Più forti del cancro
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Più forti del cancro

  1. 224 pagine
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Più forti del cancro

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Il cancro è la patologia cronica potenzialmente più prevenibile e più curabile: le cure e i farmaci oggi sono più efficaci e meno tossici, gli effetti collaterali sono più leggeri, e anche nei casi in cui la guarigione non è possibile la qualità di vita del paziente può essere migliorata. Nel 2017, in Italia, tre milioni e trecentomila persone vivono dopo una diagnosi di cancro, il 27 per cento in più rispetto al 2010, e oltre 900.00 sono i guariti. Nonostante tutto, però, il termine "cancro" ispira ancora paura: il linguaggio comune lo evita - ricorrendo a espressioni come "brutto male", "male incurabile" e via dicen- do - e troppo spesso la diagnosi viene vissuta come una vera e propria condanna a morte, dal paziente e da chi gli sta accanto. Per fare luce su queste paure Carmine Pinto, presidente nazionale dell'Associazione Italiana di Oncologia Medica, chiarisce una volta per tutte che cos'è il cancro e come può essere affrontato. La disponibilità di nuovi farmaci e di terapie sempre più mirate, infatti, è solo una parte degli sforzi che bisogna mettere in campo: altrettanto importanti sono gli aspetti psicologici del sostegno al paziente e ai familiari, dalla comunicazione della diagnosi alla scelta delle cure, e gli investimenti della società per aiutare economicamente le famiglie in difficoltà, ma anche la ricerca e i ricercatori, per finire con le questioni legate ai media e al proliferare delle cosiddette cure "alternative" che nel migliore dei casi sono inutili, ma che spesso sono anche dannose. Perché il cancro non è una malattia individuale: colpisce le famiglie e l'intera società. Per questo bisogna sapere come va la battaglia, e che cosa è necessario fare per vincere la guerra.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2017
ISBN
9788858691281
Argomento
Medicina

1

La paura conta

Se mi chiedeste come si previene e si cura il morbo di Alzheimer, quello di Parkinson o la sclerosi laterale amiotrofica, non saprei cosa dirvi. Nessuno sa indicare un modo, un farmaco, uno stile di vita che impediscano a un individuo di ammalarsi. Nessuno sa dare una risposta definitiva perché le cause che scatenano queste patologie per la maggior parte ci sono ancora sconosciute.
Ma se volete sapere se esiste una maniera per non far ammalare di tumore dei polmoni l’85% di coloro ai quali viene diagnosticato, allora posso rispondervi con un convinto sì: basta non fumare. Se siete curiosi di scoprire se esiste un modo per curarlo, posso rispondervi con un sonoro e altrettanto convinto sì.
Purtroppo la fama che il cancro si porta dietro da anni lo mette al primo posto nella classifica dei nemici pubblici. Pensateci. Cancro è una parola maledetta, solo sentirla nominare fa venire i brividi lungo la schiena. Perché? Dal punto di vista biologico il cancro è un’abnorme crescita cellulare, svincolata dai normali meccanismi di controllo dell’organismo,1 provocata da un danno al DNA in una cellula che, di conseguenza, inizia a comportarsi in modo anomalo. Ma dal punto di vista psicologico è come un fulmine a ciel sereno: nulla è più come prima della diagnosi di cancro.
È una patologia che ci fa ancora paura perché per molto tempo è stata considerata incurabile, e quindi associata ai concetti di morte e di sofferenza. Esorcizzare questa paura è tutt’altro che facile poiché il pregiudizio che la accompagna è così radicato che facciamo fatica a superarlo. I sinonimi che si usano al posto del termine «tumore» sono tra le parole peggiori di ogni lingua: brutto male, male che non perdona, flagello, killer silenzioso.
E il mondo dei media non aiuta, sembra preferire le perifrasi al suo nome. Ancora qualche giorno fa, al telegiornale, per annunciare la morte di un personaggio famoso, è stata usata la frase: «Si è spento per un male non curabile». Eppure oggi sappiamo che non è più così: dati alla mano, il cancro è una malattia dalla quale si può guarire.

Evoluzione di una malattia

In Italia è stato stimato che, nel 2017, vivono oltre tre milioni e trecentomila persone a cui è stato diagnosticato un tumore, pari a più del 5% della popolazione, e di queste novecentomila (pari al 27%) possono ritenersi guarite, ossia con un’attesa di vita paragonabile a quella di chi non è affetto da tumore.2 Come si vede, è una patologia che può essere curata bene, grazie a trattamenti di volta in volta più efficaci e sempre meno accompagnati da effetti collaterali e sequele. È di sicuro una malattia nella quale le sofferenze e i sintomi possono essere ridotti in maniera importante, non dico azzerati, ma certamente controllati in modo rilevante. Soprattutto per quanto riguarda il dolore.
Il cancro non è un raffreddore, ma il pessimismo che lo circonda è ingiustificato. Perché, come vedremo più avanti, nella nostra società c’è qualcosa di perfino più pericoloso e che miete un numero maggiore di vittime del tumore: le malattie cardiocircolatorie. Sono queste le prime cause di morte in Italia, eppure l’impatto emotivo e psicologico di una diagnosi di cancro è ancora considerato più forte rispetto a quello di una patologia che riguardi, per esempio, il cuore e il cervello. Forse, se fossimo tutti ben informati sullo stato delle cure oncologiche in Italia e su quello che ognuno di noi può fare per ridurre al minimo il rischio di ammalarsi, non saremmo così spaventati.
I progressi che la medicina ha fatto negli ultimi quarant’anni c’inducono a ritenere e a trattare il tumore come una malattia tra le tante che affliggono l’uomo. Perché, sebbene sia stato soprannominato «il male del Novecento», in realtà fa parte della storia degli esseri umani fin dalla loro comparsa. Il cancro è uno dei prodotti di un evento naturale indispensabile per l’evoluzione dell’uomo, ma, in generale, anche degli animali e dei vegetali, di un evento legato all’adattamento della specie all’ambiente circostante: le mutazioni e alterazioni del nostro patrimonio genetico. Migliaia di anni fa i nostri antenati non mangiavano le mandorle poiché quelle selvatiche erano amare e velenose. Con il passare del tempo le caratteristiche del mandorlo si sono modificate, tanto da trasformare il suo seme non commestibile nella mandorla che oggi riempie i confetti dei matrimoni.
La biologia dell’uomo ha percorso il medesimo tragitto. Da sempre, in maniera del tutto naturale, all’interno del nostro DNA si verificano mutazioni a livello dei geni. Alcune sono innocue, altre inutili, altre importantissime. È grazie ad alterazioni continue dal punto di vista genetico che siamo passati da essere ominidi, che vivevano ancora sugli alberi, a uomini sapiens. Alcune di queste mutazioni, però, sono tutt’altro che positive perché provocano dei danni. Sono maligne. Il nostro sistema immunitario, di solito, è in grado di eliminarle e riparare l’errore, ma non sempre ci riesce. Ed è in questo caso che alcune alterazioni diventano tumori.
Il primo ad aver usato la parola «cancro» è stato il greco Ippocrate, il padre della medicina, vissuto tra il V e il IV secolo a.C. In realtà, sappiamo che queste malattie affliggevano i nostri simili da tempo immemore. Tracce di tumore maligno, infatti, sono state trovate addirittura su un fossile del Paleolitico rinvenuto nel 2016 nel sito archeologico sudafricano di Swartkrans. Si tratta di un osteosarcoma in un osso del piede, un metatarso, di un ominide vissuto 1,7 milioni di anni fa. I paleoantropologi precedentemente avevano trovato tracce di una forma di tumore osseo anche sui resti della costola di un uomo di Neanderthal vissuto centoventimila anni fa nell’odierna Croazia.
Che i tumori fossero parte della vita quotidiana già dei nostri antenati ce lo raccontano alcuni papiri dell’Antico Egitto, tramite i quali i medici si tramandavano le scoperte e le cure testate sui pazienti. Per esempio, il papiro Edwin Smith, risalente all’incirca al 1650 a.C., riporta il resoconto di otto casi di tumore della mammella e delle sue ulcerazioni, che venivano curate con la cauterizzazione. In altri documenti troviamo descrizioni di tumori dello stomaco e dell’intestino. Sappiamo che Teodora, imperatrice di Bisanzio, è morta nel 548 d.C. per un tumore della mammella, così come Anna d’Asburgo, la mamma del Re Sole. E anche san Francesco d’Assisi e Gioacchino Rossini subirono la stessa sorte. La famiglia di Napoleone Bonaparte, come lo stesso imperatore, fu affetta da carcinoma gastrico.
Il cancro non è apparso all’improvviso un secolo fa, ma il dato che ci deve far riflettere è che, rispetto ai nostri avi, le donne e gli uomini moderni si ammalano molto più spesso. Perché se è vero che la causa è una mutazione genetica, è altrettanto vero che siamo noi, adottando stili di vita sbagliati e perseguendo cattive abitudini, oltre ai cambiamenti industriali e ambientali non controllati, a compromettere la nostra salute. Mentre all’epoca il fenomeno di alcune cellule che, durante il processo evolutivo, possono dar luogo ad alterazioni e provocare tumori era semplicemente un evento naturale, al giorno d’oggi, a forzare le mutazioni è intervenuta dall’esterno tutta una serie di noxae patogene, sia correlata alle attività produttive e industriali create dall’uomo – un esempio su tutti, l’impiego industriale dell’amianto – sia provocata dall’uomo stesso, come il fumo di sigaretta. In altre parole, abbiamo aumentato il numero di cause che possono provocare il cancro e, quindi, l’impatto della patologia stessa sulla società. Quello che possiamo fare è ridurre questo impatto e, di conseguenza, la probabilità di insorgenza dei tumori. Non è impossibile. Modificare le nostre abitudini richiede piccoli sacrifici, non imprese titaniche. Ne beneficiamo noi, ne beneficia la società. E anche il Sistema Sanitario Nazionale, che spende più per curare un ammalato di cancro che per educare la popolazione a vivere meglio. Segnali positivi, comunque, ce ne sono: tra gli uomini l’incidenza del tumore comincia a essere in calo, mentre nelle donne ha un andamento stabile, dopo una fase di crescita nel passato.3
Non avremo mai l’anno zero in cui il cancro scomparirà, perché, come abbiamo detto, fa parte della storia dell’uomo. Fin quando ci saranno esseri umani esisterà pure il cancro poiché, estremizzando il concetto, esso è correlato all’evoluzione della specie. Dobbiamo aggiungere, però, che oggi per fortuna abbiamo sempre più strumenti sia per evitare che la gente si ammali, attraverso forme di prevenzione primaria e secondaria, sia per affrontare la malattia in fase avanzata, grazie a nuove cure migliori ed efficaci che permettono di guarire e di sopravvivere più a lungo. Possiamo affermare, per esempio, che per gli undici-diciassette tumori più frequenti, la sopravvivenza a cinque anni per tutti gli stadi è superiore al 60%, ma raggiungiamo punte dell’85% per il cancro della mammella e del 90% per quello della prostata.

Un rapporto tutto da costruire

Evitare di demonizzare il cancro, considerandolo invece una malattia come tante altre, è il primo concetto che noi oncologi dobbiamo spiegare ai nostri pazienti. Ma non possiamo prescindere dalle paure di chi ci sta di fronte, sia esso il malato o un suo familiare. La paura conta. La diagnosi di cancro è come una bomba che deflagra in uno spazio piccolo. Come si può ben immaginare, è un momento drammatico, è una tegola che cade in testa all’improvviso, inattesa. La prima reazione, di solito, è chiedersi: «Perché a me?». Dopo subentra l’incredulità nei confronti di quello che sta accadendo all’interno del proprio corpo. Se la malattia è estesa, poi, il pensiero successivo non è più rivolto verso se stessi e la propria sofferenza, ma è nei confronti della famiglia, delle persone care, la cui pena è di poco inferiore a quella del malato. Per esperienza posso confermare che il momento della diagnosi è difficilissimo, anzi, il più difficile per il malato, ma devo ammettere che è critico anche il rapporto interpersonale tra medico e paziente.
È in quel momento che si crea un colloquio di fiducia reciproca: da una parte c’è chi deve comunicare la diagnosi, circostanza che, nonostante gli anni di esperienza alle spalle, è ancora un evento emotivamente doloroso, e dall’altra c’è una persona in difficoltà che si trova ad affrontare tutte insieme le criticità, le paure e le ansie per il futuro fino ad allora inaspettate. Dare la possibilità al malato di poterle esprimere e, allo stesso tempo, spiegare la malattia nella maniera più chiara e comprensibile sono due elementi fondamentali nel rapporto medico-paziente. Senza questi il passo successivo, cioè la condivisione di un programma di cure, rischia di essere un difficile percorso in salita. Perché le cure in molti casi possono portare alla guarigione, in alcuni possono prolungare la vita per molto tempo, in altri, purtroppo, possono solo limitare le sofferenze. Si tratta di ascoltare le preoccupazioni della persona che abbiamo di fronte e di aiutarla nelle scelte. Numeri e statistiche valgono poco se non vengono rapportati a ogni singolo caso. Nella visione più attuale che abbiamo, il medico oncologo non è quello che assiste semplicemente il malato nel periodo in cui si sottopone alla chemioterapia, all’immunoterapia o alla target-terapia, ma è presente dallo screening alla diagnosi, dalla terapia di supporto durante la cura alla riabilitazione che segue, fino all’accompagnamento nel fine vita con le cure palliative.
Al centro di tutto c’è comunque sempre il paziente. È da oltre trent’anni che l’oncologia dibatte sulla centralità del malato in ogni momento del viaggio che è stato costretto a intraprendere. Mettere il paziente al centro vuol dire ridargli in mano un ruolo decisionale che la famiglia e la medicina, pur con le migliori intenzioni, tendono a togliergli durante la malattia.4 Il primo passo è dire la verità, con i modi e i tempi che sono peculiari per ognuno di noi, ma non nascondere cosa sta succedendo, perché è importantissimo mettere la persona che sta male nelle condizioni di svolgere un ruolo attivo nel proprio percorso di cura, che dev’essere personalizzato e «misurato sulla persona».
Quando ho cominciato a fare questo lavoro, quasi trentacinque anni fa, i medici più anziani avevano l’abitudine di parlare di «macchie» davanti ai pazienti. «C’è una macchia sul fegato; abbiamo visto una macchia sul polmone; è una macchia formata da cellule impazzite» erano le frasi tipiche, neanche fossimo in lavanderia. Oggi, per fortuna, l’approccio è cambiato molto, a cominciare dall’importanza che viene attribuita ad alcune parole. Esorcizzare i termini cancro e metastasi non è un gioco semantico. Informare un paziente con tumore del colon che ha delle metastasi epatiche o polmonari che devono essere resecate non significa annunciargli la condanna a morte. Perché nel 20-30% dei casi otteniamo una guarigione completa.
Tutti gli anni, ormai da venti, ricevo un cesto di arance da un vecchio paziente che aveva un tumore del colon con metastasi al fegato. Allora, le aspettative di vita erano scarse, non avevamo a disposizione i farmaci che ci sono oggi. Io e i miei colleghi eravamo in dubbio sull’opportunità di sottoporlo o meno alla chirurgia dopo la chemioterapia perché la malattia era inizialmente estesa. Invece, grazie a un grande lavoro in équipe con il chirurgo, abbiamo asportato le metastasi ed è guarito. Un paziente con tumore del testicolo metastatico in quarto stadio può guarire grazie alla chemioterapia. Ricordo ancora un ragazzo arrivato in reparto quasi in coma che ha avuto una ripresa eccezionale. Anche lui torna spesso a trovarci per farci sapere che sta benissimo. Certo, ancora oggi molte storie non sono «a lieto fine» come questa e, purtroppo, si registrano ogni anno centosettantamila morti per tumore nel nostro Paese. La presenza di metastasi, non mi stancherò mai di ripeterlo, non è sinonimo di impossibilità di cura.
Dobbiamo avere il coraggio di dar forza alle parole per avere un rapporto chiaro e lineare con il paziente, senza nascondergli nulla, perché ogni paziente ha il diritto di gestire la propria vita come meglio crede. Nel passato ho avuto anch’io la mia buona dose di mariti, figli, mamme che si presentavano nel mio studio prima della visita del proprio congiunto pregandomi di nascondere la diagnosi o comunque di non soffermarmi troppo su certi aspetti. Fortunatamente oggi avviene molto meno, ma anch’io, con la maturità della mia professione, ho imparato – e l’esperienza può insegnarlo – a saper gestire la verità che il paziente è capace di sopportare. Che non vuol dire mentirgli. Si tratta, più che altro, di un gioco di bilanciamento, le cui regole si imparano all’inizio, quando si instaura il rapporto. Perché, in definitiva, ognuno ha un livello di verità che può sopportare, ed è quello che noi medici dovremmo avere la capacità di recepire.
La prima domanda che rivolgo ai malati che arrivano qui in ospedale con diagnosi già fatte è: «Che cosa ha compreso della sua malattia?». La seconda è: «Che cosa le hanno detto?». Spesso il paziente ha una conoscenza molto più profonda della sua malattia di quello che noi pensiamo, ha quasi sempre ben recepito il motivo per cui è ricoverato. Non che questo faciliti il dialogo. Anzi.
Alcuni anni fa, a un collega con cui lavoravo da tempo è stato diagnosticato un tumore del polmone. Era un microcitoma, una neoplasia5 infida che, sappiamo, risponde a una o due linee di chemioterapia e poi si ripresenta. Eravamo arrivati, già dopo l’iniziale risposta alla cura, a una quarta linea di terapia con una malattia clinicamente in progressione. Pur essendo un medico, gli risultava impossibile capire che non c’era più nulla che la medicina potesse fare per fornirgli un miglioramento sostanziale, e il coinvolgimento personale rendeva difficile a noi dare risposte, trovare il momento giusto per dire basta. Negare l’evidenza, illudersi, dare interpretazioni poco basate sui fatti sono forme di autodifesa per il paziente che il medico deve imparare a gestire. Non c’è una ricetta infallibile su come fare, ogni caso è a sé stante. In questo senso è fondamentale coinvolgere i familiari. Una diagnosi di cancro, come un uragano inaspettato, travolge anche la loro vita. Avere attorno una rete di sostegno informata e coinvolta fa una grande differenza, aiuta anche il medico a prendersi cura del suo assistito.
Negli anni ho imparato ad ascoltare i miei pazienti, a comprendere cosa cercano con le domande a raffica che pongono, cosa c’è dietro la loro paura. Ho imparato dalla loro esperienza ad affinare la mia. Un grande aiuto me l’ha dato un amico, Sandro Bartoccioni, cardio-chirurgo di fama internazionale. Aveva un tumore gastrico che all’inizio rispondeva bene alle cure, nell’ambito di un nostro studio sperimentale che prevedeva, per la prima volta in questa patologia, l’introduzione di un farmaco biologico. Era molto preciso nel raccontarmi i dettagli di ciò che sentiva, di quello che provava come medico che passa dall’altra parte. Mentre era sotto terapia stava scrivendo la sua storia, che poi è diventata un libro, Dall’altra parte.6 I colloqui avuti con lui, e la lettura, in seguito, del suo libro sono stati un insegnamento importante, un modo molto interessante di capire, in maniera più approfondita, la mia professione. Perché lui, come medico, riusciva a spiegarmi tutte quelle sfumature che a volte sfuggono e che solo una persona con lo stesso grado di conoscenza è in grado di trasmettere. Mi ha aperto gli occhi su alcuni aspetti che non avevo considerato abbastanza e credo che mi abbia reso un dottore migliore.
Ho imparato a rispettare le volontà dei malati, anche quando non ne condivido appieno le scelte. Ci sono momenti, durante una cura, in cui ci si trova di fronte a diverse opzioni, si può andare in una direzione o in un’altra. Molto dipende da cosa si è disposti a sopportare, perché è vero che oggi le terapie funzionano meglio e sono più valide, ma non siamo riusciti a eliminare tutte le tossicità e gli interventi chirurgici demolitivi. Ci sono trattamenti per il tumore della mammella più efficaci di altri, ma sono anche quelli che fanno perdere i capelli. A volte, trovarsi di fronte alla risolutezza di una donna che, pur decidendo di curarsi, non vuole perdere i capelli, obbliga a cambiare i programmi.
Credo sia importante riuscire a rispettare la scelta altrui, anche se non è la migliore a livello terapeutico, perché vuol dire comprendere ciò che è più importante per il paziente in quel momento. In passato c’era chi non riusciva a capire che qualità e quantità non devono, e non possono, essere scisse. È un fenomeno naturale di maturazione e di crescita per un medico che dura anni. La difficoltà è spiegarlo ai giovani dottori che si trovano nella situazione di imparare a vedere subito il malato nella sua interezza, compresi i valori che per lui, in quella circostanza, sono importanti.
Non potrò mai dimenticare una mia paziente, una giovane mamma divorziata. Aveva un grosso tumore intestinale. All’inizio non lo aveva espresso chiaramente, ma avevo intuito che più della chemioterapia, della sofferenza fisica o dell’idea della morte, il suo vero cruccio era per il figlio: che cosa sarebbe stato di lui, dopo? Non era abituato a trascorrere molto tempo con il padre, e la preoccupazione della donna era che il bambino rimanesse solo accanto a una persona che conosceva poco. I suoi sforzi erano tutti concentrati nella gestione della costruzione di questo rapporto padre-figlio. Non aveva tanto tempo, non c’era molto che potessimo fare per lei se non fargliene guadagnare un po’ di più per permetterle di aiutare il suo bambino. Era questa l’unica cosa davvero importante. Con me parlava soprattutto del suo legame con il figl...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Più forti del cancro
  4. Introduzione
  5. 1. La paura conta
  6. 2. Le nuove strade della cura
  7. 3. Se è troppo bello, non è vero
  8. 4. Verità e bugie della prevenzione
  9. 5. Come ci si cura in Italia
  10. 6. I numeri del cancro
  11. Postfazione
  12. Note
  13. Indice