Una strana compagnia
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Una strana compagnia

Cristianesimo alla prova 1

  1. 352 pagine
  2. Italian
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Una strana compagnia

Cristianesimo alla prova 1

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Una STRANA COMPAGNIA (1982-1984) è il primo volume della nuova serie BUR Cristianesimo alla prova, in cui si riproducono le lezioni e i dialoghi di don Luigi Giussani durante gli Esercizi spirituali della Fraternità di Comunione e Liberazione, a partire dal 1982, anno del riconoscimento pontificio. È possibile vivere da cristiani in quello che papa Francesco chiama "un cambiamento di epoca", dominato dalla insicurezza, dalla paura e dallo smarrimento? Come scoprire la pertinenza della fede alle esigenze della vita? Si può vivere senza essere sopraffatti dalle circostanze? La risposta a queste domande attraversa come un sottofondo tutto il volume. Senza la fede in Cristo, sottolinea appassionatamente l'Autore, anche le cose più belle e interessanti della vita diventano opache. In queste pagine, la proposta di una fede che si rende attrattiva e sperimentabile attraverso la "strana compagnia" di coloro la cui vita è stata raggiunta e cambiata dall'incontro cristiano.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2017
ISBN
9788858690116

«IO VI CHIAMO AMICI»
(1984)*

La disponibilità al cammino comune fu segno del bisogno che molti avevano di vivere con pienezza la propria esistenza; a essa corrispose una costante ripresa dei contenuti della fede, volta a mettere in luce l’origine, i caratteri e le implicazioni della proposta cristiana. Dai discorsi e dalle iniziative sostenuti dai valori cristiani occorreva passare al cuore dell’esperienza cristiana, il riconoscimento della presenza di Cristo. Per tanti fu una scoperta, che generò anche novità nella vita di tutti. L’approfondimento “spirituale” della fede non tirava fuori, ma gettava ancor più dentro la vita, e la divisione fra ciò che si crede e ciò che si vive era, inizialmente, superata. Perciò il dialogo si fece più intenso e assiduo: nei gruppi, fra i gruppi e tutti insieme. Furono anche organizzati raduni in molte regioni italiane, per capire, come diceva don Giussani, «dove stiamo andando» e «come possiamo aiutarci» nel cammino intrapreso.
L’accento posto sulla persona fu preponderante, non solo perché si era nell’anno orwelliano e, nella società di massa, si predisponevano nuovi strumenti di comunicazione e di omologazione, ma, soprattutto, per la comprensione della natura del cristianesimo e del cambiamento che la fede porta nella vita. «Storia di persone», avrebbe definito il movimento Giovanni Paolo II, nel settembre di quell’anno, in occasione del trentennale dalla sua nascita, «che vivono nella Chiesa e sono chiamate a collaborare, in intensa comunione, per portarla all’uomo, per dilatarla nel mondo.»1 L’anno prima, in un incontro riservato, il Santo Padre aveva espresso piena sintonia con l’esperienza del movimento e lo aveva definito inassimilabile. Don Giussani ricordò agli universitari quell’episodio con queste parole: «Mentre era ancora seduto, e stava per girarsi sulla sedia per alzarsi, ha detto: “Voi non avete patria, perché voi siete inassimilabili a questa società”. Poi ha fatto un momento di silenzio e, quasi mentre si alzava dalla sedia, ha ripetuto questa parola: “Voi non avete patria”, in cui era commoventemente visibile la proiezione della sua situazione su di noi». L’episodio avrebbe determinato un “nuovo passo” nella storia del movimento, giacché il capire la grande osservazione del Papa voleva dire «incominciare realmente a essere maturi sul cammino del nostro movimento». Era il definitivo passaggio dai «valori cristiani» alla conoscenza di Cristo, come ancora agli universitari disse don Giussani: «Siamo andati avanti per dieci anni lavorando sui valori cristiani e dimenticando Cristo, senza conoscere Cristo. Il problema è Cristo, conoscere Cristo».2
Con maggior consapevolezza si cominciò anche a capire che «misericordia» e «perdono» rappresentano l’emblema della testimonianza cristiana e costituiscono il volto con cui l’umano, in tutte le sue forme e condizioni, può essere accolto, nella concretezza delle situazioni. Molte famiglie, da allora, si fecero carico di bambini abbandonati o orfani, e diverse “opere” furono costituite per venire incontro a situazioni di bisogno, di povertà, di malattia.
Alla Fraternità continuavano a pervenire nuove adesioni e il numero dei partecipanti agli Esercizi spirituali superava ampiamente i limiti consueti per gesti di tal genere.
Al cuore degli uomini e delle donne lì convenuti si rivolse don Giussani, con la confidenza dell’amico e la passione di chi vuol far partecipi gli altri dell’amore a Cristo.

Introduzione

Abbiamo compiuto il sacrificio, così grande per molti, di venire a questi Esercizi. Essi, dunque, non possono essere uno spettacolo davanti al quale in qualche modo stare passivi: in questo nostro raduno ognuno di noi deve essere vigile, attivo, perché quello che comprenderà dipenderà dall’ampiezza del suo cuore. Infatti, il fattore più importante, quello che fa scattare le cose, che le fa essere, è pronto: si chiama Spirito di Cristo. Lo Spirito è pronto, perciò. Ma Esso riuscirà ad agire in noi solo nella misura in cui il nostro spirito sarà spalancato e attivo. Dunque, l’invocazione dello Spirito che compiamo ora, agli inizi di queste due giornate, anzi, di questa giornata e mezzo, credo debba essere per chiedere la sincerità del nostro cuore. Abbiamo bisogno di essere sinceri. Non lo dico, anch’io, impunemente: provate a pensare che razza di peso sia il ripetere le cose che sono decisive per la vita di ognuno di voi, ma anche per la mia. Perciò, che noi abbiamo a chiedere allo Spirito di essere sinceri.

Discendi, Santo Spirito3

Come è bello ricantare certe parole! Certe frasi sono così umane, che ci prendono tutto: «Rinvigorisci l’anima / nei nostri corpi deboli».4 Forse, ognuno di noi è bene che riecheggi nel proprio cuore, personalmente, questa frase dell’inno che abbiamo cantato.
Perdonate se incomincio questa sera, come breve introduzione, dal pensiero di uno scrittore che non è un cristiano, ma è un uomo che ha talmente sofferto la ricerca della verità, che, a mio avviso, ha avuto il “Battesimo di desiderio” – come si diceva nei catechismi di tanti anni fa (totalmente ignorati adesso) –: «Non dobbiamo scuotere di dosso noi stessi, ma dobbiamo consumare noi stessi».5 Non dobbiamo scuotere di dosso noi stessi. Non c’è neanche uno qui presente che sia in circostanze tali – esteriori o interiori – che possa essere impedito dall’essere investito dallo Spirito, neanche uno. «Non dobbiamo scuotere di dosso noi stessi», dobbiamo andare al nostro destino, dobbiamo andare a Dio con quello che siamo. Ma poi dice: «Dobbiamo consumare noi stessi». Qui, la parola non illuminata dalla fede, dice una cosa grande, e vera, ma non del tutto vera: è troppo negativa, è triste per essere vera. Una madre, infatti, si deve consumare per il suo bambino, per i suoi bambini, ma non c’è figlio che non si ribelli al pensiero che quella donna si consumi per lui, nel senso che invecchi, si inaridisca e scompaia.
La nostra vita deve consumarsi: vale a dire deve servire; ma la parola «consumazione» non è l’ultima, non è adatta, meglio. Possiamo tradurre la frase, illuminati dalla fede, in questo modo: «Non dobbiamo scuotere di dosso noi stessi, ma dobbiamo convertire noi stessi». Non si tratta della consumazione delle nostre energie per uno scopo buono: Iddio, che conta anche i capelli del nostro capo, che pesa anche una parola detta per scherzo, per il quale ogni istante ha un significato di eternità, non vuole che nulla si perda e nessuno perisca, cioè si consumi. Non dobbiamo buttare via niente, toglierci di dosso niente, e non dobbiamo esaurire niente, ma dobbiamo convertire tutto.
Convertire: che cosa significa? Volgersi da un’altra parte. È come uno che sta parlando, si sente chiamato, e allora si volta. Ecco, questo è proprio il senso della parola «convertirsi»: si volta. Mentre prima stava lì a guardare, o a parlare, aveva un certo orizzonte; se si volta, ha un altro orizzonte. Non tutti i paragoni corrono; anzi, un paragone non corre mai con cento piedi, e neanche questo. Perché qui non si tratta di cambiare qualche contenuto dell’orizzonte: è tutto l’orizzonte della vita che cambia, è come se fosse un altro orizzonte. La conversione significa che le stesse cose hanno un altro volto, hanno un altro significato, hanno un altro valore, quindi hanno un altro gusto, implicano un altro modo di essere usate, e quindi hanno un’altra efficacia, un’altra utilità; la conversione riguarda questo tutto! E se abbiamo invocato lo Spirito perché ci renda sinceri – perché non ci faccia compiere questo gesto, così faticoso e pesante per la grande maggioranza di noi, senza sincerità –, questo vuol dire aver chiesto che ci renda spalancati nel desiderio di questa conversione, di questo cambiamento. Ma la parola cristiana è proprio «conversione», perché vuol dire voltarsi a uno, a uno che ti chiama. Allora, dicevo prima, tutto l’orizzonte cambia, cambia il contenuto di ciò che hai dentro gli occhi e quindi anche dentro il cuore.
Perdonate se leggo anche quest’altro pezzo un po’ strano, di un altro autore; quello di prima era Kafka, questo è il nostro Eliot. «Voi dite ch’io ripeto / Qualcosa che ho già detto prima. Lo dirò di nuovo. / Devo dirlo di nuovo? Per arrivare là...», vale a dire per arrivare dove sei stato destinato quando sei nato, che è ciò per cui tua madre è giusto e ragionevole che ti abbia dato la vita, «Per arrivare là, / Per arrivare dove voi siete...», perché noi siamo in Dio, la vita infatti non ce la diamo noi, neanche questo momento ce lo diamo noi, «Per arrivare là, / Per arrivare dove voi siete, per andar via da dove non siete...», per andar via dalla menzogna, dall’apparenza effimera, in cui crediamo che la consistenza delle cose stia, per andar via da dove non siamo, perché noi non siamo quello che appare, la nostra consistenza, la nostra solidità è in ben altro, è in Colui che ci dà la vita, «per andar via da dove non siete, / Dovete fare una strada nella quale non c’è estasi» – è tale e quale a quel che ha detto prima Kafka: dobbiamo fare un cammino nel quale non occorrono altre cose, cioè non dobbiamo scuoterci di dosso niente –. «Per arrivare a ciò che non sapete...», perché non conosciamo ancora Te, o Cristo, Dio che sei venuto per essere conosciuto, «dovete fare una strada che è quella dell’ignoranza»: bisogna che non pretendiamo già di sapere, perché quello che pretendiamo di sapere è niente, non c’è, è apparenza, cioè è menzogna. «Per possedere ciò che non possedete», perché non Ti possediamo ancora, Signore, «dovete fare la strada della privazione»: dobbiamo abbandonare qualche cosa; per possedere quello che non possediamo, dobbiamo abbandonare ancora qualche cosa. «Per arrivare a quello che non siete», perché non siamo ancora cristiani, «dovete andare per la strada nella quale non siete»: dobbiamo fare un’altra strada da quella che stiamo facendo! «E quello che non sapete», quello che non sappiamo ancora – Te, Signore, e la Tua strada! –, «è la sola cosa che sapete!», perché sappiamo che sei Tu, Cristo, via, verità e vita! Perciò quello che non sappiamo ancora, perché non lo viviamo, è la sola cosa che sappiamo. «E ciò che avete», i soldi, il lavoro, la salute, le persone amiche, «è ciò che non avete», perché ci possiamo perdere da un momento all’altro; non è lì, non è lì la questione; ho detto che non bisogna strapparci di dosso niente, perciò tutto è importante, ed è tanto più importante, quanto più è vicino, ma non è lì la questione: ciò che abbiamo bisogna guardarlo e sentirlo in modo diverso, cioè occorre una conversione. «E ciò che avete è ciò che non avete / E dove siete», dove veramente siete, «è là dove non siete». Dove veramente siamo? In Dio, in Cristo: nostro padre, nostra madre, e la donna e l’uomo e i figli e le cose, ma chi ce li ha dati? Dove sono? Cioè, dove sono piantati? Nelle nostre mani? Nel nostro volere? Nel nostro potere? No! «E dove siete è là dove non siete»;6 vale a dire, non ci siamo ancora, non siamo ancora coscienti che Cristo è la consistenza di tutto, come tante volte abbiamo già detto e ripetuto.
«Voi dite ch’io ripeto / Qualcosa che ho già detto prima. Lo dirò di nuovo.» Domani lo dirò di nuovo.
Ma siccome ho sentito che prima il canto del Discendi, Santo Spirito non era cantato se non da un terzo dei presenti, non vorrei che succedesse la stessa cosa, a maggior ragione, dell’inno, del bellissimo Inno di Quaresima, che noi abbiamo imparato dalle suore di Vitorchiano: Liberati dal giogo del male.7 Allora, cinque minuti prima della Messa, credo che possiamo ripassarlo. Liberati dal giogo del male è un bellissimo inno, che descrive quello che è il tempo liturgico della Quaresima, che è un ricordo: la Quaresima è un ricordo del lungo viaggio che gli ebrei hanno fatto per essere liberati dall’Egitto – che è il simbolo della schiavitù, del male, dell’alienazione, dell’esser schiavi, schiavi di altri che sono contro il nostro bene –; e hanno fatto quarant’anni nel deserto! La Quaresima è il ricordo di quel grande passaggio, che per ognuno di noi è diventato verità nel Mistero di Cristo, con la morte e la risurrezione di Cristo, con la Sua morte e la Sua risurrezione, con questo passaggio spaventoso e inconcepibile e fantastico di Dio, consistito nel diventare uomo, morire e poi risorgere. Questo passaggio sta alla radice della nostra persona e rende possibile la conversione a ognuno di noi, così che non c’è neanche uno fra noi che sia in circostanze tali – esteriori o interiori – che non possa cambiare.

Omelia

La liturgia di questa sera ci sospinge, senza por tempo in mezzo, a riprendere la parola con cui abbiamo voluto iniziare il cammino di questi giorni, vale a dire la parola conversione. «Torna, Israele, al Signore, tuo Dio», cioè vieni qui, convertiti, torna, cambia posizione, «perché tu hai inciampato in tutte le tue iniquità.»8 «Iniquità» vuol dire cose non giuste, pensieri non giusti, sentimenti non giusti, azioni non giuste, progetti non giusti, giudizi non giusti. Ma il Vangelo di oggi è uno di quelli dopo i quali non si ha più il coraggio di aggiungere parola, perché è chiaro e definitivo. Qual è il primo fra tutti i comandamenti? Qual è la prima formula di giustizia? «Ascolta, Israele», ascolta, uomo, «il Signore Dio nostro è l’unico Signore; Lo amerai con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutta la tua forza.» Il Signore è il cuore della persona e della vita, è il cuore della vita. Questa sarebbe, allora, la grande iniquità: che il Signore non sia il cuore della vita. È il cuore della vita, per me, per te, per noi, per la nostra famiglia, o per la nostra comunità, o per il nostro movimento? È il cuore della vita? «Cuore della vita» vuol dire che è tutto, che è il criterio di tutto, che è il punto da guardare sempre, che è ciò per cui si agisce, si fa; ciò per cui...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione di Julián Carrón L’amore di Cristo ci strugge
  4. Il cuore della vita - 1982
  5. Appartenenza e moralità - 1983
  6. «Io vi chiamo amici» - 1984
  7. Fonti
  8. SOMMARIO