La guerra tra noi
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La guerra tra noi

  1. 182 pagine
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La guerra tra noi

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"Sul molo c'è un uomo in pantaloni scuri, panciotto e cravattino. Ci corre incontro sorridendo. È molto orgoglioso del suo completo elegante. Ha tre anni, forse quattro." Prima di sbarcare, in Sicilia, insieme ad altre trecento persone, si è cambiato d'abito. Lo fanno in tanti, racconta Cecilia Strada: si mettono il vestito buono "per presentarsi nel modo migliore alla fine del viaggio, al Paese che li accoglie." Facce come questa l'autrice però le ha già incontrate "a casa loro", in Afghanistan, in Sudan, in Iraq; ha visto troppe ferite per non immaginare il peggio dietro gli occhi persi nel vuoto di donne e uomini sopravvissuti a malapena sulle navi di soccorso. Tutta l'informazione parla di emergenza migranti, ma a che serve dare la colpa del nostro impoverimento a chi fugge dalle bombe o dalla miseria? Dalla lunga estate del G8 di Genova e delle Torri gemelle sono passati oltre quindici anni di guerra. Oggi guardiamo a Parigi, a Londra, a Barcellona, e siamo tutti più terrorizzati, nonostante l'impegno e i soldi investiti per la nostra sicurezza. Che cosa è andato storto? Cecilia Strada cerca le risposte nelle storie che lei stessa ha vissuto in prima in persona. Ne uccide più la guerra o la corruzione, in Afghanistan come in Italia? Che cosa collega le nostre tasse a un vigile urbano in Afghanistan che viene ricoverato sette volte per ferite da arma da fuoco? Chi ci guadagna a testare nuove armi in terra sarda e quanto invece costa ai cittadini che pagano il conto in salute? Infine, cos'è la sicurezza che desideriamo tutti, italiani e iracheni? La si potrà ottenere con altra guerra? Ed è ragionevole immaginare che il sistema della guerra possa essere mutato proprio da coloro che ne traggono vantaggio?

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2017
ISBN
9788858691755
Argomento
Storia

1

Sono una ragazza fortunata. Nella mia vita ho avuto veramente paura soltanto due volte. Una è stata nel 2004 a Falluja. L’altra a Genova nel 2001. Nel primo caso è durata qualche ora, nel secondo invece non è ancora passata. Quel particolare tipo di terrore che provi quando ti trovi a scappare dal tuo Stato, a nasconderti da chi ti dovrebbe proteggere, non si dimentica in fretta.
Sabato mattina, squilla il telefono: «Mamma». Sento che ha il fiato corto, la voce tesa: «Cecilia». Non mi chiama mai così. «Papà dice di andare im-me-dia-ta-men-te da lui. È arrabbiato, dice che la situazione è seria e ti vuole lì. Subito.» Sono vicina, in realtà, nemmeno un chilometro in linea d’aria mi separa da mio padre. C’è solo un problema. «Mamma, come ho detto anche a lui poco fa, sto cercando di raggiungerlo. Sono a pochi minuti da dove sono loro, oltre il ponte. Purtroppo sul ponte c’è la guerra, e non mi ci posso buttare in mezzo. Quando riesco, vado.» Dall’altra parte sento la televisione accesa, starà seguendo le immagini in diretta. Io guardo il ponte davanti a me: sirene, urla, fumo. «Ho capito. Appena puoi, vai da lui.» Ora è dolce. «Preferisco sapere che siete insieme.»
Arrivo a Genova il mercoledì pomeriggio, nemmeno il tempo di comprare il giornale nella piazza della stazione Principe e vengo fermata da un sorridente e fascinoso agente in borghese. Domande di rito, documenti, controllo dello zaino. «Studentessa di sociologia: Trento?» La domanda mi sembra anacronistica, è passato molto tempo da quando l’Università di Trento era un covo di sovversivi, o no? Sorridiamo entrambi quando rispondo: «Milano». Sfoglia i taccuini che ho tirato fuori dalla borsa e io penso: oh, no, gli appunti su al-Qaeda, ma lui e i suoi colleghi passano oltre, per niente incuriositi. Il fatto che il mio compagno di viaggio sia un giornalista li turba di più. «Facciamo due controlli.» Passano più di mezz’ora e un mucchio di macchine della polizia. «Che cosa abbiamo?» «Una studentessa di sociologia.» «Trento?» «No, Milano. E un giornalista.» Deve essere giornalista la parola magica, visto che le auto si fermano tutte. Perché questo controllo senza senso, perché questa seccatura e questa perdita di tempo per tutti? Magari solo perché sia, appunto, una perdita di tempo e una seccatura. Alla fine dei misteriosi controlli salutiamo con cortesia una dozzina di agenti.
Dalla piazza della stazione scendiamo verso la zona rossa, l’area del porto e il cuore della città, dedicata agli eventi del G8 e blindata al resto del mondo. Solo i residenti possono entrare, mostrando i documenti ai varchi sorvegliati. Non tutti i genovesi ne sono felici. Nelle settimane precedenti si sono susseguite le notizie, le ordinanze, le voci, le dichiarazioni. Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha invitato la popolazione alla buona creanza e al decoro: Zona rossa, vietato stendere la biancheria avevano titolato i giornali. «Io stenderò le mutande e lo farò apposta» ha dichiarato un’anziana signora a un giornalista, e io mi sono sciolta di tenerezza. Camminando guardo i balconi e a ogni bucato sorrido di partecipazione. Poi magari per qualcuno è un fatto domestico e non un gesto politico, ma quei panni stesi mi rendono allegra lo stesso. Un’altra delle assurdità di Palazzo Chigi, ci diciamo, è la storia del pesto: niente aglio per i commensali del club dei potenti, non piace al capo e rende l’alito cattivo. Io e il mio compagno incontriamo un ragazzo con un cesto di paglia pieno di teste d’aglio e di spille: «Ne stavamo parlando ora!». Sulle spille campeggia il motto GARLIC FOR PEACE. «Domani andiamo a distribuire l’aglio ai checkpoint della zona rossa. Vuoi una spilla?» Grazie. Ci fermiamo a chiacchierare con lui e quando riprendiamo i caruggi è quasi buio.
Checkpoint. Io li ho conosciuti in Pakistan, per me sono un simbolo di guerra, quand’è che il mio Paese è diventato un posto da checkpoint? La città si è ormai svuotata. Giro l’angolo, in piazza ci sono i carri armati. Quando siamo diventati una nazione che schiera i carri armati? Avvicinandosi alla zona rossa si inizia a sentire il rumore delle saldatrici, giro un altro angolo e i militari sono lì che chiudono la città. Saldano grandi cancelli di ferro, sigillano i tombini. Silenzio, solo il bagliore e il suono della fiamma ossidrica. Non sembra più Genova, sembra un film di fantascienza. Un po’ Blade Runner, un po’ Brazil. Io ho i sandali e un gilet con gli specchietti di cui sono molto orgogliosa, loro la tenuta antisommossa. Penso alle mutande stese come sfida a ordine e censura. L’aglio contro le macchine del potere. Un po’ fa ridere, ma c’è qualcosa che dà i brividi. Qualcosa di profondamente sbagliato.
Il giovedì inizia il Social Forum, le giornate organizzate dalla più grande coalizione di associazioni pacifiste che si oppongono alla globalizzazione dello sfruttamento e della disuguaglianza. Hanno tanto da dire, è cittadinanza attiva che vuole usare la propria voce per denunciare la china che il mondo sta prendendo all’inizio di questo nuovo millennio e provare a raddrizzare, almeno un po’, le storture in cui stiamo precipitando.
Il fatto che il 20 per cento della popolazione mondiale consumi l’83 per cento delle risorse disponibili sul pianeta. Che questo modello di sviluppo non sia sostenibile, che le politiche di privatizzazione e delocalizzazione stiano distruggendo economia e tessuto sociale.
Sono emozionata, ho molte aspettative sul Social Forum e quel giovedì è proprio come speravo. E poi c’è il corteo dei migranti, colorato e bellissimo, c’è la focaccia al formaggio e dividere una birra con gli sconosciuti. Vado a dormire stanca e parecchio contenta.
Il venerdì dovrebbe essere ancora più ricco di idee, notizie e proposte, incontri nelle piazze tematiche o riflessioni in cammino nei tanti cortei che devono costellare la città e avvicendarsi nel corso della giornata. Felici e convinti di poter cambiare le cose, galvanizzati dall’energia che si respira, la mattina trascorre liscia. Parliamo del militarismo e dell’escalation della violenza, mettiamo in guardia contro la deliberata diffusione di razzismo e xenofobia, la corruzione degli uomini d’affari e dei politici, sosteniamo la necessità di «misurarsi con la povertà, le discriminazioni, il dominio e la creazione di una società sostenibile alternativa» per ottenere pace e sicurezza. In quei giorni – e in quelli successivi, le citazioni vengono dal documento di Porto Alegre del 2002 – siamo in tanti a dire e pensare queste cose. È già un po’ tutto lì, l’elenco delle urgenze da affrontare per provare a sistemare il casino in cui anche gli stessi signori del G8 ci stanno facendo avvitare. Alla richiesta di affrontare questi temi però il mio Stato risponde a calci e pugni, idranti e manganelli. Il pomeriggio di venerdì diventa infatti il massacro insensato di persone disarmate e inermi. A una carica della polizia sul corteo ne segue un’altra e poi un’altra e un’altra ancora. Al confronto sui contenuti, il governo oppone la violenza.
Schema riassuntivo dei temi del Social Forum e le relative risposte del governo:
Chi afferma che «povertà e insicurezza portano anche alle migrazioni e a milioni di esseri umani a cui sono negati la dignità, la libertà, i diritti» → pestati come cotolette.
Chi addita «la concentrazione della ricchezza e la proliferazione della povertà» → ossa rotte.
Chi protesta contro la «riduzione permanente dei diritti di lavoratori e lavoratrici» → trauma cerebrale.
Quelli che indicano come punto di attenzione le «cure sanitarie per i più poveri» → contusioni e tanta paura.
Suore che invocano «un altro mondo possibile» → manganellate.
Tutto va a rotoli. Le forze dell’ordine caricano senza criterio, poi non sanno o non vogliono gestire il caos che loro stessi hanno creato. Cominciano a diffondersi le voci: è morto un ragazzo spagnolo, forse anche una ragazza, è morto un carabiniere. Confusione, scontri, sangue sulle strade e persone terrorizzate ovunque. Alle cinque e mezza un ragazzo di ventitré anni viene colpito in testa dalla pallottola esplosa da un carabiniere su una camionetta, camionetta che poi passa due volte sopra il suo corpo a terra. Si chiamava Carlo Giuliani.
La notizia dell’uccisione di un ragazzo in piazza Alimonda e delle centinaia di persone pestate per nulla arriva in fretta a chi è rimasto a casa. Chi ha snobbato il Social Forum, chi ha rinunciato a malincuore per altri motivi, chi ha preferito non muoversi dopo mesi di propaganda della paura e di «al G8 scappa il morto». Dopo quel pomeriggio di sangue in tanti cambiano idea e decidono che bisogna esserci, così improvvisano il viaggio e arrivano per la manifestazione del sabato mattina. Quello è il giorno in cui il governo sceglie di confermare a un pubblico ancora più ampio la repressione del venerdì: «Sì, avete capito bene, lo Stato di diritto è sospeso». Giù altre botte su una folla disarmata. Alla fine del G8 si conteranno più di cinquecento feriti. Il sabato sera i treni e i pullman ripartono carichi di gente sporca, scioccata, insanguinata.
Io resto a Genova. La mamma vorrebbe che tornassi a casa, ma io ho bisogno di parlare con chi è rimasto, di elaborare insieme quello che è successo. Poi di fare un salto al mare, se ci riesco, e lavare via questo schifo di dosso prima di rientrare a Milano. La domenica all’alba, però, a svegliarci è un messaggio sul telefono del mio compagno: ALLA DIAZ HAN FATTO UN CASINO. I giornalisti stanno correndo dietro ai feriti che vengono portati negli ospedali, si sa solo che c’è stato uno sgombero. Violento. Un casino. Quando arriviamo ci sono poche persone. Entriamo nella scuola e iniziamo a girare. C’è silenzio, ma il caos e le macchie di sangue parlano da sole. Come quando guardi un ferito colpito da una bomba e gli leggi addosso la sua storia, se era vicino all’esplosione, se era lontano, se era inginocchiato, se ha calpestato o afferrato qualcosa, oppure se la bomba ce l’aveva in mano e guarda come non si è ferito qui e qui: questo è lo stronzo che la bomba la stava preparando, ci scommetto.
Entrando alla Diaz, la prima cosa che vedo è il disordine. La seconda è un calorifero con una macchia grossa, rossa, rotonda. Qui è dove qualcuno ha sbattuto la testa di qualcun altro sulla ghisa? Ci sono poche altre persone che si aggirano come me, siamo tutti zitti. A un certo punto sentiamo una musica, la seguiamo e troviamo un ragazzo che si è messo a suonare il pianoforte. Il piano è scordato, attorno c’è il caos. Quando si ferma e ci guarda, è come se ci avesse dato la sveglia. Ci scambiamo un’occhiata, ci rendiamo conto di essere sulla scena del crimine. «Non dovremmo stare qui. Stiamo calpestando le prove. Dovremmo uscire e aspettare che arrivi il magistrato oppure chiamare...» «Chiamare chi, la polizia? È la polizia che ha fatto questo macello.»
Verso sera riparto. Che cosa ho messo in valigia di ritorno da Genova?
La spilla di GARLIC FOR PEACE e quel che resta di una sciarpa, un krama verde preso in Cambogia; l’ho fatto a pezzi il venerdì per dividerlo con gli amici in un momento di nebbia da lacrimogeni. La consapevolezza di essere una ragazza molto, molto fortunata perché a Genova ho sfiorato diverse volte le botte ma non le ho mai prese. I momenti in cui mi sono schiacciata contro i muri con le mani alzate sperando di essere risparmiata da una carica, il trrrr dei portoni che i genovesi aprivano per farci riparare nell’androne (grazie).
E soprattutto ho infilato in valigia gli appunti e le parole d’ordine dei due giorni del Forum. Li rileggo oggi, dopo tutti questi anni. Toh, i problemi sono sempre quelli. Che novità, visto che nessuno si è applicato a risolverli. Certo, non potevamo aspettarcelo dagli stessi governi che erano parte del problema. Dagli stessi che in quei giorni di luglio hanno dato ordine di massacrare i cittadini mentre mangiavano il pesto senz’aglio.
Eppure sarebbe stato bello provare a sciogliere quei nodi allora. Magari non saremmo arrivati nel 2017 così.

2

Provincia di Helmand, profondo Sud dell’Afghanistan. È tra le regioni che della guerra ha pagato il prezzo più alto: record di soldati britannici morti, record di vittime civili e record di perdite tra i militari afghani. Nota per la qualità delle coltivazioni di papavero da oppio: nonostante o grazie agli ultimi quindici anni di guerra al narcotraffico, dal 2001 a oggi la regione di Helmand ha raddoppiato la sua produzione, diventando il principale fornitore al mondo di materia prima per l’eroina.
Il capoluogo della provincia si chiama Lashkar-gah e sorge dove il fiume Arghandab incontra il fiume Helmand, il più lungo dell’Afghanistan. A Lashkar-gah ci sono il palazzo del governatore e duecentomila abitanti, a cui si deve aggiungere un numero variabile di famiglie che si ammassano qui quando sono costrette a scappare dalle loro case perché i combattimenti dilagano nelle campagne e nei villaggi. Vicino al fiume c’è l’ospedale di Emergency, un cubo bianco immerso in un grande giardino. Lashkar-gah è quel posto dove capita di ricoverare un bambino di tredici anni che conosci già perché è la seconda volta che gli sparano. «Non è un caso raro, purtroppo» mi dice Dimitra. Greca, infermiera, un metro e cinquanta per cinquanta chili, dirige il Centro chirurgico di Emergency in questa regione difficile. I duecento e passa colleghi afghani nutrono per lei un misto di profondo rispetto e visibile paura. «Mister Dimitra» la chiamano, e se arrivi al punto di essere convocato nel suo ufficio sono guai. «Mi ricordo una bambina di sette anni, al suo secondo ricovero. A volte riconosci i pazienti perché hanno le cicatrici dei punti di un doppio drenaggio toracico, come li mettiamo sempre noi.» Ci pensa un attimo. «Il record però è sicuramente quello del poliziotto.» Lashkar-gah è quel posto dove un poliziotto può essere ricoverato sette volte per ferite da arma da fuoco: gli hanno sparato mentre faceva il suo lavoro in sette diverse occasioni.
Durante una pausa ci sediamo in uno degli uffici dell’ospedale. Parliamo dei feriti, della situazione nella regione, dei combattimenti nei villaggi, dei frequenti rapimenti a scopo di estorsione, anche di bambini, del futuro che – se c’è – non si vede. La khola, una delle signore che tengono in ordine gli uffici, ci porta un tè forte accompagnato da pistacchi, mandorle e uvette. Dimitra mi presenta i colleghi che ancora non conosco: «E lui è stato anche in Australia, vero Samandar? È il nostro viaggiatore» sorride. Come, in Australia? Le spiagge australiane sono così lontane dal deserto che circonda questa città.
Samandar è alto, i suoi occhi brillano, sorride. «Sì, sono andato in Australia: quando sono scappato da qui» racconta. «È successo mentre facevo la scuola infermieri. I talebani giravano di casa in casa e chiedevano un maschio per ogni famiglia da arruolare, da portare via e addestrare a combattere. Hanno preso me.» Beve un sorso di tè, piglia una manciata di mandorle. «Ci hanno chiusi tutti in un posto, me e gli altri ragazzi, e ci hanno lasciato lì tutto il giorno. Mio zio è andato a parlare con il commander per implorarlo di non portarmi via, dovevo finire la scuola... Ha insistito, per ore. Alla fine il commander si è convinto e mi ha mandato a chiamare. Io gli ho promesso che finita la scuola sarei andato a combattere e così mi ha liberato.»
Un mese dopo Samandar scappa. Il primo confine che attraversa è quello pachistano. Lì compra un visto e un biglietto aereo per la Malesia. Dalla Malesia e senza più documenti arriva in barca in Indonesia, poi fino alle acque australiane dove viene intercettato: dice chi è, racconta che sta scappando dai talebani. Chiede asilo.
«Che viaggio! Che anno era?» Riempiamo le tazze di tè, la khola entra portando un piatto di frutta fresca, tagliata con cura. Oltre che per l’oppio, la regione dell’Helmand è nota per la qualità dei suoi meloni. «Ti ricordi quando un aereo ha colpito il Pentagono?» Il 2001, direi. «Brava. La nave che ci ha raccolto nelle acque australiane, però, ci ha trasferiti direttamente su un’isola. Che era... Come posso spiegartelo? Ventun chilometri quadrati di niente.» L’isola è quella di Nauru, Repubblica indipendente dal 1968, ventun chilometri quadrati di miniera di fosfato e basta. Il 9 settembre 2001 il governo australiano e Nauru hanno firmato un accordo: l’isola si sarebbe trasformata in prigione a cielo aperto permettendo all’Australia di deportare lì tutti i migranti che cercavano di entrare via nave nel Paese. In cambio l’Australia ha elargito più di venti milioni di euro in assistenza allo sviluppo, fondi per la desalinizzazione dell’acqua, borse di studio e altri regali. I diecimila abitanti di Nauru hanno iniziato così a veder sbarcare i richiedenti asilo, che nei primi tempi sono stati alloggiati in grandi tende bianche e verdi. Vista mare.
«Dopo un anno ero ancora lì, su una roccia in mezzo all’oceano e con niente da fare tutto il giorno. Eravamo annoiati a morte.» Per un momento Samandar guarda fisso davanti a sé. «Ci davano da mangiare. Non mi hanno mai picchiato, non dico questo, ma mi sembrava di impazzire. Non sapevamo quanto sarebbe durata ancora. Ogni tanto arrivava un funzionario per chiedere se qualcuno avesse intenzione di tornare volontariamente in Afghanistan... Alla fine io e un mio amico abbiamo alzato la mano.»
La detenzione dei naufraghi, quasi tutti richiedenti asilo, era un caposaldo del piano Pacific Solution per contrastare l’immigrazione illegale. La soluzione australiana per quegli uomini, donne e bambini che come Samandar scappavano dall’Afghanistan, dallo Sri Lanka, dall’Iraq o dal Pakistan e chiedevano asilo è stata semplicemente questa: confinarli entro ventun chilometri quadrati di roccia.
Prima di conoscere Samandar non sapevo quasi nulla delle politiche dell’Australia sull’immigrazione. Quando lo saluto, in questa città polverosa distante anni luce dall’oceano australiano, mi riprometto di approfondire la questione. Da oggi in poi non leggerò mai più le notizie dal Pacifico con gli stessi occhi. Non è più un oceano distante e sconosciuto, quello che solcano i migranti in Asia, è qualcosa che mi è molto più vicino.
A casa studio meglio la vicenda: mi dà i brividi. I naufraghi arrivati in acque australiane alla fine del 2001 hanno ricevuto una risposta alla loro richiesta di asilo dopo tre anni di reclusione nel campo di Nauru, dopo scioperi della fame e bocche cucite con il filo da pesca. Erano per la maggior parte persone in fuga dalla violenza dei talebani, dalle bombe della Nato, dalla guerra, dalla povertà. Si sono trovate prigioniere su un fazzoletto di terra, senza futuro. I rapporti delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani documentano le loro condizioni all’interno del campo: «Sistematici abusi. Mancato accesso alle cure mediche, anche quando in pericolo di vita. Disturbi mentali e da stress post-traumatico, frequenti episodi di autolesionismo e tentativi di suicidio». Che cos’altro ci si può aspettare quando si lasciano per anni uomini, donne e bambini in quello stato? E perché succede? È solo un effetto collaterale dell’incompetenza e del cinismo? Oppure è frutto di una precisa strategia? Costruire un inferno tale da farti scegliere di tornare verso quello da cui sei scappato. Rimpatrio volontario, come quello di Samandar: la soluzione migliore per il governo australiano. Un richiedente asilo in meno da gestire, che permette anche di giustificarti: «È lui che se n’è andato».
Tra le tante storie di questa vergogna in mezzo al mare mi colpisce quella di Mohammad, un bambino della minoranza afghana sciita degli Hazara. Aveva dieci anni quando è arrivato su una nave, nel novembre del 2001: «Quando ci hanno porta...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La guerra tra noi
  4. Oggi
  5. 1
  6. 2
  7. 3
  8. 4
  9. 5
  10. 6
  11. 7
  12. 8
  13. 9
  14. 10
  15. 11
  16. 12
  17. 13
  18. 14
  19. 15
  20. Domani
  21. Ringraziamenti