1
«La porta dell’inferno»
Nell’estremo Honduras, in una regione chiamata La Mosquitia, si trova uno degli ultimi angoli inesplorati del globo. La Mosquitia è un vasto territorio senza legge che si estende per oltre ottantamila chilometri quadrati, caratterizzato da foreste pluviali, paludi, lagune, fiumi e montagne. Per via del suo aspetto particolarmente ostile, nelle prime carte geografiche era indicato come puerta del infierno, porta dell’inferno. Si tratta di una delle aree più pericolose del mondo, che per secoli ha frustrato qualsiasi tentativo di penetrarvi ed esplorarla. Ancora oggi, nel XXI secolo, centinaia di chilometri quadrati della foresta pluviale della Mosquitia sono sfuggite a ogni tentativo di indagine scientifica.
Nel cuore della Mosquitia, la giungla più fitta del pianeta avvolge impervie catene montuose, con vette superiori ai millecinquecento metri, tagliate da ripide gole, con alte cascate e torrenti impetuosi. Inondato da oltre trecento centimetri di pioggia l’anno, il terreno viene regolarmente flagellato da frane e alluvioni improvvise, creando pozze di sabbie mobili capaci di inghiottire viva una persona. Il sottobosco è infestato da serpenti velenosi, giaguari e macchie di «unghia di gatto», una pianta rampicante le cui spine adunche lacerano carne e indumenti. Nella Mosquitia, un gruppo di esploratori esperti, equipaggiati a dovere con seghe e machete, non può aspettarsi di percorrere più di tre o quattro chilometri in dieci ore di duro cammino.
I rischi che comporta l’esplorazione della Mosquitia non si limitano ai fattori naturali. L’Honduras vanta uno dei tassi di omicidi più elevati del pianeta. L’ottanta per cento della cocaina proveniente dal Sudamerica e destinata agli Stati Uniti passa per l’Honduras, perlopiù attraverso la Mosquitia. I cartelli della droga controllano buona parte delle città e delle campagne circostanti. Attualmente, il Dipartimento di Stato americano vieta al personale governativo di recarsi nella Mosquitia e nel dipartimento di Gracias a Dios, «a causa di informazioni attendibili riguardanti minacce nei confronti dei cittadini statunitensi».
Questo pauroso isolamento ha prodotto un curioso risultato: da secoli, la Mosquitia è la culla di una delle più durature e affascinanti leggende del mondo. Si narra infatti che da qualche parte in questa terra selvaggia e impenetrabile si celi una «città perduta» di pietra bianca. Viene chiamata Ciudad Blanca, la Città Bianca, ed è nota anche come la Città perduta del Dio Scimmia. Alcuni sostengono che si tratti di una città maya, mentre altri affermano che la sua costruzione, migliaia di anni fa, si debba a un popolo ignoto e ormai estinto.
Il 15 febbraio 2015 mi trovavo in una sala conferenze dell’Hotel Papa Beto di Catacamas, in Honduras, per partecipare a un briefing. Nei giorni successivi era previsto che la nostra squadra venisse trasportata in elicottero in una valle inesplorata, nota solo come Target One, nelle montagne interne della Mosquitia. L’elicottero ci avrebbe depositato sulle rive di un fiume non meglio identificato, dopodiché avremmo dovuto cavarcela da soli, aprendoci un varco nella foresta pluviale per allestire un campo rudimentale. Quest’ultimo avrebbe costituito la base per le esplorazioni di quelli che ritenevamo fossero i resti di una città sconosciuta. Saremmo stati i primi ricercatori a penetrare in quella parte della Mosquitia. Nessuno di noi aveva la più pallida idea di che cosa avremmo realmente trovato, nascosto nel folto della giungla, in un territorio incontaminato che non vedeva la presenza di esseri umani da tempo immemorabile.
La sera era scesa su Catacamas. In piedi nella sala conferenze c’era il responsabile della logistica della spedizione, un ex militare di nome Andrew Wood, ma che tutti chiamavano Woody. Già sergente maggiore del Sas, le forze speciali britanniche, e soldato del reggimento delle Coldstream Guards, Woody era un esperto di sopravvivenza e guerriglia nella giungla. Aprì il briefing comunicandoci che il suo compito era soltanto uno: tenerci in vita. Aveva convocato quella riunione per assicurarsi che fossimo consapevoli dei numerosi pericoli in cui ci saremmo potuti imbattere perlustrando la valle. Voleva che tutti noi – persino chi era a capo della spedizione – comprendessimo e accettassimo il fatto che, nei giorni che avremmo trascorso nella giungla, a comandare sarebbe stata la sua ex squadra del Sas: in altre parole, si sarebbe trattato di una struttura di comando paramilitare, e avremmo dovuto obbedire ai suoi ordini senza discutere.
Era la prima volta che i membri della spedizione si trovavano insieme nella stessa stanza, formando un gruppo alquanto eterogeneo di scienziati, fotografi, produttori cinematografici e archeologi, più uno scrittore, cioè io. Ciascuno di noi aveva avuto esperienze di natura selvaggia di vario genere.
Woody si soffermò in particolare sull’aspetto della sicurezza, parlando nel suo stringato stile britannico. Dovevamo essere cauti ancor prima di avventurarci nella giungla. Catacamas era una città pericolosa, controllata da un violento cartello della droga; nessuno doveva lasciare l’albergo senza una scorta armata. Dovevamo tenere la bocca cucita circa il motivo per cui ci trovavamo lì. Non dovevamo chiacchierare del progetto in presenza del personale dell’hotel, né lasciare nelle stanze documenti o carte geografiche, né telefonare con i cellulari in pubblico. Nel deposito bagagli dell’albergo c’era una grande cassaforte in cui riporre documenti, denaro, mappe, computer e passaporti.
Quanto alle insidie che avremmo dovuto affrontare nella giungla, in cima alla lista c’erano i serpenti velenosi. Il «ferro di lancia», spiegò Woody, da queste parti è noto come barba amarilla (barba gialla). Considerato dagli erpetologi il più micidiale tra i crotalini (vipere), nel Nuovo Mondo uccide più persone di qualsiasi altro rettile. Esce di notte ed è attirato dall’uomo e dal movimento. È aggressivo, irritabile e veloce. I suoi denti, è stato osservato, possono schizzare veleno a quasi sei metri di distanza e perforare anche il più spesso stivale di cuoio. A volte attacca, poi insegue la preda e torna ad attaccare. Spesso guizza verso l’alto e colpisce sopra il ginocchio. Il suo veleno è letale; se non muori all’istante per emorragia cerebrale, puoi benissimo morire in seguito per sepsi. Se sopravvivi, spesso l’arto colpito dev’essere amputato a causa della natura necrotizzante del veleno. Ci saremmo addentrati, disse Woody, in un’area nella quale gli elicotteri non erano in grado di volare di notte o con il brutto tempo; l’evacuazione della vittima di un morso di serpente poteva essere ritardata di giorni. Ci esortò a indossare in ogni momento i nostri gambali anti-serpente di kevlar, anche – e soprattutto – quando ci saremmo alzati di notte per fare pipì. Ci raccomandò di scavalcare sempre un tronco d’albero caduto salendoci prima sopra; non dovevamo mai posare il piede direttamente dalla parte cieca. Era così che il suo amico Steve Rankin, il produttore dei programmi di Bear Grylls, era stato morso mentre si trovavano in Costa Rica alla ricerca di una location per uno show. Benché Rankin portasse dei gambali, il ferro di lancia, acquattato dalla parte opposta del tronco, lo aveva colpito sullo scarpone, sotto la protezione; i denti erano affondati nel cuoio come se fosse stato burro. «Ed ecco quello che è successo» annunciò Woody, estraendo il suo iPhone e facendolo girare tra i presenti. Lo schermo mostrava una foto raccapricciante del piede di Rankin dopo l’accaduto, mentre veniva operato. Nonostante il trattamento antiveleno, si era reso necessario asportare la carne morta dal piede necrotizzato, mettendo a nudo tendini e ossa. Il piede di Rankin era stato salvato, ma un pezzo della sua coscia aveva dovuto essere trapiantato per rivestire la profonda ferita aperta.* La valle, proseguì Woody, sembrava costituire un habitat ideale per il ferro di lancia.
Lanciai un’occhiata ai miei compatrioti. L’atmosfera conviviale che si era creata nel gruppo quello stesso giorno, sorseggiando birra attorno alla piscina dell’hotel, si era dissolta.
Iniziò quindi una lezione sugli insetti vettori di malattie che avremmo potuto incontrare, tra cui mosquitos (zanzare),** pappataci, pulci penetranti, zecche, cimici del bacio (così chiamate perché adorano pungerti sul viso), scorpioni e formiche proiettile, il cui morso è doloroso quanto un colpo di pistola. La più orribile tra le malattie endemiche della Mosquitia è forse la leishmaniosi mucocutanea, talora chiamata lebbra bianca, provocata dal morso di pappataci infetti. Il parassita Leishmania migra nelle mucose del naso e delle labbra della vittima e le corrode fino a creare un’enorme ulcera essudante là dove prima c’era la faccia. Woody sottolineò l’importanza di applicare regolarmente della Deet (dietiltoluamide) su tutto il corpo, di spruzzarne anche sui vestiti e di coprirsi da capo a piedi dopo il tramonto.
Imparammo che ragni e scorpioni di notte si infilano dentro gli stivali, e che quindi bisognava riporli capovolti su paletti piantati nel terreno e scuoterli ogni mattina. Scoprimmo che il sottobosco brulica di temibili formiche rosse che, alla minima oscillazione di un ramo, ti piovono addosso, insinuandosi tra i capelli, scendendo lungo il collo e mordendo all’impazzata, iniettando una tossina che richiede un’evacuazione immediata. Guardate bene, consigliò Woody, prima di appoggiare la mano su un qualsiasi stelo, ramo o tronco d’albero. Non fatevi largo incautamente nella vegetazione fitta. Oltre a nascondere insetti e serpenti capaci di arrampicarsi sugli alberi, molte piante sono dotate di spine e spuntoni che possono causare ferite. Era dunque opportuno indossare dei guanti, preferibilmente da sub, poiché offrono una migliore protezione dalle spine. Ci mise poi in guardia su quanto fosse facile perdersi nella giungla; spesso bastava allontanarsi di quattro o cinque metri dal gruppo. Nessuno di noi, in nessuna circostanza, era autorizzato a lasciare l’accampamento da solo o a separarsi dagli altri mentre ci trovavamo nella boscaglia. Ogniqualvolta fossimo partiti dal campo base per un’escursione, avremmo dovuto portare con noi uno zaino con un kit di emergenza – cibo, acqua, indumenti, Deet, torcia elettrica, coltello, fiammiferi, equipaggiamento da pioggia – nell’eventualità che ci perdessimo e fossimo costretti a passare la notte lontano dall’accampamento. Ci vennero distribuiti dei fischietti; se pensavamo di esserci smarriti, dovevamo subito fermarci, inviare un segnale di soccorso e aspettare di essere recuperati.
Ascoltai con attenzione. Davvero. Lì, nella sicurezza della sala conferenze, l’impressione era che Woody stesse semplicemente cercando di spaventarci per metterci in riga, esagerando con le precauzioni a beneficio di quei membri della spedizione meno esperti di vita in ambienti selvaggi. Io ero una delle tre persone nella stanza ad aver già sorvolato Target One, la remota valle in cui eravamo diretti. Dall’alto, mi era sembrata un paradiso tropicale screziato dal sole, non la giungla umida e pericolosa, infestata di serpenti e malattie, che Woody ci stava descrivendo. Sarebbe andato tutto bene.
* Per i lettori dallo stomaco forte, la foto è facilmente reperibile sul web.
** Il nome Mosquitia non deriva dall’insetto, ma da una vicina popolazione costiera di ascendenza mista – india, europea e africana –, che secoli fa si era procurata dei moschetti (mosquetes in spagnolo) e da allora era nota come Miskito, o Mosquito. Secondo alcuni, tuttavia, il nome trae origine dalla lingua indigena.
2
«Da qualche parte nelle Americhe»
Avevo sentito parlare per la prima volta della leggenda della Città Bianca nel 1996, quando il «National Geographic» mi aveva incaricato di scrivere un articolo sugli antichi templi della Cambogia. Di recente, nell’ambito di una missione della Nasa, un DC-10 munito di un sofisticato sistema radar aveva sorvolato diverse aree del mondo coperte dalla giungla, al fine di stabilire se lo strumento era in grado di penetrare attraverso il fogliame e rivelare quel che ci stava sotto. I risultati erano stati analizzati presso il Jet Propulsion Laboratory della Nasa di Pasadena, in California, da una équipe di esperti di telerilevamento, cioè di analisi di immagini della Terra prese dallo spazio. Dopo aver elaborato i dati, il team aveva scoperto, nascoste nella giungla cambogiana, le rovine di un tempio in precedenza sconosciuto, risalente al XII secolo. Decisi di incontrare la persona a capo del team, Ron Blom, per saperne di più.
Blom non incarnava certo le stereotipo dello scienziato: barbuto e vigoroso, portava un paio di occhiali modello Aviator e un cappello alla Indiana Jones. Si era guadagnato la notorietà internazionale scoprendo la città perduta di Ubar, nel deserto del Rub’ al-Khali. Quando gli chiesi a quali altri progetti stesse lavorando, snocciolò una sequela di missioni: mappare le vie dell’incenso attraverso il Deserto Arabico, seguire il tracciato dell’antica Via della seta, e realizzare una mappa dei siti della Guerra di secessione in Virginia. Mi spiegò che combinando le immagini digitalizzate in differenti lunghezze d’onda di luce infrarossa e radar, e poi «pestando i dati» con i computer, erano ormai in grado di vedere a una profondità di quasi cinque metri sotto la sabbia del deserto, di sbirciare attraverso la volta della giungla e persino di cancellare le strade moderne, rivelando la presenza di antiche piste.
I percorsi storici erano interessanti, ma io ero soprattutto affascinato dall’idea che la nuova tecnologia potesse permettere di scoprire altre città perdute come Ubar. Quando gli feci delle domande a questo riguardo, però, Blom divenne di colpo evasivo: «Mi lasci soltanto dire che stiamo prendendo in considerazione altri siti».
Gli scienziati sono dei pessimi bugiardi: compresi immediatamente che stava nascondendo qualcosa di grosso. Continuai a incalzarlo, finché non ammise che poteva trattarsi di «un sito molto importante, ma non posso parlarne. Sto lavorando per un soggetto privato, ho firmato un accordo di riservatezza. Si basa sulle leggende di una città perduta. Posso solo dirle che si trova da qualche parte nelle Americhe. Le leggende indicano un’area generale, e stiamo utilizzando i dati satellitari per localizzare gli obiettivi».
«L’avete trovata?»
«Non posso dire altro.»
«Per chi sta lavorando?»
«Non posso rivelare questa informazione.»
Blom accettò di riferire del mio interesse al suo misterioso committente e di chiedergli di telefonarmi, ma non poteva promettere che questi si sarebbe messo in contatto con me.
Divorato dalla curiosità per questa «città perduta», chiamai diversi archeologi del Centroamerica di mia conoscenza, i quali mi offrirono le loro congetture. David Stuart, all’epoca vicedirettore del Corpus of Maya Hieroglyphic Inscriptions Program del Peabody Museum di Harvard, nonché uno di coloro che avevano contribuito a decifrare i glifi maya, mi disse: «Conosco piuttosto bene quella zona. Parte di essa in pratica non è mai stata esplorata dagli archeologi. La gente del luogo mi raccontava sempre di siti che aveva visto andando a caccia nella foresta, grandi rovine con sculture. Per la maggior parte, sono storie vere; queste persone non hanno motivo di mentire». Gli stessi testi maya, aggiunse, contenevano suggestivi riferimenti a importanti città e templi che non avevano correlazione con nessun sito conosciuto. Era una delle ultime aree del pianeta dove poteva nascondersi un’autentica città precolombiana, rimasta inviolata per secoli.
Il compianto professore di Harvard Gordon Willey, specializzato nello studio dei Maya, menzionò subito la leggenda della Città Bianca. «Ricordo che quando ero in Honduras, nel 1970, giravano voci su un luogo chiamato Ciudad Blanca, la Città Bianca, lontano dalla costa. Erano solo chiacchiere da bar da parte dei soliti raccontaballe, e pensai che probabilmente si trattava di rupi di pietra calcarea.» Tuttavia, Willey era incuriosito al punto da voler verificare di persona. «Ma non sono mai riuscito a ottenere l’autorizzazione per recarmi laggiù.» Il governo honduregno rilasciava di rado dei permessi archeologici per esplorare quella zona isolata in mezzo alla giungla, per via della sua pericolosità.
Una settimana dopo, il committente di Blom mi telefonò. Il suo nome era Steve Elkins, e si descrisse come «un regista, un uomo curioso, un amante dell’avventura». Voleva sapere perché diavolo stessi sottoponendo Blom a un interrogatorio.
Risposi che intendevo scrivere un breve articolo per il «New Yorker» sulla sua ricerca di una leggendaria città perduta, qualunque cosa fosse. Accettò di parlarmene, seppur con riluttanza, ma solo a condizione che non specificassi il sito o il Paese in cui si trovava. In via confidenziale, alla fine confessò che in effetti stavano cercando la Ciudad Blanca, la Città Bianca, nota anche come la Città perduta del Dio Scimmia. Ma voleva che non rivelassi nulla di tutto ciò nel mio articolo finché non avesse avuto l’opportunità di confermarlo sul campo. «Si limiti a dire che è una città perduta da qualche parte nel Centroamerica. Non scriva che è in Honduras, altrimenti siamo fregati.»
Elkins aveva sentito le leggende sulla Città Bianca, sia indigene sia europee, che descrivevano una metropoli ricca e progredita, con un’estesa rete commerciale, nascosta tra le montagne della Mosquitia, rimasta intatta per secoli, così com’era il giorno in cui era stata abbandonata; sarebbe stata una scoperta archeologica di enorme portata. «Abbiamo pensato che utilizzando le immagini spaziali avremmo potuto localizzare un’area bersaglio e individuare dei siti promettenti» in vista di una successiva esplorazione sul campo, spiegò. Blom e il suo team si erano concentrati su un’area di circa 2,5 chilometri quadrati, che era stata denominata Target One, o semplicemente T1, dove sembravano esserci grandi strutture costruite dall’uomo. Elkins si rifiutò di scendere nei particolari.
«Non posso dirle di più, perché i dati delle immagini da satellite possono essere acquisiti da chiunque. Chiunque potrebbe fare quello che abbiamo fatto noi e prendersene il merito. Potrebbero anche saccheggiarli. Non ci rimane altro che andare laggiù, cosa che abbiamo in programma di fare questa primavera. Per allora,» aggiunse «speriamo di avere qualcosa da annunciare al mondo.»*
* Il breve articolo che scrissi per il «New Yorker» venne pubblicato sui numeri del 20 e 27 ottobre 1997.
3
«Lo aveva ucciso il diavolo»
Sacra, Cattolica, Cesarea Maestà: […] ho notizia di grandi e ricche province e di potenti signori che le governano […] ho saputo che dista dalla città di Trujillo otto o dieci giornate di cammino, ossia cinquanta o sessanta leghe. Le informazioni che ho avuto su di essa sono incredibili: si dice che, pur essendo di due terzi più piccola, supera in ricchezza la provincia di México e la eguaglia per la grandezza dei paesi, il numero degli abitanti e l’organizzazione.
Nell’anno 1526, Hernán Cortés redasse questo rapporto, la celebre «Lettera quinta» all’imperatore Carlo V, a bordo della sua nave ancorata nella baia di Trujillo, al largo della costa dell’Honduras. Gli storici e gli antropologi ritengono che questo resoconto, scritto sei anni dopo la conquista del Messico da parte del conquistador spagnolo, abbia piantato i semi per il mito della Ciudad Blanca, la Città del Dio Scimmia. Dal momento che il «México» – cioè l’impero ...