Devo perché posso
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Devo perché posso

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Devo perché posso

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«Scalo le montagne perché mi rende felice.» Chiunque senta parlare Simone Moro - alle conferenze sulle sue imprese in montagna, nei discorsi ispirazionali che tiene per le aziende, in una qualsiasi chiacchierata spontanea - rimane affascinato e ricava una sensazione di benessere. Perché? Il segreto è la felicità. Eppure, nella sua vita Simone non si è certo sottratto alla fatica con le cinquantacinque imprese alpinistiche che ha portato a termine sulle vette più impegnative e insidiose del pianeta. Né si è risparmiato il disagio, esponendosi nelle invernali alle temperature più basse della Terra. Allo stesso tempo ha conosciuto più volte la rinuncia quando è dovuto rientrare al campo base per le avverse condizioni meteo e soprattutto ha provato la sofferenza per la perdita di amici carissimi in incidenti alpinistici. Ma la felicità nasce da un sogno e dalla forza e dalla determinazione con cui tentiamo di realizzarlo giorno dopo giorno, per tutta la nostra vita. Per costruircelo, possiamo cominciare identificando i nostri miti - quelli che per Simone, fra gli altri, sono stati Messner, Cassin e Bonatti - per poi sceglierci dei maestri - per lui, il Camòs e Anatoli Boukreev - che ci aiutino a farci la nostra cassetta degli attrezzi e a trovare i mezzi. Poi è bene che ci cerchiamo degli alleati, individuandoli tra le nostre stesse risorse personali (le proprie doti, i punti di forza) e nelle persone in carne e ossa che possono sostenerci (fra gli altri, per Simone, Marianna Zanatta, sua collaboratrice da sempre e coautrice di questo libro). Infine, dobbiamo mettere in conto anche l'errore e il tradimento, la paura e il sacrificio. Ma il risultato di tutto questo è la felicità. Ricco di episodi inediti dalle imprese alpinistiche di Simone Moro e trascinante come tutti i suoi racconti di esperienze in alta quota, Devo perché posso è una lettura utilissima e fortificante per chiunque di noi, anche se non muoviamo nemmeno un passo in montagna. Ma, come tutti, cerchiamo la felicità nei nostri sogni quotidiani.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2017
ISBN
9788858691168

1.

Il bambino sognatore

Resto sempre incantata quando mamma Teresa Moro racconta di Simone bambino che ritagliava dalle riviste le foto di Reinhold Messner e le appendeva sul muro della cameretta che condivideva con i fratelli, dicendo che da grande avrebbe fatto l’alpinista.
A questo sogno ha creduto fermamente e si è applicato con costanza e dedizione per attuarlo, tanto che a ogni passo della sua crescita alla domanda: «Che cosa vuoi fare da grande?» ha continuato a dare la stessa risposta.
Questa volontà e determinazione, al limite della cocciutaggine, questa perseveranza dimostrate fin dalla più giovane età mi colpiscono molto. A differenza di Simone, io da piccola non ho sentito una vocazione forte e inequivocabile. Dicevo di voler fare il falegname, ma nessuno ha dato mai troppo credito alle mie parole e io evidentemente non ho palesato in maniera risoluta che si trattasse di un desiderio reale e serio né ho avuto il coraggio di assecondare le mie passioni, per esempio quella per la pittura, e la mia inclinazione per tutto ciò che è creativo. Sono dunque arrivata a essere chi sono oggi attraverso una successione di scelte non sempre giuste né mirate, come pure non convenzionali. Il mio percorso, insomma, non ha seguito una direttrice ben definita ma è andato delineandosi soltanto mentre lo vivevo e sperimentavo.
In modi differenti siamo però arrivati allo stesso obiettivo: siamo e facciamo ciò che desideriamo, e se la felicità consiste nello scoprire e trasformarsi nella persona che si vorrebbe e si potrebbe divenire, posso affermare di essere appieno in quel processo, come lo è Simone.
Tuttavia, guardando da vicino il suo iter, non posso non domandarmi come sarebbe stata la mia via per la felicità se avessi assecondato da subito le mie passioni e attitudini.
Nel 2012, quando abbiamo rifatto il suo sito internet, Simone, in una foto di apertura della sua biografia, ha voluto inserire tra le citazioni questa sua frase: «Scalo le montagne perché mi rende felice».
La sua felicità non ha a che fare con il provare piacere – tutte le asprezze del vivere in alta quota non le definisce o considera un godimento ma le vive come parte naturale di qualcosa di più grande che lo appaga e lo fa sentire vivo.
E non ha nemmeno a che vedere con l’arrivare per forza a un risultato positivo.
L’alpinismo non è certo la via più semplice per ottenere successo e realizzarsi secondo gli standard comuni (avere un lavoro fisso, comprarsi una bella casa, avere una relazione stabile, dei figli...). È al contrario un percorso ricco di rischi e incertezze, che prevede anche un alto tasso di fallimenti.
Eppure oggi Simone ha al suo attivo cinquantacinque spedizioni alpinistiche, è l’unico alpinista al mondo ad aver scalato quattro ottomila in prima invernale e tantissime altre cime tra i 6/7000 e gli 8000 metri in tutti gli angoli del pianeta, ha fondato una scuola di pilotaggio elicotteristico a San Diego e ha dato il via a un progetto di elisoccorso in sviluppo sull’Himalaya. Ed è riuscito a compiere tutto ciò senza rinunciare a una vita privata piena: ha una moglie, Barbara, e due figli, Martina, da poco diciottenne, e Jonas di sette anni, una mamma e due fratelli, a cui è molto legato, oltre a tanti amici.
Se la felicità, di nuovo, è un processo e dimora nel cammino per lo sviluppo verso il proprio «sé ideale», credo che possa essere utile osservare come Simone abbia vissuto e viva i vari passaggi necessari a ottenere simili risultati, analizzare il suo continuo evolversi, il suo reinventarsi, continuare a sognare e progettare, gettarsi in nuove esperienze, mantenendo sempre, pur tra mille impegni, un piede anche nella «normalità».
Se ripercorro la sua carriera alpinistica (incluso il dietro le quinte), in cerca della chiave del suo successo, inteso come percorso di felicità, non posso che annoverare: la forte motivazione nata in realtà dal divertimento (Simone ha vissuto e scoperto la montagna come un gioco grazie a papà Franco) e rafforzata grazie all’incontro «virtuale» con i suoi miti e «reale» con i suoi maestri; le attitudini personali dimostrate fin dall’inizio (coraggio, determinazione e autonomia) e quelle scoperte strada facendo (saper ascoltare la paura e far tesoro dell’esperienza del fallimento); gli strumenti che lui ha messo nella sua «cassetta degli attrezzi» a partire dagli insegnamenti dei genitori, diventati poi convinzioni coltivate nel tempo. Ecco tre di queste convinzioni che a mio avviso sono importantissime e per nulla scontate: essere liberi di sognare senza l’approvazione degli altri, senza sentirsi sbagliati solo perché la propria check-list della felicità non corrisponde a quella dei propri coetanei; attrezzarsi bene se si vuole davvero trasformare il proprio sogno in realtà; tenere sempre a mente che non esiste risultato senza impegno, non esiste ricompensa senza rischio, non esiste felicità gratuita.
Teresa e Franco, i fantastici genitori di Simone, non lo hanno ostacolato, non lo hanno mai deriso, dissuaso né fatto sentire fuori luogo per quel sogno che a tanti poteva sembrare impossibile. Gli hanno però fatto capire che pochi al mondo riuscivano a vivere di alpinismo come Messner e che dunque era sì importante impegnarsi a fondo in ciò che si ama ma era necessario pure prepararsi un piano B da avere pronto nel cassetto. Così Simone, anche se odiava studiare, ha preso il diploma, e non solo: da grande, nel 2003, si è persino laureato in scienze motorie. Poi è diventato pilota di elicotteri, si è specializzato in soccorso alpino sulle montagne del Nepal, ha aperto una sua scuola di volo...
Porsi obiettivi ambiziosi e alzare costantemente l’asticella, indipendentemente dal successo o dall’insuccesso, è fondamentale per lui che sposa il concetto: «Il progresso è ciò che conduce alla felicità. Senza fallimento non c’è progresso, senza progresso non c’è felicità». Il fallimento non è antitetico alla felicità, anzi: c’è una certa abilità nel fallire, che va affinata con il tempo e consiste nella capacità di apprezzare comunque l’esperienza e farne tesoro.
Considerato che l’alpinismo invernale ha un dieci per cento di possibilità di successo, comprendere il valore della rinuncia e del fallimento, saper dare ascolto alla paura e fermarsi al momento giusto è fondamentale per tornare a casa sani e salvi e riprovarci. Saper rinunciare non vuol dire fallire ma semplicemente accettare gli imprevisti come incidenti di percorso pensando già alle possibilità future, con nuovi preziosi insegnamenti e informazioni a disposizione.
Simone, che non è certamente il classico «alpinista solitario», in fuga dalla società, dice che le spedizioni alpinistiche invernali gli permettono di esplorare, di sentirsi un pioniere anche se deve rimanere al campo base tre mesi ad aspettare il bel tempo. Un pioniere che ha il privilegio di ammirare la purezza assoluta dei panorami himalayani, vivere l’estremo isolamento dal mondo per andare alla ricerca della vera essenza interiore e poi tornare con questa grande consapevolezza a reinserirsi nella società. Ecco da dove trae la sua felicità, non certo dalla fuga in sé. E tutto questo vale la fatica di vivere mesi in una tenda di pochi metri quadrati, bere acqua distillata (l’acqua sciolta dalla neve non ha né sali né minerali né metalli), affrontare una salita e una vetta a -58 gradi.
Con la salita sulla cima del Nanga Parbat in invernale del 26 febbraio 2016, Simone è entrato nella storia dell’alpinismo come il primo ad aver salito quattro cime di ottomila metri in prima invernale. Oggi la considera il punto più alto della sua carriera, non tanto per l’impresa in sé, ma proprio perché racchiude tutto ciò che gli ha permesso di arrivare dove è adesso: l’intuizione, la pazienza, le capacità pionieristiche, la perseveranza, la dedizione, l’amicizia e la capacità di soffrire.
L’alpinista Simone Moro può piacere o non piacere. Ma che sia un alpinista felice lo posso garantire io e chiunque abbia a che fare con lui, anche soltanto per un momento, ne ha la percezione immediata.
Se siamo alla ricerca di qualcosa di meglio, di una felicità a lungo termine, vedere come ha funzionato e funziona per lui e passare in rassegna gli strumenti che ha messo al sicuro nella sua «cassetta degli attrezzi» per la felicità può essere utile.
Marianna
Quando mi presento dico: «Mi chiamo Simone Moro, sono di Bergamo, ho quarantanove anni e faccio l’alpinista. Sono un uomo che sin da ragazzo ha sognato e che ha lavorato duro perché questi sogni si realizzassero. Il più grande fin da piccolo è stato salire in alto, il più in alto possibile, fin sulle vette più elevate del pianeta, ovviamente a piedi. Scalando, trovando il mio stile, la via personale alla vetta».
Sono nato in un’area non particolarmente rinomata per le sue montagne, in una porzione delle Alpi considerata «sfigata» – parliamo di Bergamo, non di Cortina, Canazei o Courmayeur. Sono cresciuto in una famiglia come tante, con la mamma casalinga, il papà impiegato di banca che aveva relegato la passione per il ciclismo a un hobby da praticare nel tempo libero (riuscendo tuttavia a diventare campione italiano amatori), e due fratelli, uno più grande e l’altro più piccolo di me.
In cinque vivevamo in una casa di sessantacinque metri quadrati, in periferia, ai piedi delle poco famose Prealpi Orobiche, le mie fantastiche montagne «sfigate». Eppure, partendo da lì, con la fame e la grinta che questa apparente sfortunata condizione mi poneva, ho passato quattordici anni della mia vita, quattordici su quarantanove (se sommo tutti i mesi che ho trascorso in spedizioni extraeuropee), a una quota molto spesso vicina agli ottomila metri, sulle catene montuose più alte del pianeta. Ho cercato di vivere sempre queste esperienze pienamente, in nome dell’esplorazione, della conoscenza, del rispetto per le montagne e non riducendole soltanto alla sterile conquista della vetta.

Come nasce un amore

Se mi venisse chiesto di identificare l’attimo in cui mi sono innamorato della verticalità, dell’alpinismo, della scalata, senza indugi indicherei il momento che mi ritrae a tredici anni su un torrione calcareo alto venti metri di una palestra di roccia storica chiamata Cornagera, vicino a Selvino, nei pressi di Bergamo. Stavo giocando con mio padre a fare gli scalatori, o meglio io giocavo e sognavo e lui mi insegnava i rudimenti. Poco prima di arrivare in cima al torrione, il mio primo Everest, soltanto di roccia in questo caso, mio papà mi passò il martello e un chiodo e mi disse: «Quando arrivi in cima, pianta il chiodo, rinforza la sosta e poi recuperami».
Ho cercato di vivere sempre queste esperienze in nome dell’esplorazione, della conoscenza, del rispetto per le montagne.
Ricordo con precisione ancora oggi l’istante in cui infilai il chiodo nella fessura e lo feci «cantare», come si definisce in gergo il tintinnio provocato dal battere del martello sul metallo (che non è il tipico suono di sottofondo della montagna, come il gorgoglio di un torrente o il grido di un rapace, ma è il suono metallico che da più di cento anni accompagna gli entusiasmi, gli sforzi e i sogni di molti arrampicatori), ma le radici di questo grande amore verticale erano attecchite ben prima, prima ancora delle vacanze sulle Dolomiti trascorse andando a funghi e facendo ferrate, durante le gite con la famiglia nei boschi che ricoprono la collina Maresana e in quelle sulle montagne nei dintorni di Bergamo.

Il gioco e l’avventura

Benché probabilmente mio padre non ne fosse del tutto cosciente, mi ha iniziato alla montagna in primo luogo come a un divertimento. Le nostre escursioni non erano mai scandite dai: «Tieni duro!», «Quanto manca?», «Dai che manca poco», tipiche frasi pronunciate da chi è poco avvezzo alle scarpinate montane e più in generale alla fatica e alla fronte sudata.
Fin da subito durante le nostre uscite è emerso il lato giocoso dell’esplorazione. Ricordo mio papà, con indosso il suo maglione marrone a coste larghe, che a un certo punto ci diceva: «Andiamo nella savana!». Era il suo segnale di via libera ad abbandonare i sentieri e inoltrarci nell’erba alta e gialla; a dire il vero, inizialmente mio padre mi portava sulle spalle, perché altrimenti sarei sparito nel prato alto.
In queste scorribande giocose era insito dunque anche un certo gusto per le cose che non si dovrebbero fare (andare fuori dai sentieri), sempre però sotto lo sguardo vigile del genitore (quindi della giusta guida). Credo di aver ricevuto lì l’imprinting che mi accompagna tuttora in montagna: il desiderio di esplorare fuori dal tracciato, con la guida, l’attenzione e l’approccio giusto è lo stesso che mi spinge oggi a fare le invernali.
Nel corso del tempo la savana è diventata una ferrata, che a sua volta è divenuta un’arrampicata, poi sono subentrate le prime vie sulla roccia con il Camòs (che rimarrà il mio primo grande maestro anche se non proprio il primo) ma gli ingredienti sono rimasti gli stessi: gioco e avventura.
Quando mia mamma restava a casa o in campeggio, al nostro ritorno non ci faceva mai pesare di essere rimasta da sola. Non ricordo una sola volta in cui ci abbia fatto la ramanzina del tipo: «Disgraziati, siete stati via tutto il giorno e adesso io vi devo pure lavare i pantaloni». Mai, zero.
Al massimo ogni tanto se ne usciva con la battuta: «Io ho quat...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione: Un libro nato dall’amicizia e dalla felicità: di Marianna Zanatta
  4. 1. Il bambino sognatore
  5. 2. I miti
  6. 3. I maestri
  7. 4. L’errore e il tradimento
  8. 5. Le risorse e gli alleati
  9. 6. I mezzi
  10. 7. Il sacrificio
  11. 8. La paura e la morte
  12. Conclusioni
  13. Devo, posso, desidero, ringrazio, concludo: di Marianna Zanatta
  14. Bibliografia
  15. Indice