Il figlio maschio
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Il figlio maschio

  1. 320 pagine
  2. Italian
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Il figlio maschio

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Informazioni sul libro

Don Turiddu Ciuni non si dà pace: la moglie si è ostinata a far studiare tutti e dodici i loro figli, femmine comprese, e nessuno di loro vuole occuparsi del feudo di Testasecca. Siamo nel 1934 in terra siciliana, dove il primogenito Filippo dà al padre la delusione più grande aprendo una libreria e pure una casa editrice. Ed è proprio grazie al fratello sognatore che Concettina vede la possibilità di un futuro migliore. Ma il destino si divertirà a sovvertire ogni aspettativa, chiamando in causa non solo Concettina, ma anche le figlie e le nipoti. Una potente saga familiare con figure femminili d'indimenticabile forza e bellezza, tra calore siciliano e passione per i libri.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2017
ISBN
9788858691014

PARTE SECONDA

Il destino

10

Salvatore Fausto Flaccovio

Palermo, ottobre 1945

Ciccio, in piedi davanti alla scrivania del padre, toccò con cautela quel fiore che sembrava una scultura di ghiaccio. Con l’indice ne seguì il contorno. I petali avevano il bordo arricciato e si allargavano con eleganza verso l’esterno. Il centro era venato di azzurrino e denso come il muscolo di un atleta. Alla base della corolla c’era uno scrigno verde che si incastonava in un lungo gambo robusto, privo di spine, e interrotto a intervalli regolari da curiose nodosità.
Il bambino si soffermò su un gruppo di foglie dalla superficie muschiosa. I margini rigidi, dall’intenso color bronzo, erano illuminati da un raggio di sole e allungavano le loro ombre sul ripiano del tavolo, creando un magico labirinto nel quale il suo dito si mosse a zig zag.
Ogni mattina il fioraio arrivava con una rosa fresca. «Mettetelo in acqua ’stu ciuri, sinnò si spampina prima che il signor Flaccovio s’arricampa» si raccomandava. E subito la segretaria correva a riempire il vaso d’acqua, per la “rosa del soldato”, come la chiamavano in libreria.
Ciccio non si spiegava perché suo padre ci tenesse tanto. Aveva appena cinque anni, ma era vispo, precoce e acuto osservatore. I suoi occhi grandi, dall’intensa tonalità castana, erano due nocciole che si muovevano costantemente come rotolando su un piano inclinato. Affascinato dalla realtà che lo circondava, di ogni ambiente coglieva colore e sfumature, come fosse davanti a un quadro d’autore.
Quella mattina era rimasto incantato dal bianco assoluto di quel fiore solitario: sembrava brillare di luce propria. Ne aspirò il profumo. Il suo naso piccolo e impertinente, per via della punta dispettosa che tendeva verso l’alto, era una linea di confine che divideva le due metà del viso con una simmetria perfetta. Il profilo sinistro non si distingueva dal destro.
«Com’è bello, sembra un angioletto!» dicevano di lui le commesse e se lo contendevano. «Lasciatelo crescere» scherzavano tra di loro, «e altro che angioletto!» Poi, sospirando tutte insieme, concludevano: «Come il padre, del resto, buon sangue non mente».
La bellezza era il tratto distintivo della sua famiglia. Si facevano notare, i Flaccovio, quando alla domenica passeggiavano tutti insieme.
«Ciccio, che fai?» La voce del padre lo fece sobbalzare.
Il bambino non seppe rispondere.
«È una rosa d’autunno» gli spiegò. «Sono più grandi, più fragili e perciò interessanti.» Quindi si sedette.
Ciccio poté osservarlo da vicino. Salvatore Fausto Flaccovio era elegante e aveva un tratto aristocratico naturale. I capelli scuri, pettinati all’indietro, si piegavano in onde fitte e si frangevano sul colletto della camicia come un mare quieto a riva. Il viso era soffuso di una bellezza assoluta, che intimidiva. Gli occhi avevano un’espressione malinconica, a volte dolente, come se la sua intelligenza, al cospetto dei grandi temi esistenziali, avesse intuito un nucleo di verità e subito dopo, angustiata, se ne fosse ritratta. Prova ne era quel solco verticale che si faceva largo tra le sopracciglia.
La bocca al contrario era sorridente; le labbra, polpose e umide, sempre schiuse in un bacio e pronte al dialogo.
All’improvviso il bambino allungò la piccola mano e la poggiò su quella del padre; ne seguì il contorno, proprio come aveva fatto prima con la rosa. Pareva che volesse imprimere nella sua memoria le fattezze di lui e conservarle per quei lunghi periodi in cui l’uomo era assente da casa. Non voleva correre il rischio di dimenticarlo. A Ciccio suo padre piaceva ma, come per il fiore, non sapeva perché. L’uomo lo sollevò e se lo mise sulle ginocchia. Il profumo di lui e quello della rosa si mischiarono. Ne scaturì una intensa fragranza di muschio.
«Papà, perché la chiamano “rosa del soldato”?» chiese Ciccio curioso.
«È una storia complicata, ma se prometti di non dirla a nessuno te la racconto.»
Ciccio ci pensò su – c’era sempre un piccolo segreto che aleggiava nella sua famiglia –, poi si portò la mano al cuore e promise.
«Devi sapere che la guerra, qui da noi, è finita nell’estate di due anni fa. L’esercito tedesco scappò prima che arrivassero gli americani. Non tutti però se n’erano andati, qualcuno non aveva fatto in tempo e se ne stava nascosto in attesa di prendere il volo quando tutto fosse stato più calmo. Una mattina ne ho visto uno per la via Ruggiero Settimo, che scappava inseguito da un carro armato americano. Urlava e correva con il fucile tra le braccia. All’improvviso quel ragazzo si girò e cominciò a sparare, e il carro armato lo travolse.»
Il bambino si ritrasse spaventato.
«Sai, Ciccio, la morte non è tanto brutta se ti coglie in casa tra i tuoi affetti, ma andarsene così è terribile. La guerra non è mai giusta.»
«E che c’entra il fiore?»
«Provai pena per quel giovane, così andai a comprare una rosa e la poggiai sul suo corpo. Non pensai alle conseguenze di quel gesto, ché a passare per amico dei tedeschi c’era da farsi ammazzare. Per fortuna il carro armato si era già allontanato e io la feci franca. Ed è per ricordare quel povero soldato e tutti i morti inutili della guerra che il signor Formisano ogni giorno porta una rosa fresca.»
Ciccio aveva ascoltato il racconto fino in fondo. In un colpo solo aveva compreso perché gli piacevano entrambi, suo padre e la rosa.
«E ora lasciami lavorare.»
L’uomo cominciò ad aprire la posta, il figlio rimase tranquillo a osservarlo, beandosi della sua vicinanza.
Poi qualcuno bussò alla porta, interrompendo la loro intimità: «C’è una signora per lei» annunciò la segretaria.
La donna entrò con un tintinnare di braccialetti.
«Contessa!» esclamò mettendo giù il bambino, che se ne rimase attaccato alla giacca del padre. Lesto, Fausto scattò in piedi, s’inchinò e baciò la mano dell’ospite.
«Ancora con questa contessa! Hai forse dimenticato il mio nome?»
«Come potrei? Se non fosse stato per voi...»
«Per Filippo, vorrai dire» lo corresse.
«Ho saputo di vostro marito, ne sono addolorato.»
«È morto in ospedale. S’era ammalato in montagna quando era con i partigiani. Ma credo che il suo cuore non abbia retto alla distruzione delle nostre tipografie. Tu sai quanto ci tenesse alla casa editrice... Maledetta guerra.»
«Già, peggio di un’epidemia» sospirò lui. «E non c’è medico che possa fermarla. Santa Rosalia è stata capace di vincere la peste, ma con la guerra non ha potuto far nulla.»
«Non ci vediamo da molto tempo» sospirò Luisa.
«Eh sì.»
«Vedo che hai messo su famiglia.» La donna accarezzò la guancia del bambino, che si ritrasse infastidito. «Chi hai sposato?»
«Quella ragazzina che veniva a comprare i quaderni da noi...»
«... nonostante fosse la figlia del più ricco cartolaio di Palermo!» La donna gli aveva tolto le parole di bocca. «Dovevo immaginarlo, quella veniva per te. Era bellissima!»
«Lo è ancora.»
«E non mi dici altro?»
«Ho due figli.»
«Con una moglie così giovane, avrai tempo di farne molti altri. Io invece...»
Nei suoi occhi passò fugace un’ombra di malinconia.
«Sei sempre lo stesso. Solo qualche filo d’argento tra i capelli, ma devo ammettere che ti fanno più bello.»
La contessa non aveva perso l’abitudine di saltare da un discorso all’altro.
«Mi volete lusingare» si schermì Fausto con un’espressione furbetta che a Ciccio non sfuggì.
“Questo è di sicuro un altro segreto che la mamma non deve venire a sapere” pensò il bambino, e si girò di spalle.
«Scusatelo» disse Fausto mortificato, «è timido.»
«Direi intelligente, piuttosto» ribatté lei, curiosando tra i volumi impilati sulla scrivania. «Come va la libreria?» domandò distratta. Aveva l’aria salottiera di sempre: nulla la interessava davvero, ma ci teneva a informarsi di tutto.
«Che volete, c’è stata la guerra... Ma noi non abbiamo mai chiuso un giorno, nemmeno durante i bombardamenti» rispose lui, non riuscendo a trattenere un moto d’orgoglio. «Appena suonava la sirena, coprivamo gli scaffali con teli di stoffa per proteggere i libri dalla polvere, e ad allarme cessato tornavamo qui per riprendere da dove avevamo lasciato.»
«La mia libreria invece...» sospirò la Saracinelli.
«Ci passo davanti ogni sera» replicò Fausto, «è sulla strada di casa...»
«Fammi vedere la tua» lo interruppe la contessa, lasciando cadere il discorso.
Fausto ne fu contrariato, ma era abituato al suo atteggiamento capriccioso. «Ma certo» acconsentì, e le aprì la porta con un gesto galante.
Lei con piccoli passi raggiunse il centro del salone. I suoi tacchi a spillo risuonarono sulla graniglia grigio perla.
«Belli questi tavoli, e quanti volumi! Anche tu hai messo le poltrone comode per i lettori, questo te l’ha insegnato Filippo.»
L’uomo arrossì.
«Ti ricordi quanto si arrabbiò quando te ne andasti per metterti in proprio?»
«E chi se lo dimentica.» Fausto inarcò la schiena, curvò le spalle e cominciò a parlare imitando la voce gutturale del suo maestro: «“Prima Salvatore Sciascia, ora tu, bella gratitudine!” aveva urlato. Poverino, com’era deluso! “E poi che fai, diventiamo concorrenti?” Sembrava preoccupato che potessi portargli via clienti».
Luisa Saracinelli scoppiò a ridere. «Ma figurati» minimizzò con quel fare affettato di cui gli aristocratici fanno sfoggio persino di fronte alla morte.
«Certo, se voi non l’aveste rabbonito» aggiunse Fausto. «Siete stata voi a convincerlo che compito di un vero libraio è...»
«... seminare libri e far fiorire librerie» l’anticipò lei. «Ah, certo che è stato un periodo meraviglioso. Filippo aveva la vocazione, come un prete. In pochi anni quanti librai ha formato! Tu e Palumbo a Palermo, Sciascia che se n’è andato a Caltanissetta... Ha fatto scuola, mio marito» mormorò con la voce piena di tristezza. Per la prima volta la contessa Saracinelli appariva una donna fragile e bisognosa di aiuto. Fausto, con fare protettivo, la prese allora sottobraccio e la ricondusse nel suo studio. Ciccio, sospettoso, gli andò dietro.
Si sedettero, lei bevve un po’ d’acqua. Dei piccoli solchi le erano spuntati sopra gli zigomi. “Quelli non li aveva” notò il libraio. Il cuore gli si riempì di tenerezza e, ubbidendo al suo impulso, le offrì la rosa bianca.
«Ma è la rosa del soldato!» protestò Ciccio.
Il padre lo fulminò.
«E il vaso rimane vuoto!» continuò imperterrito il bambino.
«Ah, non sia mai!» La contessa fece il gesto di rimettere il fiore al suo posto. La sua bocca era atteggiata in un broncio delizioso che faceva concorrenza a quello del piccolo, ma l’uno era contrariato, l’altra divertita.
Fausto la guardò con ammirazione. “Un vero aristocratico non è mai in imbarazzo” constatò e ne prese nota. Poi con tono severo si rivolse al figlio: «Senti, Ciccio, se un giorno il tavolo rimane sguarnito non succede niente».
«E quel povero soldato? Non può essere!» replicò il bambino.
«Che storia è questa?» chiese lei incuriosita.
«Più che storia è leggenda» rispose lui, vago.
«Allora, non eravamo amici? Che sono questi segreti?» lo blandì la contessa. «Non ti fare pregare, raccontami perché quella rosa è così importante.»
Un uomo grande e corpulento, con i capelli impomatati e i baffi da carabiniere, era comparso sulla porta.
«Cara contessa, non si tratta di leggenda, ma di storia. Permette?» Il signore si tolse il cappello e s’inchinò: «Giuseppe Tomasi di Lampedusa, si ricorda di me?».
«Bibliothèque de la Pléiade, ma certo, mio marito si dannava per trovarle quelle pubblicazioni.»
L’uomo sorrise di gratitudine, poi si rabbuiò in viso: «Mi ha addolorato molto la morte di Filippo, era un grande libraio, senza di lui non avrei potuto avere testi importantissimi per le mie ricerche». Quindi, indicando Flaccovio: «Ora ci pensa lui, l’unico che è riuscito a lavorare anche durante la guerra. E poi ha una rara sensibilità letteraria, credo che suo marito ne avesse avuto la percezione».
Fausto arrossì: «Il principe, che mi onora della sua amicizia, è un grande letterato, voi lo sapete bene, contessa».
La donna annuì.
«Quello che non sapete è che sta scrivendo un romanzo bellissimo. A me ha dato qualche anticipazione, e mi sono persuaso che non solo è destinato a rimanere nella storia, ma farà la fortuna dell’editore che lo pubblicherà.»
«Principe, complimenti! Se un giorno volesse fare anche a me l’onore...»
L’aristocratico fece un cenno con la mano, non amava che si parlasse di lui.
«Scusatemi, adesso devo proprio andare.» E si congedò con un ampolloso saluto.
«Anch’io ho molte cose da fare» disse la contessa poco dopo, alzandosi dalla poltrona.
«Perché non rimanete ancora un po’?»
«Non posso, ho lasciato i bambini a Firenze e voglio vendere quel che rimane della libreria per tornare al più presto da loro.»
«Se lei mi permette, l’aiuterò io. La gratitudine, per quel che mi riguarda, non è un modo di dire.»
Ci andarono insieme, a piazza Verdi, il giorno dopo. La saracinesca, annerita e rovinata da macchie color ocra, era sul marciapiede all’angolo di via Volturno.
Entrarono cautamente nel locale, scansando i calcinacci che coprivano il pavimento. Il prezioso tavolo di...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il figlio maschio
  4. PARTE PRIMA. La passione
  5. PARTE SECONDA. Il destino
  6. PARTE TERZA. L’azzardo
  7. Nota dell’Autrice
  8. Ringraziamenti
  9. Indice