Il comportamento
Oggi sappiamo con certezza scientifica che il comportamento dell’uomo (tutto intero) dipende da tre fattori: la biologia, la storia personale a partire dall’infanzia, l’ambiente in cui egli vive e agisce.
In questi tre fattori si sottolinea un principio base dell’antropologia: il rapporto uomo-ambiente, con l’aggiunta però della storia di ciascun individuo.
E così si ritorna anche a quella concezione dell’essere umano non come oggetto definito ma in fieri, fatto del proprio passato e che risente persino dell’archeologia della specie.
Per comprendere un comportamento, qualsiasi esso sia, è indispensabile conoscere e valutare questi tre aspetti, e l’analisi di ciascuno necessita di metodologie adeguate ora alla biologia (del corpo umano), ora alla raccolta storica e ora allo studio della dinamica interpersonale e comunitaria.
Fattore biologico
Oggi per biologia s’intende soprattutto la componente genetica, che segna l’appartenenza alla specie, ma allo stesso tempo stabilisce anche l’individualità che garantisce l’unicità del singolo uomo.
La genesi biologica parte dalla combinazione dell’assetto dei geni (Dna) contenuti nei cromosomi dell’uovo femminile e in quelli dello spermatozoo. Questo è il codice che determina la composizione prima del feto, poi del neonato, e che conduce, attraverso l’arco esistenziale, alla senescenza e alla morte.
Il codice genetico guida la costruzione degli organi e dunque anche dell’encefalo che, certamente, è il riferimento anatomico per il comportamento: coordina l’attività del corpo, ma influisce anche sulla relazione che il corpo instaura con il mondo.
È però necessario, parlando di biologia umana, soffermarsi sull’encefalo, poiché, pur seguendo i dettami del codice, acquisisce una strutturazione che non è deterministica in senso completo, come accade per il colore della pupilla o per la conformazione scheletrica.
Una delle più rilevanti scoperte del Novecento relative alla biologia dell’encefalo è quella definita del «cervello plastico», un’area che si distingue dal cervello fissato (o deterministico) essendo capace di strutturarsi sulla base dell’esperienza. Questa scoperta ha completamente abolito l’immagine del cervello come un cristallo, poiché, se è indiscutibile che una sua parte è «cristallina», è altrettanto vero che ne possiede anche una plastica, che comprende, per dirla in maniera schematica, i lobi frontali e parte dei temporo-parietali.
Il cervello ha come elementi costitutivi i neuroni (86 miliardi) che diventano funzionalmente attivi quando si connettono attraverso le sinapsi, costituendo quella che si chiama una «struttura funzionale».
Se la parte del cervello deterministica è costituita da circuiti fissati, possiamo immaginare quella plastica formata da neuroni che si legano sulla base delle esperienze e, solo su questo stimolo, costituiscono delle strutture via via più complesse.
È noto che la differenza fra il cervello umano e quello dei primati non sta tanto nei neuroni, ma nella ricchezza delle loro connessioni (la rete interneuronale), che per alcuni può arrivare a contarne fino a diecimila.
Il cervello plastico, dunque, ha la capacità di costruire strutture che non sono geneticamente fissate. Ecco perché non si può, parlando di biologia dell’encefalo umano, limitarsi ai geni contenuti nei suoi 46 cromosomi.
Questa scoperta propone oggi il tema affascinante di una doppia genetica: oltre a quella molecolare, che è stata ben studiata e che risponde al dogma «un gene-una molecola», occorre aggiungere una genetica della plasticità, poiché la scoperta del cervello plastico non implica una fuga dal gene. Sarebbe assurdo, poiché potrebbe generare strutture antibiologiche che sarebbero contro l’evoluzione. L’isomorfismo deve essere rispettato, il che significa che questa nuova genetica permette «disposizioni a», ma non tutte quelle teoricamente possibili.
Il cervello plastico ha gradi di costruzione molto vasti, ma non infiniti: essi garantiscono l’isomorfismo, il cui principio è quello di mantenere viva la plasticità come facilitazione a adattarsi all’ambiente.
Il tema della plasticità solleva un problema scientifico, ma rivela anche il fascino delle neuroscienze.
Per riportare questo ambito straordinario alla psichiatria, occorre fare cenno anche a una mia opera del 1980, La terza via della psichiatria, dove esprimo, per primo, l’idea che il campo della psichiatria dal punto di vista biologico è dato dal cervello plastico, giungendo così a separare nettamente il dominio della psichiatria da quello della neurologia, che si occupa delle funzioni e disfunzioni del cervello determinato.
Esiste un altro aspetto del cervello umano che ha una particolare importanza per la psichiatria: la memoria dei sentimenti.
Il campo delle memorie è sempre più affascinante. Un contributo speciale è derivato proprio dalla scoperta del cervello plastico, poiché le memorie (verbale, delle immagini, numerica, semantica, del racconto, procedurale…) sono essenziali per la comprensione e per l’educazione.
Ma se tutte queste appartengono ai linguaggi, più «misteriosa» è la memoria dei sentimenti, che rappresenta il punto centrale dei cosiddetti «vissuti».
Potremmo definire la psichiatria anche come la «disciplina dei vissuti», differenziandola quindi nettamente dalle scienze esatte, che si fondano sui fatti oggettivi, sul principio che una cosa non può essere contemporaneamente un’altra o trovarsi in un luogo differente. Il vissuto si lega ai fatti, ma allo stesso tempo li interpreta e quindi fa loro assumere un particolare significato: quello che Hans Vaihinger, in Die Philosophie des Als Ob (1911) chiama «come se».
Il vissuto può anche legarsi a un non-evento, che comunque è come se fosse accaduto.
Sono convinto che la memoria dei sentimenti, che dà al mondo una colorazione soggettiva, sia a fondamento della storia personale, della traccia che rende possibile individuare un filo che tiene unito il tempo vissuto, e quindi anche la narrazione che ciascuno di noi può fare di se stesso.
Le memorie hanno un fondamento biologico così rilevante da aiutare a capire una delle caratteristiche della vita umana: non è fatta di eventi, ma di vissuti.
È così anche per l’immaginazione, per la costruzione dell’«isola che non c’è» e che tuttavia può diventare, una volta immaginata, più incisiva di una che c’è, ma che è «come se» non ci fosse, se manca del vissuto.
Il sogno, che gode di una posizione privilegiata nelle psicologie e in particolare nella psicoanalisi, fa parte delle esperienze vissute esattamente come i fatti di cronaca. Pesca nelle memorie (a cui deve legarsi il termine «inconscio»), ma ha un riflesso sulle funzioni somatiche. Un incubo attiva tutti i meccanismi circolatori, cardiaci, respiratori dei sistemi dell’ansia nello stesso modo in cui accade quando si è sottoposti a un evento traumatico reale. Ed è impressionante il dato che lega molti casi di decesso notturno ai sogni che possono provocare nell’organismo uno stress acuto e particolarmente intenso, tale da produrre lesioni letali agli organi. Nel sogno si può avere a che fare con un mostro o trovarsi in una fossa di serpenti, cose impossibili (o improbabili) nel proprio mondo quotidiano.
Anche un sogno erotico corrisponde a un’attivazione cerebrale che ripete esattamente ciò che accade in una relazione sessuale agita nella realtà.
Il tema della biologia, in particolare del cervello, mi potrebbe indurre a destinargli uno spazio qui sproporzionato. La ragione risiede in tutti gli anni che ho speso con passione nella ricerca in laboratorio sul cervello, prima di dedicarmi alla clinica.
Mi sembra però che almeno un altro punto vada richiamato, ed è il superamento del dualismo cervello-mente.
Oggi, in particolare grazie alle tecniche di brain imaging che permettono di visionare l’attività cerebrale mentre si manifestano i comportamenti, sappiamo che la mente è la funzione del cervello.
La mente emerge cioè dal cervello con distinzioni specifiche legate ai diversi luoghi anatomici e alle differenti strutture (determinate o plastiche) che si attivano per realizzarne le diverse espressioni.
Rimangono ancora separati i linguaggi (quello molecolare e quello psicologico), ma permane la speranza di Freud, espressa nel suo Compendio, di poter forse un giorno riportare la mente al linguaggio della biologia: «Può darsi che in futuro qualcuno ci insegnerà come influenzare direttamente, con speciali sostanze chimiche, le quantità energetiche e la loro ripartizione nell’apparato psichico. Forse verranno alla luce altre funzionalità della terapia che adesso non possiamo neppure sospettare, per ora non abbiamo nulla di meglio a disposizione che la tecnica psicoanalitica; per questo nonostante i suoi limiti, non bisognerebbe disprezzarla».*
Di certo oggi sappiamo che pensare un desiderio comporta l’attivazione di aree cerebrali, e che persino il desiderio, tipica espressione della mente, è il risultato di un’attivazione di circuiti cerebrali.
Questa posizione netta del problema brain and mind non comporta certamente una conclusione materialistica, ma permette di chiarire che, se c’è un’anima, non ha nulla a che fare con la mente, che è sinonimo di cervello.
E, del resto, le caratteristiche che contraddistinguono l’anima (se l’anima c’è), sono l’immaterialità e l’immortalità. Rimane assodato che con la morte dell’uomo, ma anche soltanto con quella del cervello, ogni funzione cosiddetta «mentale» scompare.
Questi riferimenti alla biologia genetica e del cervello permettono di affermare che questo fattore è una parte essenziale, benché non l’unica, del comportamento umano. Ed è, pertanto, da considerare superato il riduzionismo biologico del comportamento stabilito dal positivismo di Jacob Moleschott, di Oskar Vogt e di Cesare Lombroso.
Come è priva di senso la concezione che ne è derivata, relativa alla follia: quella di una degenerazione congenita che ha portato alla teoria del criminale nato.
Personalità
Il secondo fattore che contribuisce a caratterizzare il comportamento dell’uomo è dato dalle esperienze, e quindi dai vissuti che ciascuno sperimenta a partire dalla vita intrauterina (dal quinto mese e mezzo di gestazione il feto è in grado di percepire, per esempio, i suoni acuti come il battito cardiaco e la voce della madre).
Le esperienze, a propria volta, formano la personalità. Non è certo immaginabile che ciascuno sia qualcosa a sé stante, poiché vi sono elementi della struttura di una personalità che possiamo definire come un denominatore comune della specie. E ciò è garantito dalla biologia, che dà una costruzione fondamentalmente simile al genere umano e che, dunque, rende anche l’ambiente in cui tutti vivono qualcosa di comune. Viene in mente l’affermazione di Kant, secondo cui l’uomo non conosce il mondo com’è, poiché il processo della conoscenza è condizionato dalle categorie a priori (biologiche) della mente. È certo comunque che esse permettono un riconoscimento che è proprio della specie. Le categorie sono comuni e ci consentono di vedere il mondo con delle distorsioni che sono, però, caratteristiche a priori per tutti.
Ciò che rende individuale la personalità sono i vissuti, quel «come se» che dipende dall’interpretazione che ciascuno dà alla relazione interpersonale e al rapporto con l’ambiente fisico.
L’ambiente, dunque, rimane uno sconosciuto e noi lo percepiamo in maniera diversa, anche se comune per le categorie a priori; a conferirgli dimensione individuale sono i nostri vissuti.
Il vissuto dell’uomo dipende in gran parte dalla dimensione affettiva, che diventa una vera e propria colorazione del mondo. Di fronte a uno stesso evento, ciascuno di noi propone infatti una versione che può variare in rapporto al modo in cui viene percepito, benché quell’espressione singola si riferisca a un’esperienza sensorialmente identica per tutti gli uomini.
Davanti a un violento temporale, possiamo avere una reazione piacevole, come se fossimo a una festa e ci divertissimo ad ascoltare il rumore assordante dei mortaretti e a guardare la luce dei giochi pirotecnici, oppure possiamo attivare una reazione di terrore, quasi fossimo sotto un bombardamento aereo o coinvolti in una catastrofe.
È evidente che per capire le modulazioni possibili del rapporto tra io e ambiente dobbiamo osservare dinamicamente la costruzione della personalità, che dipende dalle esperienze e dai vissuti del singolo.
Si tratta di una costruzione che continua lungo tutto l’arco vitale e che quindi rende artificiosa e puramente convenzionale la distinzione della vita in fasi (fase della crescita, fase della maturità e fase del declino).
La personalità di ciascun uomo è e rimane sempre in divenire.
A questo punto s’impone una condizione: perché avvenga una costruzione della personalità e perché questa possa rappresentarsi, serve una memoria dei vissuti. Se, per assurdo, i vissuti si consumassero mentre se ne ha esperienza e non lasciassero alcuna traccia, non sarebbe possibile ipotizzare la personalità come una storia, come un racconto continuo.
Ogni vissuto si chiuderebbe in un attimo esistenziale che si cancella subito per lasciare spazio al successivo e al successivo ancora. Una serie di impressioni che, tuttavia, ogni volta riportano a zero il passato.
Se vogliamo ricorrere a un concetto informatico, si attiverebbe un reset su ciascun evento che nel singolo diventa un vissuto.
La personalità, invece, è un continuum e potremmo dire che è la somma dei vissuti; non solo, si tratta di una somma non aritmetica ma combinatoria o, addirittura, per usare la terminologia matematica, sistemica.
Per rendere più agevole la comprensione di questo concetto, mi pare utile richiamare il fenomeno dell’abitudine. Un tema complesso, ma straordinario, poiché dimostra come la ripetitività di una esperienza condizioni il come essa viene vissuta.
Se di fronte a quel nubifragio la mia risposta è stata drammatica, quasi fossi stato preso dalla paura di morire, quando mi troverò di nuovo di fronte a un violento temporale, alla memoria aggiungerò la consapevolezza dell’esperienza appena passat...