con le mani addosso alla fidanzata, la cui scollatura era più profonda della voragine che divideva Selma e il marito... Come poteva lasciare Peri sola in mezzo a questa gente? Gli occidentali potevano essere molto avanti in materia di scienza, tecnologia e istruzione, ma quanto a morale? Oltretutto doveva tenersi tutti questi pensieri per sé, per non irritare il marito e la figlia, e questo irritava lei. Aveva un’espressione imbronciata, a forza di trattenere commenti sarcastici; non era giusto che dovesse essere sempre lei il barboso genitore custode di certi principi.
Ignaro delle preoccupazioni della moglie, benché non proprio ingenuo rispetto alle sue posizioni, Mensur disse: «Siamo orgogliosi di te, Pericim».
Era la seconda volta che glielo diceva, e Peri si godette il complimento del padre proprio come la prima. Date le poche risorse a disposizione, sulla sua istruzione lui aveva investito ben oltre i loro mezzi, e lei era decisa a non deluderlo.
«Ci vuole un brindisi» dichiarò Mensur quando il vino arrivò a tavola. «Alla nostra intelligentissima figlia, e alla migliore università del mondo!»
Selma si rabbuiò. «Sai bene che Allah mi impedisce di brindare con voi.»
«Pazienza» fece Mensur. «Peccherò io. Quando muoio, mandami un biglietto per il paradiso.»
«Non è così semplice» rispose Selma. «Dovrai guadagnarti la risalita agli occhi di Allah.»
Mensur si morsicò l’interno della guancia. Sentire la moglie che predicava le sue belle formulette gli faceva lo stesso effetto che vedere una fila di tesserine del domino ritte in piedi: non riusciva a trattenere l’impulso di rovesciarne una. «Parli come se sapessi in prima persona che cosa pensa Allah. Gli leggi nella mente? Come fai a sapere cosa vede?»
«Ce lo ha lasciato scritto nel Corano, se solo ti prendessi la briga di leggerlo.»
«Dài, vi prego, ma non ce la fate proprio a non litigare per un giorno?» intervenne Peri. E per alleggerire l’atmosfera e cambiare argomento aggiunse: «Tanto tornerò presto per le nozze».
Hakan stava per sposarsi. Sebbene Umut – che dopo il rilascio si era ritirato in una cittadina sul Mediterraneo – fosse ancora scapolo, pur conscio di dover sfidare l’ordine di nascita Hakan si era rifiutato di aspettare. All’inizio tutti avevano pensato che dietro tanta impazienza si nascondesse una spiegazione imbarazzante, un gonfiore che la sposa non poteva più nascondere, ma poi si era capito che la fretta era legata solo alla personalità dello sposo.
Terminarono di pranzare, per lo più in silenzio.
Mentre aspettavano il conto, Selma prese la mano della figlia tra le sue. «Sta’ lontana dalla gente pericolosa.»
«Sì, mamma, lo so.»
«L’istruzione è importante, ma per una ragazza c’è un’altra cosa molto più importante, mi segui? Se perdi quella, nessuna laurea ti riabiliterà. I maschi non hanno niente da perdere, ma le femmine devono stare attentissime.»
«Va bene...» disse Peri guardando da un’altra parte.
Verginità: la parola d’ordine che si poteva solo adombrare ma mai pronunciare, anche se incombeva su mille discorsi tra madri e figlie, zie e nipoti. Un argomento da trattare in punta di piedi, come un lunatico che ti si sia addormentato tra i piedi ma che nessuno osa disturbare.
«Io di mia figlia mi fido...» intervenne Mensur, che aveva finito col bere gran parte del vino da solo e adesso pareva leggermente alticcio.
«Anche io» fece Selma. «È degli altri che non mi fido.»
«Che risposta scema» ribatté Mensur. «Se ti fidi di lei, che t’importa di quello che fanno gli altri?»
Selma reagì con una smorfia sprezzante. «Uno che si ammazza col bere tutti i giorni ha poco da dare dello scemo agli altri.»
Davanti ai genitori che incrociavano le lame per l’ennesima volta, senza mai vincere una battaglia, senza mai regolare un conto, a Peri non rimase che guardare fuori dalla finestra il cuore di quella città che doveva diventare, almeno per i prossimi tre anni, la sua università, la sua casa, il suo rifugio. Aveva lo stomaco stretto per l’apprensione, in testa un vortice di pensieri neri. Le tornò in mente lo zafferano pregiato – quello vero, non i succedanei da poco – che si vendeva nei bazar delle spezie di Istanbul in delicate ampolle di vetro. Il suo ottimismo era uguale: limitato, confinato, deperibile.
La carta geografica
Oxford, 2000
«Salve!» La voce risuonò alle loro spalle pochi secondi dopo che avevano raggiunto la portineria del college dove li aspettava una studentessa del secondo anno che l’università aveva incaricato di far loro da guida.
Si voltarono e videro una ragazza alta, con il portamento della sultana che avrebbe potuto essere in un’altra epoca e in un’altra terra. Portava una gonna rosa come le meringhe all’acqua di rose che da bambina Peri adorava; i capelli neri le ricadevano a ricci sciolti sulla schiena perfettamente dritta, le labbra erano dipinte di carminio lucido e anche le guance erano imbellettate. Ma erano gli occhi, scuri e distanziati, sottolineati con la matita viola e ombreggiati di un turchese accesissimo, a colpire più di ogni altra cosa. Quel trucco era come la bandiera di un paese in agitazione, a dichiarare non solo la propria indipendenza ma anche la propria imprevedibilità.
«Benvenuta a Oxford» disse con un largo sorriso, tendendo una mano perfettamente curata. «Io mi chiamo Shirin.» Nome che pronunciò allungando al massimo le due vocali, Shiii-riiin.
Benché il naso aquilino e il mento importante impedissero, in senso canonico, di definirla graziosa, era dotata di un carisma tale da poter essere considerata bella. Peri rimase talmente rapita dalla sua presenza che fece a sua volta un ampio sorriso avanzando verso di lei.
«Ciao, io sono Peri, e questi sono i miei genitori.» Quindi pensò: “Per un giorno possiamo anche far finta di essere una famiglia normale”.
«Felicissima di conoscervi. Ho sentito che siete turchi; io sono nata a Teheran, però non ci sono mai tornata» disse Shirin con uno svolazzo della mano, come se l’Iran fosse lì dietro l’angolo, in attesa. «Credo sia per questo che abbiano chiesto a me di accompagnarvi, a loro piace raggrupparci, quelli come noi. Siete pronti per la visita guidata?»
Peri e Mensur assentirono con entusiasmo, mentre Selma squadrava con aria di disapprovazione la gonna corta, i tacchi alti e il trucco pesante. A lei Shirin non sembrava una studentessa, e di certo non le sembrava iraniana.
«Ma che cosa studia, questa?» mormorò in turco.
Peri, colta dall’irrazionale timore che la compagna anglo-iraniana potesse capire la loro lingua, sibilò di rimando: «Mamma, per piacere».
«Andiamo!» esclamava intanto Shirin. «Di norma dovremmo partire dal nostro college e poi vedere il resto della città, ma io non faccio mai niente nell’ordine previsto, è più forte di me. Perciò seguitemi, gente!»
Dopodiché Shirin si lanciò in un lungo excursus sulla storia di Oxford, e senza mai chiudere bocca li condusse per le tortuose profondità delle antiche viuzze cittadine. Vivace e amabile, parlava con l’impeto di un torrente in piena, a fiotti che i Nalbantoğlu faticavano a seguire; soprattutto Selma, che non vedeva alcuna somiglianza tra l’antiquato inglese tutto grammaticale che aveva imparato decenni prima a scuola – e poi dimenticato in un lampo – e il farfugliare che sentiva ora. Per darle una mano, Peri si calò nel ruolo dell’interprete... sia pure con qualche licenza: ammorbidiva, riformulava e se necessario censurava qualunque cosa rischiasse di infastidire la madre.
Nel frattempo Shirin andava spiegando che a Oxford ciascun college era una fondazione autonoma, che governava da sé tutti i propri affari. Mensur trovò la cosa sconcertante. «Ma ci deve essere Presidente, autorità sopra tutto» obiettò nel suo inglese stentato, e si guardò intorno come se temesse di vedere la città piombare nell’anarchia.
«Sono costretta a dissentire» replicò Shirin. «Per come la vedo io, l’autorità è come l’aglio: più ne metti, più si sente la puzza.»
Mensur, che aveva trascorso gran parte della sua vita adulta anelando a un’autorità centrale forte, salda e sufficientemente laica da fermare l’ascesa del fondamentalismo religioso, alzò gli occhi allarmato. Per lui l’autorità era un collante, la malta che teneva insieme in armonia i vari pezzi della società. Senza quella i mattoni sarebbero crollati, e l’intera struttura si sarebbe disfatta.
«Certo non tutta autorità sbagliata» insistette. «Per esempio i diritti delle donne, cosa mi dici quando un capo forte difende le donne?»
«Be’, credo che direi grazie tante, ma sono capace di difendere i miei diritti da sola. Non ci serve un’autorità che lo faccia al posto nostro!»
Nel dire queste parole Shirin guardò Selma, e in particolare il velo e il lungo cappottone informe. Peri, perspicace come sempre quando si trattava di sentimenti altrui, si rese conto che l’avversione di sua madre per Shirin era ricambiata; la ragazza anglo-iraniana sembrava nutrire un certo disprezzo per le donne che si coprivano il capo, e non sentiva nessun bisogno di nasconderlo.
«Vieni, mamma.» Peri prese delicatamente Selma per un braccio, quello con la cicatrice dell’ustione, ricordo del giorno di lavaggio dei tappeti di tanti anni prima. Insieme rimasero un poco indietro.
Sugli scalini d’ingresso all’Ashmolean Museum madre e figlia notarono una coppia avvinta in un bacio appassionato. Peri arrossì come fosse lei, quella sorpresa tra le braccia del ragazzo, e con la coda dell’occhio notò il cipiglio di Selma. Vale a dire, della donna che sul sesso non le aveva insegnato assolutamente nulla. Ancora ricordava la volta che all’hammam, da bambina, aveva fatto una domanda sull’oggetto che aveva visto dondolare tra le gambe di un maschietto. La reazione di Selma era stata quella di piombare sulla madre del ragazzino e lanciarsi in una tirata che per via del rumore dell’acqua corrente dalle fontane di marmo non si era sentita ma che, a giudicare dai gesti di Selma, doveva essere stata ben aspra. Peri si era sentita mortificata e oltretutto in colpa, per aver mostrato una curiosità che in tutta evidenza non aveva il diritto di provare.
Col tempo, la curiosità in lei aveva prevalso ancora. Una volta chiese alla ...