Il combattente
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Il combattente

  1. 256 pagine
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Il combattente

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Lasciare tutto - l'amore, gli amici, la vita in Italia - per combattere l'Isis con il popolo curdo: questa è l'avventura di Karim Franceschi, figlio di un ex partigiano e una donna marocchina. Dopo aver partecipato alla carovana umanitaria Rojava calling, nel gennaio 2015 ha deciso di raggiungere Kobane e unirsi alla milizia volontaria dell'Ypg (Unità di protezione del popolo) e affrontare i jihadisti. Con pochi giorni di addestramento alle spalle, Karim è passato da combattente semplice a una squadra di cecchini, diventando un punto di riferimento per i compagni e un pericoloso nemico per lo Stato islamico. Oggi ripercorre la sua storia: l'arrivo a Kobane, il trauma delle prime battaglie, la resistenza disperata e l'incredibile impresa della liberazione della città. Un racconto che mette il lettore di fronte a quelle atrocità che conosciamo solo attraverso i video, ma che riesce a mostrarci anche i punti deboli del Califfato. Una storia trascinante, al centro di una guerra ferocissima e reale che, ormai lo sappiamo, ci riguarda tutti.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2017
ISBN
9788858691656

1

Un salto in Siria

Corro. A testa bassa, perché i fucili dei soldati turchi sono puntati su di me. Non li vedo, ma so che ci sono. Cercano di ricacciarci indietro, lontano dalla rete e dal filo spinato che separano la Turchia dalla Siria, lontano da Kobane e da quelli che diventeranno i nostri compagni. Vogliono spaventarci. A modo loro, ci stanno dicendo che è meglio se gente come noi se ne torna a casa. Io indosso un paio di ginocchiere sopra i pantaloni militari e nelle mani stringo una calza della Befana piena di caramelle e cioccolatini. Accanto a me un curdo si è legato al braccio una specie di scudo fatto di piombo e cemento, che peserà quindici chili almeno. E c’è un ragazzo che da un’ora porta sulle spalle un bancale di legno lungo due metri; infaticabile, sbuffa e suda che pare un treno merci sulla neve turca. No, noi a casa non ci torniamo.
E dunque, corro. O meglio, corro quando i due uomini che ci stanno guidando nel buio fanno segno di correre. Mi fermo quando ordinano di stare fermi. Se mi chiedessero di smettere di respirare, proverei a fare anche quello. Mi devo fidare, non ho altra scelta. Loro fanno parte dell’esercito in cui ho deciso di arruolarmi: lo Yekîneyên Parastina Gel, le Unità di protezione del popolo. L’Ypg è il braccio armato del confederalismo democratico, l’esperimento socialista e laico di cui mi sono innamorato, sorto in mezzo a uno dei conflitti più sanguinosi del nostro tempo: la guerra civile siriana.
Mi trovo in una terra che non conosco, ed è notte fonda. Il display dell’orologio segna l’una e quarantacinque. Non vedo niente, cammino senza sapere dove sto mettendo i piedi perché non c’è nemmeno la luna a fare un po’ di luce. Sento giusto il rumore della neve fresca che si comprime sotto la suola dura dei miei scarponi. Negli zaini abbiamo delle torce che però non possiamo accendere, ovviamente. Fa un freddo cane, ho le dita congelate. Quando trattengo il fiato, il cuore mi rimbalza nelle tempie: centocinquanta, centosessanta battiti al minuto. Se mi concentro li posso contare tutti, uno dopo l’altro. Non sono mai stato così teso ed eccitato in vita mia. Questo è ciò che vado cercando da tempo, questo è il posto dove voglio essere.
Mi chiamo Karim Franceschi, vengo da Senigallia, ho venticinque anni e sto andando alla guerra con una calza della Befana in mano. TANTI AUGURI DI BUONE FESTE, c’è scritto sopra. Chiariamo: non sono matto, è che voglio portare un po’ di dolci ai bambini di Kobane. Mi hanno detto che ce ne sono tantissimi per le strade, rimasti senza casa, senza genitori, senza fratelli né sorelle. Chissà da quant’è che non ne mangiano. Chissà da quant’è che non mangiano, in generale. La calza me l’ha regalata mia sorella Jamila il 6 gennaio, tre giorni prima che partissi. Siccome era ancora piena di caramelle, e a me non piace sprecare il cibo, me la sono portata dietro. Può sembrare un pensiero strano per uno che sta entrando – e pure di corsa – in una delle zone più pericolose del pianeta, ma tant’è…
Kobane. Da tre mesi i compagni curdi muoiono come mosche nel disperato tentativo di difenderla. Sono degli eroi, di cui i miliziani dello Stato islamico stanno facendo carneficina. Su internet ho visto le immagini dell’orrore portato dall’Isis. Ne parlo in continuazione da settimane, leggo articoli di giornale, seguo trasmissioni in televisione, guardo video su YouTube. Riesco quasi a dar un volto a quei fanatici: potrei essere uno di loro, se non fossi invece l’esatto opposto. Tra i miliziani del Califfato ci sono veterani di cento battaglie, jihadisti che si spostano lungo i focolai del Medioriente, cecchini ceceni che hanno combattuto contro le Specnaz, le unità speciali russe. Tutti tesi verso un unico obiettivo: la shahāda, la testimonianza di fede che arriva al martirio e garantisce l’accesso al paradiso. Io con questa roba non c’entro niente. Mi sento un rivoluzionario, e sto andando a combattere armato di ovetti Kinder e lecca-lecca. Non male, no? Non che se imbracciassi un Kalashnikov con il caricatore pieno, anziché questa gigantesca calza della Befana, cambierebbe qualcosa: non ho mai sparato se non alla PlayStation, usando il joypad per premere il grilletto. Un fucile vero non l’ho mai nemmeno visto, a parte in fotografia o nei filmati. Non so quanto pesi, né come vada portato o caricato. Quando mi sono dovuto difendere, finora, l’ho fatto sempre a mani nude.
Kobane. Immersi nell’oscurità non la vediamo, ma sappiamo che è da qualche parte, poche centinaia di metri davanti a noi. Mi pare quasi di sentire il suo respiro esausto, da città allo stremo; forse proviene proprio da là, da quel bagliore che a occhio mi sembra un falò. Kobane è la prima cittadina curda che si incontra una volta entrati in territorio siriano, passando dal varco di Mursitpinar: dalle foto pubblicate sui giornali sembra più che altro un ammasso confuso e disordinato di case bianche, costruite una sull’altra senza un minimo criterio urbanistico. Prima che la guerra la svuotasse contava cinquantamila abitanti, tra arabi, curdi, turcomanni e armeni, ma in realtà il grosso della popolazione della zona – circa duecentomila persone – viveva nelle campagne circostanti. Costituisce uno dei tre cantoni, assieme a Jazira e Afrin, del Rojava. E il Rojava è il sogno di un popolo intero: la regione settentrionale della Siria, a maggioranza curda, che si è proclamata autonoma e dove stanno cercando di costruire una società basata su principi quali la democrazia diretta, l’uguaglianza di genere, la sostenibilità. Tutti ideali in cui credo anch’io. Il progetto porta appunto il nome di confederalismo democratico e, ovviamente, i governi si sono guardati bene dal concedere al Rojava anche il minimo riconoscimento.
Soprattutto, Kobane è uno degli ultimi baluardi contro l’avanzata dell’Is. Se cadesse, consegneremmo l’intero Nord della Siria alle milizie dell’autoproclamato califfo al-Baghdadi: sbaragliata la resistenza curda, non ci sarebbe più nessuno a tentare di arrestarne l’avanzata, tranne i soldati di quel dittatore di Bashar al-Assad, rintanati intorno a Damasco. Per questo Kobane è più di un simbolo. Quando alle sue porte sono cominciati gli scontri a fuoco, l’Occidente si è accorto che qualcosa era andato storto nel suo progetto di abbattere al-Assad senza sporcarsi le mani, semplicemente sostenendo con armi e mezzi le fazioni ribelli. Quelle armi ora sono state puntate contro i curdi, ed è iniziata una guerra che, al momento, stiamo perdendo. L’ultimo fazzoletto di terra ancora libera, per quel che ne so, è la collina di Mursitpinar. C’è bisogno dell’aiuto di uomini e donne volenterosi, di forze nuove, di persone capaci di caricarsi sulle spalle questa enorme responsabilità. Serviamo tutti noi, del mio gruppetto. Persino io con la mia calza.
Comunque, non ho portato con me solo dolci. Ho anche uno zaino sulle spalle. L’ho riempito per bene, stipandoci dentro quella roba che chi non ha mai partecipato a un combattimento – proprio come me – è convinto sia indispensabile. Due maglie di lana verde militare, calzini di lana, pantaloni color oliva, una videocamera piccola e vecchia con tre ore di cassette vuote… E i fondamentali guanti da palestra: mi sudano sempre le mani. Probabilmente metà di queste cose non mi servirà a niente e dovrò buttarla. Le ginocchiere invece no, sono state un acquisto azzeccato. È l’unica certezza che ho, mentre le due guide dell’Ypg ci fanno capire che dovremo avanzare carponi sulla terra ghiacciata, per un centinaio di metri o forse più, per evitare di essere visti e impallinati.
Incrocio per un secondo gli occhi neri di Mordem, vicino a me. È un curdo della Turchia, e anche lui vuole combattere nella resistenza. L’ho conosciuto solo poche ore fa, mentre andavamo alla villa, ma mi è piaciuto subito per l’entusiasmo che non riusciva a trattenere. Adesso sorride, mentre si massaggia le ginocchia indolenzite in un attimo di pausa. Come tutti noi, sta per fare il grande passo: da attivista a rivoluzionario. Per arrivarci tocca strisciare per terra. Il mio zaino è ingombrante, talmente pieno che la calza con le caramelle non ci è entrata. Meglio non pensarci. Mi ritengo già parecchio fortunato che i gendarmi turchi non abbiano ancora aperto il fuoco contro di noi. Sai che bella fine faremmo… Karim, il partigiano di Senigallia, morto per mano di una guardia ancor prima di arrivare al fronte. Non deve succedere. Non può succedere, me lo sento. Non sono venuto qua per farmi ammazzare come un miserabile prima ancora di entrare a Kobane. Né per essere catturato e rinchiuso in un carcere turco; una fine che, in questi minuti agitati, annovero tra quelle decisamente ingloriose, assieme all’orribile ipotesi di scambiare uno dell’Is per un compagno e ritrovarmi con addosso la tuta arancione, consapevole che la mia testa non rimarrà ancora a lungo attaccata al resto del corpo. Sì, meglio non pensarci.
Nel gruppo che avanza verso la frontiera, a parte le due guide, siamo dodici. Ci sono due attivisti stranieri – un francese e un tedesco – che si sono messi in testa di girare un documentario, accompagnati da una curda che fa da traduttrice; loro non intendono unirsi all’Ypg: vogliono superare il confine con noi per raggiungere, come prima cosa, il punto di ritrovo preparato a Kobane per i giornalisti. Mordem si è fatto passare lo zaino di un’altra ragazza, sfinita dalla stanchezza, e adesso lo porta sopra il suo. Mordem: l’uomo con due zaini, gli occhi neri e un grande cuore. Io sono l’unico italiano, e anche l’unico vestito da militare. Gli altri indossano abiti normali: sembrano escursionisti che hanno smarrito il sentiero nella notte, non guerriglieri pronti a uccidere e farsi uccidere. Sarà per la tensione o la fatica, ma non si parla un granché. In effetti nessuno dice niente. Siamo un po’ smarriti, ed è comprensibile: non ci hanno dato istruzioni particolari nemmeno quando ci hanno riuniti, nella villa di quello strano personaggio. Così avanziamo da un’ora in fila indiana, lo sguardo fisso sulle due guide dell’Ypg, e basta. Respiriamo affannosamente, ma almeno il nostro fiatone ha creato un certo ritmo.
Magari corriamo per trenta metri, poi ci buttiamo a terra e ci muoviamo a quattro zampe, cercando di nasconderci dietro le sterpaglie. Abbiamo già superato un checkpoint – in realtà una piccola casupola, con dei fari puntati sul sentiero che conduce alla frontiera – senza troppi problemi: fa talmente freddo che le guardie in tuta mimetica non escono quasi mai, rimangono chiuse dentro. Così l’abbiamo aggirato senza essere scoperti. Però abbiamo intravisto i fanali dei blindati che fanno la ronda lungo il filo spinato.
Nel silenzio, intuisco la direzione che stiamo lentamente seguendo: avanziamo paralleli alla rete, tenendoci a un centinaio di metri di distanza. Non dobbiamo essere molto lontani da Mursitpinar Bucagi, il villaggio sorto attorno alla stazione ferroviaria, con le rotaie che corrono lungo il confine, di fianco a una strada stretta e asfaltata. È uno dei passaggi di frontiera controllati dalle autorità turche, ci si arriva da Suruc facendo la statale 883. Lo so perché l’ho visto su Google Maps. Però il valico è chiuso, da lì non si passa più, quindi immagino che le nostre guide stiano valutando quale sia il punto meno rischioso per scavalcare. I blindati turchi sono vicini, sento il rumore dei motori diesel e le vibrazioni sul terreno. «Non vi fermate mai, non vi preoccupate se sentite degli spari.» Ecco: questa è stata l’unica raccomandazione che i due dell’Ypg ci hanno fatto, un po’ in inglese un po’ a gesti, pochi attimi prima di iniziare questa corsa folle, a scatti e ostacoli. Non che mi sia sentito granché rassicurato dalle loro parole. Se ne sono usciti con una di quelle frasi che, a rifletterci un attimo in più, dovrebbe indurre chiunque sano di mente a rivalutare l’idea di attraversare il confine in quel modo e in quel tratto. Ma la verità è che non ho ancora avuto il tempo di pensare a niente, da quando ho messo piede in Turchia. È successo tutto in fretta, forse troppo.
Sono qui da neanche quarantotto ore e già mi ritrovo a far parte di un manipolo di uomini e donne che tra qualche minuto, se tutto va bene, sarà catapultato nel macello di Kobane. Non mi aspettavo che sarebbe stato così facile trovare i canali giusti. Evidentemente il bisogno di rinforzi ha reso tutto più semplice. Sono partito da Senigallia la mattina del 9 gennaio, ed è stata mia madre ad accompagnarmi in stazione. Viviamo insieme in un appartamento di quattro stanze, al secondo piano di una palazzina nella parte interna della città. Dalla mia finestra non vedo il mare. Non vedo proprio un bel niente, solo altri edifici di cemento. Mia madre è di origini marocchine, il che spiega perché abbia insistito tanto per farmi chiamare Karim. Ha fatto una miriade di lavori per tirarmi su e adesso fa la badante: nonostante tutte le ore che le tocca passare fuori, non mi lascia mai senza qualcosa di pronto da mangiare, colazione, pranzo e cena. La rispetto molto, ma non sono stato del tutto sincero con lei.
Ma no, mamma, mica vado al fronte! Questo le ho detto. Per settimane ho provato a dirle che sì, andavo in Siria, ma no, non andavo a combattere, e sì, lì in effetti c’è la guerra, ma no, gli italiani non li fanno sparare, li mettono al massimo a scavare buche nelle seconde linee. Se l’è bevuta sul serio? Non lo so, non credo. Ma le sta talmente a cuore la mia felicità da capire che solo realizzare questo progetto mi avrebbe fatto sentire soddisfatto di me. Mi ha salutato alla stazione, come tutte le mamme salutano i figli: «Ti prego, Karim, torna presto». Le voglio un gran bene.
Sono salito sul treno di venerdì, intorno alle sette, assieme ai pendolari della linea adriatica. Loro con i vestiti da ufficio e le valigette con tablet e scartoffie, io con uno zaino nero e arancione da trekking e un trolley. Ai piedi portavo gli anfibi che ho comprato apposta per Kobane. Sopra, un paio di jeans e una giacca a vento. Chissà se qualcuno di quei tizi è riuscito almeno a intuire quale era la mia reale destinazione. Stando al sonno e alla noia che leggevo sui loro volti, tenderei a escluderlo. Ero uno qualunque, un solitario in viaggio. Un tipo taciturno con una strana eccitazione addosso, ecco tutto. Alla stazione di Bologna ho preso la navetta per l’aeroporto. Quando ho visto i varchi dell’imbarco, con il metal detector e gli agenti che perquisivano i passeggeri, mi sono bloccato. Il classico e un po’ stupido brivido dell’ultimo secondo, quello che di solito ti fa scoprire. E se mi fermano? Se mi chiedono perché diavolo sto andando a Istanbul? Non pensavo soltanto agli anfibi in stile militare: a dire il vero mi preoccupavano le ginocchiere, che l’addetto al monitor avrebbe visto mentre lo zaino passava sotto lo scanner ai raggi X. Quelle potevano ben destare qualche dubbio. Tra l’altro, due giorni prima c’era stata la strage del «Charlie Hebdo», a Parigi, ed ero convinto che avessero alzato al massimo le misure di sicurezza negli snodi sensibili. A maggior ragione sui voli diretti a Istanbul, prima tappa di tutti i foreign fighter, sia quelli che si uniscono al Califfato sia quelli che vanno nella resistenza curda. E invece: «Buon viaggio signor Franceschi. Non è fortunato: all’atterraggio troverà una bufera di neve». Era andata.
Allo scalo di Istanbul sono stato fotografato, come tutti gli altri passeggeri, ma gli agenti hanno messo il timbro sul passaporto senza fare storie; con il mio visto turistico, posso rimanere in questo Paese al massimo per tre mesi. Un volo interno mi ha poi portato a Gaziantep. Prima di sera, con centotrenta euro di biglietto aereo e un’altra cinquantina per il pullman, ero a Suruc, a sette chilometri in linea d’aria dal centro di Kobane.
Suruc, nel Sud della Turchia, è una cittadella amministrata dai curdi; tutta l’area rientrerebbe nel territorio del Kurdistan, se al Kurdistan avessero mai riconosciuto la dignità che merita. Un po’ me la ricordo, ci sono già stato qualche mese fa. Chiassosa, polverosa, distratta. I quartieri sono tutti più o meno uguali: poveri. Nelle ingarbugliate vie del mercato, tra i banchi messi in mezzo alla strada, puoi scorgere sul marciapiede frigoriferi pieni di bibite, o ombrelloni e sedie. Incontri giornalisti, attivisti, curdi feriti, militari turchi, mercenari, prostitute. Ci sono anche centinaia di rifugiati siriani e afghani, che dormono ai lati delle vie; senzatetto, contrabbandieri, briganti… chi vuole andare di là, passa di qui. Ragazzetti senza casco ti tagliano la strada in sella a motociclette vecchissime, che in Italia non si trovano nemmeno più. Girano centinaia di camion e pick-up, ma non si capisce mai chi stanno trasportando né perché.
Kobane è all’orizzonte. Dalla città distrutta salgono fumi e fuochi, si sentono colpi di mortaio a ogni ora del giorno. Se ti fermi a osservarla, se ti concentri, vieni travolto da un alito di morte: in quei vicoli stretti – tra le macerie di quelle che sono state scuole, abitazioni, cliniche, vite – uomini e donne stanno uccidendo altri uomini e altre donne. Si vede anche Mishtenur, la collina diventata famosa perché le truppe del Califfato sono riuscite a piantarvi la loro orrida bandiera nera, che si scorge da ogni punto di Suruc. Più in basso, le case che si arrampicano una sopra l’altra ai suoi piedi. Kobane è talmente vicina che i curdi di qua riescono a comunicare con i curdi di là. Gli abitanti fuggiti durante la guerra civile affidano i propri lamenti al vento, così chi ha avuto il coraggio di rimanere sa che non è solo. Il grecale sembra raccogliere pietosamente le voci con sé, e trasportarle a destinazione. Non sto giocando a fare il poeta: l’ho visto con i miei occhi la prima volta che sono stato a Suruc, nell’ottobre del 2014. Ero venuto con il progetto Rojava calling, la carovana di aiuti umanitari organizzata dalla rete dei centri sociali italiani, compreso l’Arvultura di Senigallia. Mentre Kobane veniva conquistata metro dopo metro dai jihadisti dell’Is, avevamo organizzato una serie di incontri pubblici per discutere di cosa fare; alla fine, si era deciso di dare il via a una staffetta per portare generi alimentari e di prima necessità ai profughi siriani e accompagnare i dottori in campi senza acqua né elettricità, dove distribuire farmaci, dispositivi medici, vestiti. Con noi c’erano ragazzi di Napoli, Padova, Milano, Bologna… Il viaggio, durato una settimana, mi è servito per rendermi conto di molte cose. Ed è stato proprio in una di quelle sere a Suruc che ho intravisto, per la prima volta, l’anima sofferente del popolo curdo. Ero insieme a due ragazzi di Bologna in una zona di periferia, stavamo chiacchierando in una casa dove ci avevano sistemati, quando abbiamo sentito in lontananza una sorta di nenia profonda e dolorosa. Spinti dalla curiosità, ci siamo avvicinati al punto da cui sembrava provenire il suono e siamo finiti in un campo abbandonato, dove una trentina di persone sedeva attorno a un fuoco. Cantavano. Cantavano e fumavano. Cantavano e si tenevano per mano. Quelle erano canzoni popolari della tradizione curda: il loro modo per comunicare con chi era rimasto a Kobane, per ricordare a tutti che erano parte di unico popolo, persino in quei giorni disperati.
Tornandoci, mi sono accorto che in tre mesi Suruc non è cambiata per niente. È sempre un carnaio a cielo aperto, un sorprendente mazzo di carte da cui puoi pescare di tutto: il jolly, la regina di cuori o il fante che ti ucciderà. Quando sono arrivato, la sera del 9 gennaio, non avevo numeri di telefono da chiamare, ma sapevo che c’era un posto dove mi avrebbero dato una mano. Il Centro culturale Amara. Gli stranieri che hanno bisogno di qualcosa, lì trovano sempre ciò che gli serve. È una struttura di due piani, in vetro e cemento colorato di rosso, gestita dai volontari del Partito democratico del popolo, o Hdp. Al piano terra c’è un salone in cui si fermano a bivaccare i reporter e gli attivisti che hanno bisogno di usare il wifi: una cucina, un paio di bagni, prese elettriche e decine di computer portatili messi a ricaricare dagli ospiti. Sul pianerottolo sono sistemati dei sacchi a pelo; al piano di sopra, tre o quattro camere. È un rifugio per tutti, il Centro Amara. Anche per i figli dei profughi, che vengono a giocare a pallone nel giardino alberato che circonda la palazzina principale, protetto dal muro di cinta e dalle piante che vi crescono a ridosso. Nessun guardiano. Una decina di persone erano ospitate nel Centro, tutti stranieri: americani, giapponesi, spagnoli… Però nessun italiano. I ragazzi che si occupano di gestire questo posto – sempre molto disponibili – parlano inglese, turco, curdo e arabo, così ho chiesto a una ragazza dal viso gentile e di neanche trent’anni se potevo fermarmi una notte, in una delle stanze al primo piano. Aveva l’aria di essere una dei responsabili.
«Non c’è problema, abbiamo spazio. Ma cosa ci fa un italiano da solo, da queste parti?»
Sto cercando di andare a Kobane, voglio arruolarmi nella resistenza curda.
«Ci arriverai, basta tenere gli occhi e le orecchie aperti. Ti sei fatto sistemare il cellulare? Altrimenti entro ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. 1. Un salto in Siria
  6. 2. Il figlio dell’italiano
  7. 3. Nome di battaglia: Marcello
  8. 4. Sei su sei
  9. 5. Kobane libre!
  10. 6. Morte del compagno Libertà
  11. 7. Commando
  12. 8. Em sahiden
  13. 9. Scacco matto
  14. 10. Un colpo solo
  15. 11. I martiri non muoiono
  16. 12. Primavera
  17. Ringraziamenti