Diana
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La vera storia dalle sue parole

  1. 368 pagine
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Diana

La vera storia dalle sue parole

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La vera storia della principessa Diana, così come lei aveva deciso di raccontarla. Contro un uomo e il suo Regno, per se stessa e il suo popolo. Nella gabbia dorata della sua vita Diana stava soffocando. Circondata da menzogne e inganni, e dal disprezzo dei sovrani d'Inghilterra che giudicavano la sua tristezza solo l'imbarazzante seccatura di una visionaria, la principessa di Galles escogitò un modo per raccontare la sua verità: di nascosto dal marito e dai reali Diana riuscì con ingegnosi sotterfugi a far arrivare i nastri con le sue sconcertanti rivelazioni a uno tra i migliori giornalisti investigativi britannici. Andrew Morton si ritrovò così tra le mani le parole della principessa stessa che, per la prima volta, raccontava la verità dietro la facciata fiabesca in cui tutto il mondo desiderava credere. In questo libro eccezionale Morton pubblica le registrazioni di Diana a lungo segrete, per riconsegnarci il ritratto onesto e scevro da pregiudizi di una delle figure femminili più amate, ammirate e influenti del nostro tempo: un fidanzamento acerbo, un matrimonio pieno di ombre, i disordini alimentari, i tentativi di suicidio, l'indifferenza del futuro re, i sospetti su Camilla che diventavano certezze, la separazione... La vera storia di lady Diana Spencer si conclude in modo tragico e improvviso, ma la sua eredità dura ancora oggi grazie a questo libro: nelle parole di una donna che era diventata principessa, ma desiderava soltanto essere amata.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2017
ISBN
9788858690406

1

«Sarei dovuta essere un maschio»

Era un ricordo indelebile inciso nel suo cuore. Diana Spencer sedeva tranquilla ai piedi della fredda scalinata in pietra della sua casa nel Norfolk, aggrappata alla ringhiera di ferro battuto, mentre tutt’intorno c’era un certo scompiglio. Sentiva suo padre caricare le valigie nel portabagagli di un’automobile, mentre Frances, sua madre, faceva scricchiolare sotto i piedi la ghiaia del piazzale. Poi udì il rumore sordo della portiera sbattuta e quello di un motore acceso: sua madre era seduta al volante, si stava dileguando lentamente e stava uscendo dai cancelli di Park House e dalla sua vita. Diana aveva sei anni. Un quarto di secolo più tardi, riusciva ancora a vedere con gli occhi della mente quella scena e a rievocare la dolorosa sensazione di rifiuto, di tradimento e di isolamento che la rottura del matrimonio dei suoi genitori aveva provocato in lei.
Forse le cose andarono diversamente, ma questa era l’immagine che Diana portava dentro di sé. C’erano tante altre istantanee della sua infanzia che le affollavano la memoria. Le lacrime della madre, i malinconici silenzi del padre, le numerose bambinaie che mal tollerava, l’incessante litigare dei genitori, le lamentele di suo fratello Charles che si addormentava singhiozzando, il senso di colpa per non essere nata maschio e l’idea costante di essere una «seccatura» che i suoi si trovavano tra i piedi. Diana avrebbe desiderato ardentemente abbracci e baci; le veniva dato, invece, un catalogo del negozio di giocattoli Hamleys. In questi suoi anni giovanili non le mancò nulla di materiale, ma tutto sul piano affettivo. «Proviene da un ambiente privilegiato, ma ha avuto un’infanzia molto difficile» affermò il suo astrologo Felix Lyle.
L’Honourable Diana Spencer nacque nel tardo pomeriggio del primo luglio 1961. Era la terza figlia del visconte di Althorp, che allora aveva trentasette anni, e della viscontessa di Althorp, di dodici anni più giovane di lui. Pesava tre chilogrammi e mezzo e, sebbene suo padre esprimesse la sua gioia per la «sana e robusta costituzione fisica» della bambina, in famiglia nessuno nascose la sensazione di delusione, se non di vero e proprio disappunto, per il fatto che la nuova arrivata non fosse l’erede maschio lungamente atteso che avrebbe assicurato la continuità al nome degli Spencer. Tale era stata l’attesa di un maschio che la coppia non aveva preso in considerazione alcun nome femminile. Una settimana dopo la nascita, i genitori si accordarono per Diana Frances, come la madre della piccola e un’antenata Spencer.
Per quanto il visconte di Althorp, poi conte Spencer, potesse essere stato orgoglioso della sua nuova figlia – Diana fu sempre la sua favorita – avrebbe forse potuto esprimere con più diplomazia il suo apprezzamento per le buone condizioni fisiche della piccola. Proprio diciotto mesi prima, la madre di Diana aveva dato alla luce John, un bambino talmente debole e ammalato da sopravvivere soltanto dieci ore. Fu un periodo straziante per la coppia e i membri anziani della famiglia facevano pressione per sapere «che cosa non andasse nella madre». Volevano capire perché continuasse a generare femmine. Lady Althorp, che aveva soltanto ventitré anni, fu mandata in diverse cliniche londinesi di Harley Street per essere sottoposta a esami ginecologici. Per la madre di Diana, fiera e orgogliosa, combattiva e coraggiosa, fu un’esperienza umiliante e ingiusta, e a maggior ragione ci appare tale oggi che sappiamo che il sesso del bambino dipende dal padre. Come osservò suo figlio Charles, l’attuale conte Spencer: «Fu un periodo terribile per i miei genitori e vi si possono forse ritrovare le radici del loro stesso divorzio. Non penso, infatti, che l’abbiano mai superato».
Finché fu troppo piccola per capire, Diana intuì soltanto il grado di frustrazione della sua famiglia e, convinta di essere «una seccatura», si sobbarcò il relativo carico di sensi di colpa e di fallimento per aver deluso i genitori e la famiglia. Sentimenti che in seguito imparò ad accettare e a riconoscere.
Tre anni dopo la nascita di Diana, il figlio lungamente atteso arrivò. Diversamente da Diana, che fu battezzata nella chiesa di Sandringham ed ebbe degli agiati parlamentari della Camera dei Comuni come padrino e madrina, suo fratello, il piccolo Charles, fu battezzato con ogni solennità nell’abbazia di Westminster ed ebbe come madrina la regina. Il bambino era l’erede di una fortuna ancora cospicua sebbene in rapida diminuzione, che era stata accumulata nel quindicesimo secolo quando gli Spencer erano stati tra i più facoltosi commercianti di ovini in Europa. Grazie al loro patrimonio avevano ottenuto una contea da Carlo I, avevano costruito Althorp House nel Northamptonshire, avevano acquisito un blasone e un motto araldici – «Dio difende il giusto» – e si erano potuti permettere una ricca collezione di opere d’arte, pezzi d’antiquariato, libri e objets d’art.
Nei tre secoli successivi gli Spencer erano stati di casa nei palazzi di Kensington, Buckingham e Westminster, e avevano occupato varie cariche statali e di corte. Se è vero che nessuno Spencer raggiunse mai le vette del potere, è altrettanto vero che molti di loro del potere frequentarono con disinvoltura i corridoi. Gli Spencer divennero cavalieri dell’Ordine della Giarrettiera, consiglieri della Corona, ambasciatori, e tra loro vi fu un ministro della marina. Il terzo conte Spencer fu candidato alla carica di primo ministro. Avevano legami di sangue con Carlo II, con i Duchi di Marlborough, Devonshire e Abercorn e, per una coincidenza storica, con sette presidenti degli Stati Uniti, compreso Franklin D. Roosevelt, con l’attore Humphrey Bogart e, si dice, con il gangster Al Capone.
La loro tranquilla devozione alla Corona, i doveri che la nobiltà comporta, si manifestarono chiaramente nei loro compiti espletati al servizio dei sovrani. Generazioni di uomini e donne Spencer hanno adempiuto alle mansioni di lord ciambellano, di scudiero, di dama di compagnia e di altre cariche a corte. La nonna paterna di Diana, la contessa Spencer, fu una gentildonna di camera della regina madre Elisabetta, mentre la nonna materna Ruth, lady Fermoy, è stata una delle sue dame di corte per quasi trent’anni. Il padre di Diana ha prestato servizio come scudiero sia per il re Giorgio VI che per l’attuale regina.
Comunque, fu dalla famiglia della madre di Diana, i Fermoy, con le loro radici irlandesi e i loro legami con gli Stati Uniti, che dipese l’acquisizione di Park House, la casa del Norfolk in cui Diana trascorse la sua infanzia. Come segno di amicizia verso il suo secondo figlio, il duca di York (più tardi Giorgio VI), Giorgio V concesse al nonno di Diana, Maurice quarto barone Fermoy, la locazione di Park House, una spaziosa proprietà edificata originariamente per alloggiare l’abbondante flusso di ospiti e di personale dalla vicina Sandringham House.
I Fermoy lasciarono indubbiamente un segno in quella zona. Maurice Fermoy divenne un parlamentare conservatore per King’s Lynn mentre la moglie scozzese, che aveva abbandonato una promettente carriera di pianista per sposarlo, istituì il Festival di arti e musica di King’s Lynn che, fin dall’inaugurazione avvenuta nel 1951, ha richiamato musicisti famosi in tutto il mondo come sir John Barbirolli e Yehudi Menuhin.
Per la giovane Diana Spencer l’ancestrale casa di Althorp, quella nobile e antica eredità, era impressionante e spaventosa e non provò mai alcun piacere nell’andarvi in visita. C’erano troppi angoli terrorizzanti e troppi corridoi male illuminati, pieni di ritratti di antenati morti in un lontano passato. I loro occhi continuavano a seguirla in maniera inquietante. Come suo fratello ebbe modo di ricordare: «Era una sorta di club per anziani signori con tanti orologi ticchettanti. Per un bambino impressionabile era un posto da incubo. Non volevamo mai andarci».
Questi presagi funesti venivano accresciuti dai cattivi rapporti che sussistevano fra il burbero nonno Jack, il settimo conte, e suo figlio Johnnie Althorp. Per molti anni, si scambiarono soltanto grugniti ed evitarono di parlarsi. Quando non era maleducato, il nonno di Diana rimaneva comunque ancora troppo protettivo nei confronti di Althorp, tanto da guadagnarsi il soprannome di «conte sovrintendente». Conosceva, infatti, la storia di ogni quadro e di ogni mobile conservato nella sua maestosa abitazione. Era così orgoglioso delle sue proprietà che spesso seguiva i visitatori con uno straccio per la polvere e una volta, in biblioteca, sfilò di bocca un sigaro a Winston Churchill. Malgrado il carattere iroso, era un uomo di cultura e di gusto, i cui valori contrastavano fortemente con l’atteggiamento laissez faire di suo figlio e con la sua tranquilla passione per le tradizionali attività all’aria aperta dei gentiluomini inglesi di campagna.
Diana aveva soggezione del nonno, ma adorava sua nonna, la contessa Spencer. «Era dolce, meravigliosa e veramente speciale. Divina» la descrisse la principessa. La contessa era nota nella zona per le sue frequenti visite ai malati e agli infermi e perché non perdeva mai un’occasione per pronunciare parole o compiere gesti generosi. Diana, da un lato, ereditò il carattere effervescente e volitivo di sua madre e, dall’altro, ebbe in dono le qualità di riflessività e pietà della nonna paterna.
In contrasto con i lugubri splendori di Althorp, Park House, che era una costruzione irregolare con dieci camere da letto, era intima, malgrado fosse dotata di alloggi per il personale di servizio, grandi garage, una piscina all’aperto, un campo da tennis e uno da cricket, nonché di sei domestici a tempo pieno, compresi un cuoco, un cantiniere e una governante.
Alberi e cespugli riparano l’imponente dimora dagli sguardi di chi passa per strada. Il suo esterno sporco, di mattoni sgretolati, le conferisce un aspetto triste e abbandonato. Nonostante la sua immagine minacciosa, i bambini Spencer amavano quell’edificio irregolare. Quando si trasferirono ad Althorp nel 1975, alla morte del nonno, il settimo conte, Charles salutò tutte le stanze una a una e Diana sarebbe tornata più di una volta, in occasione delle sue visite a Sandringham, a rivedere la sua prima abitazione, benché trasformata in una casa di riposo estiva per invalidi.
Park House era piena di atmosfera e con un carattere forte e particolare. Al piano terreno c’erano la cucina lastricata in pietra, la lavanderia verde scuro, regno del vivace gatto rossiccio di Diana, Marmalade, e l’aula dove la loro istitutrice, la signorina Gertrude Allen – soprannominata «Ally» – insegnava alle bambine a leggere e a scrivere. La porta successiva portava alla camera che i bambini chiamavano «The Beatles Room», una stanza dedicata interamente a manifesti e dipinti psichedelici e ad altri cimeli dei cantanti pop degli anni ’60. Era un’insolita concessione all’era del dopoguerra. D’altro canto la casa offriva uno spaccato della vita della classe nobiliare inglese: era adorna di ritratti ufficiali di membri della famiglia, di quadri con soggetti militari, di targhe, fotografie e certificati che testimoniavano vite spese in opere lodevoli.
Dalla sua bella camera color crema, nel quartiere dei bambini al primo piano, Diana godeva della vista piacevole dei cavalli al pascolo, di un mosaico di campi all’aria aperta e di un parco inframmezzato da macchie di pini, betulle argentate e tassi. Conigli, volpi e altre creature dei boschi facevano spesso capolino sui prati, mentre le nebbie marine che spesso aleggiavano intorno alle finestre indicavano che la costa del Norfolk non distava più di una decina di chilometri.
Era un vero paradiso per farvi crescere i bambini. I piccoli davano da mangiare alle trote nel lago di Sandringham House, scivolavano lungo i corrimano, portavano il loro springer spaniel Jill a fare lunghe passeggiate, giocavano a nascondino in giardino, ascoltavano il fischio del vento tra gli alberi e andavano in cerca di uova di piccione. In estate nuotavano nella piscina scoperta, osservavano le rane e i tritoni, facevano colazione sulla spiaggia vicino al loro capanno privato a Brancaster e giocavano in una casetta di tronchi tutta per loro. E, come nei celebri libri per bambini di Enid Blyton, c’erano sempre «fiumi di gassosa» e il profumo di qualcosa di stuzzicante nel forno della cucina.
Come le sue sorelle maggiori, Diana iniziò a cavalcare all’età di tre anni e rivelò presto una passione per gli animali, specialmente per quelli piccoli. Le furono regalati criceti, conigli, porcellini d’India, il gatto Marmalade, che Charles e Jane detestavano, e, come ricorda sua madre, «qualsiasi bestiola che stesse in una gabbia». Quando morì un animaletto del suo piccolo zoo, Diana gli fece un vero e proprio funerale. I pesci rossi venivano fatti sparire giù per lo scarico della toilette, ma tutti gli altri animaletti passati a miglior vita Diana li metteva in una scatola da scarpe di cartone, per poi scavare un buco vicino al cedro frondoso e sotterrarli lì. Infine, piantava una croce fatta da lei sulla loro tomba.
I cimiteri esercitavano un lugubre fascino sui bambini. Charles e Diana facevano visita di frequente alla tomba muschiosa del loro fratellino John nel cimitero della chiesa di Sandringham e si domandavano a chi sarebbe somigliato se fosse sopravvissuto e, in tal caso, se loro due sarebbero effettivamente nati. Charles pensava che i suoi genitori avrebbero completato la famiglia con Diana, mentre la futura principessa era convinta che non sarebbe nata. Era una questione sulla quale si potevano fare infinite congetture, tutte possibili. Nella mente della piccola Diana, la lastra tombale di suo fratello con il suo semplice epitaffio «IN AFFETTUOSO RICORDO» era un eterno promemoria del fatto che, come lei stessa ricordò in seguito, «io ero la bambina che sarebbe dovuta essere un maschio».
Come i suoi divertimenti d’infanzia avrebbero potuto essere ispirati dalle pagine di un libro per bambini degli anni ’30, così l’educazione di Diana rifletteva i valori di un’epoca ormai passata. La piccola Diana aveva una bambinaia originaria del Kent, Judith Parnell, che la portava per i campi in una carrozzina collaudata e ben molleggiata. Anzi, il primo ricordo di Diana fu «l’odore della plastica calda» della cappotta della carrozzina. Crescendo, la bambina non ebbe vicino sua madre quanto avrebbe desiderato, e ancor meno suo padre. Le sue sorelle Sarah e Jane, la maggiore di sei e l’altra di quattro anni rispettivamente, quando Diana venne al mondo passavano le loro mattinate nelle aule scolastiche dei piani superiori e, quando lei fu pronta ad aggregarsi a loro, stavano già preparando le valigie per il collegio.
Diana trascorreva le ore dei pasti con la bambinaia. Il menù comprendeva pietanze molto semplici. Cereali a colazione, carne tritata e verdure a pranzo e pesce tutti i venerdì. I suoi genitori erano una presenza benefica ma distante, e neanche lo stesso Charles, finché non compì sette anni, poté sedere a tavola con suo padre nella sala da pranzo al pianterreno. La loro infanzia era costellata da formalità e costrizioni che riflettevano il modo in cui i genitori di Diana erano stati allevati. Charles avrebbe ricordato: «Era un’educazione privilegiata ispirata a un’altra epoca, una maniera di vivere lontani dai genitori. Non conosco nessuno che continui a far crescere i propri figli in quel modo. Ci mancava sicuramente la figura di una madre».
Privilegiati sì, snob no. Già in verdissima età, ai bambini Spencer erano stati inculcati i valori delle buone maniere, dell’onestà e dell’importanza di considerare le persone per quello che sono, non per la loro posizione nella vita. Dirà Charles: «Non capivamo tutta la questione del titolo nobiliare. Io, anzi, non seppi neanche di averne uno finché non andai alla preparatory school e iniziai a ricevere lettere intestate a The Honourable Charles. Soltanto allora cominciai a domandarmi di che cosa si trattasse. Noi non avevamo la minima idea di essere privilegiati. Eravamo bambini e consideravamo normale la nostra condizione».
I loro reali vicini rientravano semplicemente in un panorama sociale di amici e conoscenti che comprendeva i figli dell’amministratore delle terre della regina, Charles e Alexandra Loyd, la figlia del vicario locale, Penelope Ashton, e William e Annabel Fox, la cui madre Carol era la madrina di Diana. I rapporti con la famiglia reale erano sporadici, specialmente perché i principini trascorrevano soltanto una breve parte dell’anno nella loro proprietà di Sandringham, vasta più di 8.000 ettari. Le visite reali a Park House erano così rare che, quando la principessa Anna annunciò la propria dopo la messa una domenica, il personale degli Spencer fu preso dal panico. Il padre di Diana era astemio e i domestici si lanciarono in una frenetica ricerca nelle dispense di qualcosa da poter offrire all’ospite reale. Alla fine, trovarono una bottiglia di sherry a buon mercato che era stata vinta a una pesca di beneficenza ed era stata dimenticata in un cassetto.
Talvolta il figlio della principessa Margaret, il visconte di Linley, veniva a giocare nel pomeriggio accompagnato dai principi Andrea e Edoardo, ma sicuramente siamo lontani dai frequenti andirivieni che molti hanno supposto. In realtà i bambini Spencer attendevano con una certa trepidazione gli inviti nella residenza invernale della regina. Infatti, dopo aver assistito a una proiezione del film Citty Citty Bang Bang nel cinema privato dei reali, Charles ebbe incubi infestati da un personaggio chiamato Acchiappabambini. Quella che Diana odiava, invece, era l’atmosfera «strana» di Sandringham. Una volta si rifiutò di andarci. Si mise a scalciare e a gridare in segno di sfida finché suo padre non le disse che non unirsi agli altri bambini sarebbe stato considerato come un segno di maleducazione da parte sua. Se qualcuno le avesse detto allora che un giorno si sarebbe imparentata con la famiglia reale, sarebbe scappata a gambe levate.
Se l’atmosfera a Sandringham non era gradevole, a Park House divenne intollerabile quando il piccolo mondo di Diana cadde in pezzi. Nel settembre 1967 Sarah e Jane andarono nel Kent, in un collegio a West Heath. Quel trasferimento coincise con la rottura del matrimonio degli Althorp, sposati da ormai quattordici anni.
Quell’estate presero la decisione di separarsi legalmente, una decisione che per Charles giunse come «un fulmine, un terribile shock», scandalizzò entrambe le famiglie e sconvolse la nobiltà della contea. Anche per una famiglia con la tendenza a trasformare i problemi in drammi, questo era un avvenimento eccezionale. Tutti ricordavano il loro matrimonio del 1954, che era stato sbandierato come «l’unione d’alta società dell’anno» ed era stato approvato esplicitamente dalla presenza della regina e della regina madre. Certamente, da scapolo Johnnie Spencer era stato la preda più ambita della regione. Non soltanto era l’erede della fortuna degli Spencer, ma si era distinto anche come capitano dei Royal Scots Greys durante la Seconda guerra mondiale e, come scudiero della regina, aveva accompagnato lei e il principe Filippo nel loro storico viaggio in Australia poco prima del suo matrimonio.
La raffinatezza di un uomo di dodici anni più vecchio di lei contribuì senza dubbio ad attrarre l’Honourable Frances Roche, la più giovane figlia del quarto barone Fermoy, che era una diciottenne debuttante quando incontrò per la prima volta il suo futuro marito. Con la sua figura snella ed elegante, la sua personalità vivace e la passione per gli sport, Frances catturò l’attenzione di molti giovani in quel periodo, tra i quali c’era il maggiore Ronald Ferguson, poi padre di Sarah, duchessa di York. Comunque, fu Johnnie Spencer a conquistarne il cuore e, dopo un breve corteggiamento, i due si sposarono nell’abbazia di Westminster nel giugno 1954.
Naturalmente, gli sposi presero sul serio le parole del vescovo di Norwich. Proprio nove mesi dopo aver udito la sua frase: «Voi diventate una nuova famiglia del nostro Paese, da voi prima che da ogni altra cosa dipende la nostra vita nazionale», nacque la loro prima figlia Sarah. Stabilirono di andare a vivere in campagna; Johnnie studiava al Royal Agricultural College di Cirencester e, attratti dall’inquieto fascino di Althorp, si trasferirono a Park House. Negli anni immediatamente successivi, fecero costruire una fattoria su una tenuta di più di 260 ettari, perlopiù comperata con un’eredità di ventimila sterline di Frances.
L’impressione era di una certa armonia domestica e di una grande felicità matrimoniale, ma sotto la superficie presto si svilupparono le tensioni. L’esigenza pressante...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione
  4. Diana
  5. Diana, principessa di Galles. Le sue parole
  6. 1. «Sarei dovuta essere un maschio»
  7. 2. «Chiamami pure “sir”»
  8. 3. «Tanta speranza nel mio cuore»
  9. 4. «Le mie grida d’aiuto»
  10. 5. «Caro, sto per svenire»
  11. 6. «La mia vita ha cambiato direzione»
  12. 7. «Io non stuzzico loro e loro non stuzzicano me»
  13. 8. «Ho fatto del mio meglio»
  14. Cosa accadde dopo
  15. 9. «Avevamo esaurito le energie»
  16. 10. «La mia carriera di attrice è finita»
  17. 11. «Voglio essere me stessa»
  18. 12. «Dimmi di sì»
  19. 13. «La principessa del popolo»
  20. Postfazione. Pensiamo a lei ogni giorno
  21. Ringraziamenti e contributi fotografici
  22. Indice