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Dicono che un figlio ti cambi la vita, Alessandro Di Battista preferisce credere che la rivoluzione vera parta anche da un modo diverso di vivere la paternità, mettendosi in gioco fino in fondo per costruire una felicità a portata di tutti. In questo saggio racconta l'Italia che vede dalle piazze, quel Paese che si capisce solo uscendo dal Palazzo, una folla sempre più numerosa di persone che chiedono di poter partecipare attivamente alla politica per difendere la propria libertà. Attraverso un diario intimo e delicato di un giovane uomo che scopre i suoi sentimenti davanti a una nuova vita - tra pannolini e veglie notturne, come è già avvenuto a miliardi di genitori e continuerà ad accadere ancora ad altrettanti -, emerge una visione diversa di come si possa fare politica liberamente. Non solo candidandosi al Parlamento, ma anche informandosi, scrivendo, scegliendo di acquistare un prodotto piuttosto di un altro, controllando l'operato dei politici e persino decidendo consapevolmente di essere genitori. Una scelta di vita, dopo anni in prima linea, che non è e non deve essere la fine di un cammino, ma un nuovo modo per continuare a percorrere le strade dell'impegno civile. Perché "si può fare politica anche educando un figlio, insegnandogli a essere libero, sufficientemente ribelle e, soprattutto, a non avere paura".

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2017
ISBN
9788858691762

PARTE SECONDA

Nove mesi prima…

Nel ventre della politica

Il 23 ottobre 2016, esattamente undici mesi prima del giorno in cui le si sono rotte le acque, conobbi Sahra in un locale in via Guido Reni, a Roma. Io ero da poco tornato dal tour in scooter e mi sentivo indistruttibile, lanciato verso nuovi orizzonti, non per forza «istituzionali» ma comunque ambiziosi e solitari.
Mi ha travolto. Se penso a quella sera mi pare che tutti in quel locale fossero in bianco e nero. Solo Sahra era a colori.
Parlammo poco. Venivamo continuamente interrotti da qualcuno che voleva fare due chiacchiere con me o scattare una foto. Ci scambiammo il numero di telefono e ci salutammo. Tornando a casa in bicicletta caddi. Una brutta caduta: bici semidistrutta, jeans strappati, polso slogato e sulla mano mi ero procurato una grossa ferita da cui usciva un bel po’ di sangue. Sembrava che mi avesse aggredito un cane.
Quando cadi dalla bici la prima cosa che fai, per lo meno io, è assicurarti che non ti abbia visto nessuno. D’istinto il timore di aver fatto una figuraccia è più forte del dolore. Accertatomi di essere solo, sono salito a casa, mi sono medicato la ferita e ho mandato a Sahra una foto dei pantaloni distrutti raccontandole l’accaduto. Le scrissi che il nostro primo incontro mi aveva fatto sanguinare e che era una vita che speravo che ciò avvenisse. Non credo di essermi spiegato bene considerando la sua reazione smarrita. Mi avrà preso per un Emo.
Da tempo volevo incontrare una ragazza che mi aprisse il cuore anche se sapevo che, per chi è abituato a custodirlo come me, il rischio era di farmi male.
Assieme alle ferite inevitabili che ogni storia d’amore porta con sé è però arrivato molto altro. Non soltanto un figlio. Ma anche la certezza che c’è tanta vita al di fuori dei Palazzi che, in parte, mi hanno risucchiato negli ultimi anni. Che ci sono persone folli che aspettano persone altrettanto folli per portare avanti un progetto di vita insieme. Che esiste una ragazza che ha voglia di partire con me e un bambino piccolo per andare a esplorare le strade del mondo.
Quelle strade sulle quali potrò continuare a fare politica già soltanto per il fatto che ho scelto di percorrerle.
Anche il mio altro grande amore, la politica, mi ha riservato dolori e sofferenze. Il giorno più drammatico della mia esperienza come parlamentare è senz’altro stato il 20 aprile 2013. Quel giorno il Parlamento rielesse Giorgio Napolitano presidente della Repubblica. Non era mai successo nella storia repubblicana che venisse eletto lo stesso presidente per un secondo mandato, ma d’altro canto non era neppure mai successo che un intero gruppo di parlamentari «sconosciuti», liberi, senza nessuno che avesse finanziato le loro campagne elettorali e con la voglia di rovesciare il sistema fosse entrato in massa nelle istituzioni.
Le due cose sono correlate. Se il Movimento 5 Stelle non avesse rappresentato una minaccia per i partiti, Pier Luigi Bersani, Mario Monti e Silvio Berlusconi non sarebbero mai saliti al Quirinale per concordare con Napolitano la sua rielezione e la conseguente benedizione del primo governo dell’inciucio fatto alla luce del sole. Sì, perché di fatto centrodestra e centrosinistra hanno sempre governato assieme ma lo facevano in maniera clandestina: di giorno gli uni a fare leggi vergognose e gli altri a lasciargliele fare senza alcuna opposizione degna di chiamarsi tale; la sera, nei talk show, di fronte ai loro elettori, a recitare la parte degli acerrimi nemici. Per anni ci sono cascato anch’io. Poi ho avuto il privilegio, se di privilegio si può parlare, di guardarli in faccia, non da dietro uno schermo televisivo.
Non dimenticherò mai quelle giornate. Il Pd era in estrema difficoltà. Gli attivisti del Movimento attraverso il web si erano espressi e il nostro candidato a presidente della Repubblica era Stefano Rodotà. Rodotà era un galantuomo, una persona onesta e preparata. Non aveva alcun legame con il Movimento, al contrario proveniva dall’area di sinistra, doveva essere il candidato ideale del Pd ancor prima di esserlo per noi. Era addirittura stato presidente del Partito democratico della sinistra, progenitore del Pd. Io ero molto ingenuo allora e non riuscivo a comprendere le ragioni per le quali i grandi elettori del Pd non lo volessero votare.
Il giorno prima della rielezione di Napolitano incontrai fuori dal portone di Montecitorio l’attuale ministro per la Semplificazione e la Pubblica amministrazione, Marianna Madia, insieme a Giuseppe Civati, uno dei tanti che ha lasciato il Pd in questi anni. Marianna la conoscevo già, avevamo fatto i catechisti nella stessa parrocchia. Con Civati avevo scambiato qualche parola e mi era sembrato uno dei pochi che propendesse per Rodotà come presidente della Repubblica.
«Mi spiegate perché Bersani non vuole Rodotà?» li interrogai io.
Entrambi mi risposero che avevano scelto Romano Prodi, che il loro partito sarebbe stato compatto, che era il candidato migliore di tutti.
«Prodi?» risposi io. «Ma non lo capite che con Rodotà si aprirebbe una pagina del tutto nuova della storia d’Italia? Le leggi ad personam diventerebbero un ricordo e finalmente il Parlamento approverebbe una norma sul conflitto di interessi: non siete voi che ne avete parlato negli ultimi vent’anni?»
Lo ammetto, all’epoca il mio unico pensiero politico era abbattere Berlusconi. Mi avevano indignato i suoi comportamenti, mi indignavano le sue conoscenze, da Marcello Dell’Utri, poi condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, a Vittorio Mangano, mafioso e assassino che per qualche tempo lavorò, stranamente, ad Arcore per la famiglia Berlusconi. Mi indignava il modo in cui, a causa sua, ci consideravano nel resto del mondo: un branco di creduloni governati da un uomo che in moltissimi altri Paesi neppure si sarebbe potuto presentare alle elezioni. Durante gli anni universitari andavo in giro con una maglietta con la scritta «Io non ho votato Berlusconi» in dieci lingue diverse. Ci tenevo a marcare la differenza. Oggi quella stessa maglietta la metterei ugualmente, ma ci aggiungerei con un pennarello, in fondo: «Ma quelli del Pd sono peggio!».
Civati e la Madia erano entusiasti di Prodi. Mi raccontarono che tutto il gruppo parlamentare lo era. Bersani, durante un’assemblea del partito, aveva proposto il Professore come candidato e, a detta loro, la reazione dei deputati e dei senatori del Pd era stata una standing ovation.
«Vedremo» dissi io ed entrai alla Camera.
Altro che standing ovation! Prodi venne affossato da 101 franchi tiratori, venne ucciso, politicamente, dal fuoco amico del Pd, il partito che aveva contribuito a fondare.
Quel giorno fuori Montecitorio s’era radunata moltissima gente. Erano sostenitori del Movimento ma anche del Pd e di altri partiti di sinistra. Tutti chiedevano a gran voce l’elezione di Rodotà a presidente della Repubblica.
Una volta bruciato Prodi il Pd si trovava in un vicolo cieco. Erano inspiegabili le ragioni per le quali si ostinavano a rifiutare Rodotà. Ricordo che fuori dalla Camera rilasciavo le mie prime interviste.
«E adesso cosa si fa?» continuavano a domandarmi schiere di giornalisti come se io avessi la cura per la schizofrenia del Pd.
«È inutile che facciate a me questa domanda, noi siamo in minoranza qui dentro. Abbiamo un nostro candidato ed è Stefano Rodotà. Neppure viene dal nostro mondo, teoricamente sarebbe molto più legato al Pd. Andate dai loro parlamentari e domandategli perché Rodotà no, perché io non l’ho ancora capito.»
In effetti, allora non capivo. Credevo che il loro fosse semplicemente un atteggiamento infantile. Credevo che non ce la volessero dar vinta. In Parlamento qualche deputato del Pd mi aveva fatto credere che questa poteva essere la ragione: «Ma non lo capisci che se votiamo Rodotà vincete voi?».
Io non riuscivo a comprendere questo ragionamento. Ma cosa diavolo significava che avremmo vinto noi? Le elezioni c’erano già state e il Movimento le aveva già vinte. E alla Camera i nostri deputati erano meno della metà di quelli del Pd perché questo aveva ottenuto, in coalizione con Sel (poi passata all’opposizione), il premio di maggioranza previsto dal Porcellum, giudicato successivamente incostituzionale dalla Consulta. E allora perché continuavano a parlare di vincitori e vinti?
Ripeto, all’epoca ero ingenuo, molto ingenuo.
L’unica cosa che mi interessava era dare al Paese un ottimo presidente della Repubblica. Tutto qui. Semplice nella mia testa, evidentemente non in quella degli altri parlamentari.
La frase «Se votassimo Rodotà vincereste voi» nella notte si era trasformata in un’altra frase: «Avete vinto voi, avete vinto voi. Ci avete distrutto!». A dirmi queste parole fuori dalla Camera quello stesso giorno, quasi a mezzanotte, fu Alessandra Moretti, deputata del Pd, all’epoca figura emergente del suo partito. Bersani l’aveva infatti nominata portavoce del comitato nazionale del partito poco prima delle elezioni politiche del 2013. Proprio Bersani, dopo che il suo partito aveva impallinato Prodi, aveva da poco rassegnato le dimissioni da segretario del Pd.
Trovai la Moretti appoggiata a Palazzo Montecitorio tra la piazza e via Uffici del Vicario. Era in compagnia di una collega e stava piangendo.
«Ci avete ammazzato, il Pd è distrutto, Bersani si è dimesso.»
Vi do la mia parola d’onore: era disperata. Se da un lato non potevo non gioire delle disgrazie di un partito che ho sempre ritenuto responsabile del baratro in cui era precipitata l’Italia, dall’altro vedere una giovane donna così sconsolata non dico che mi mosse a compassione, ma mi spinse a dirle qualche parola di conforto. Non avevo mai parlato con lei, ma ovviamente sapevo chi fosse.
«Guarda che qua non è mica una gara, qua si tratta soltanto di eleggere un buon presidente della Repubblica e non lo abbiamo ancora eletto. Ma scusa, votate Rodotà domani, non perderebbe nessuno, noi da soli non possiamo mica eleggerlo. Vincerebbe soltanto il Paese, non credi?»
La Moretti non rispose. Ci salutammo e me ne andai.
Non presi subito la strada di casa, ero eccitato da quella giornata. Credevo che l’indomani il Pd, messo alle strette, avrebbe votato Rodotà e mi sentivo protagonista di tutto ciò. Non avevo sonno e girovagai per il centro di Roma fino a notte fonda. Passeggiai per Campo de’ Fiori, non c’era più nessuno in strada, solo i mezzi della nettezza urbana che ripulivano la piazza. Arrivai a piazza Farnese, poi camminai per via Giulia. Poi piazza Navona, piazza delle Cinque Lune fino a tornare a Montecitorio dove avevo parcheggiato il motorino. Tornai a casa verso le cinque del mattino, dormii tre ore e l’indomani feci ritorno alla Camera.
Prima di entrare mi fermò un giornalista. «Hai visto? Rifanno Napolitano.»
«Napolitano?» Non potevo crederci. Camminando per le vie di Roma la notte prima avevo provato a immaginare ciò che sarebbe potuto accadere. Avevo tentato di prevedere le mosse del Pd, quelle di Berlusconi. Avevo pensato a ogni eventualità, ma mai alla rielezione di colui che è stato il peggior presidente della storia repubblicana.
L’amnesia collettiva è uno dei drammi che affligge il nostro popolo. Noi italiani siamo incredibilmente smemorati. Io ho sempre considerato la memoria un’arma in mano ai cittadini, una delle armi più importanti per la loro indipendenza. Ho parlato ovunque di Giorgio Napolitano, ne ho denunciato i comportamenti in tutte le reti televisive d’Italia pronunciando parole forti, spesso a rischio querela. Ho raccontato quel che ha fatto nella sua interminabile carriera politica. Napolitano è il politico che più detesto e rivendico il diritto di poter odiare, politicamente, qualcuno. Napolitano è sempre stato il rappresentante in Italia di ogni forma di imperialismo. Da giovane comunista, nel 1956, tre anni dopo la sua prima elezione alla Camera dei deputati – entrò in Parlamento nel 1953, l’anno della morte di Stalin! – difese a spada tratta i carri armati sovietici che massacrano gli studenti che a Budapest rivendicavano libertà. Sempre dalla parte dei più forti, e ostinatamente contro il diritto da parte dei popoli di emanciparsi. Napolitano era il ministro degli Esteri dell’allora Partito comunista italiano e aveva rapporti con tutta la nomenklatura dell’Urss, eppure anche dall’altra parte del mondo, nell’avamposto del capitalismo, in «Estremo Occidente», non era poi così mal visto. Fu il primo comunista italiano invitato negli Stati Uniti. Ottenne un visto stranamente molto lungo e partì per l’America durante i giorni del sequestro Moro. Kissinger, potentissimo segretario di Stato sotto la presidenza Nixon l’ha sempre stimato e arrivò a definirlo «il mio comunista preferito». E per gli interessi made in Usa Napolitano ha fatto sempre il lavoro sporco.
È stato lui a spingere Berlusconi a calarsi le braghe di fronte ai diktat di Obama e Sarkozy in merito al bombardamento della Libia e alla deposizione violenta di Gheddafi. Io disprezzo ogni forma di dittatura ma ho sempre pensato che sia compito dei popoli sovrani abbattere i dittatori, non delle bombe straniere e di coloro che decidono di sganciarle non certo perché interessati alle libertà dei popoli. Gheddafi, che dittatore era, ebbe il torto di voler gestire il petrolio libico. Per questo l’hanno ammazzato, non per il trattamento che riservava agli avversari politici, non per il suo arricchimento personale a danno dei cittadini, non per le violazioni dei diritti umani che si registravano nelle carceri del suo Paese.
Berlusconi si è piegato. Sono convinto che mai e poi mai avrebbe voluto avallare l’intervento militare illegale e criminale in Libia, ma il fatto che ciò sia avvenuto contro la sua volontà invalida ancor più la sua già modesta statura politica.
Kissinger non sarà stato l’amico di una vita per Napolitano ma, come pare abbia detto lui stesso, l’amico della seconda parte della sua vita.
Quando ero adolescente mio padre mi parlava di Giorgio Almirante, lo stimava molto. Conosceva anche Gianfranco Fini e, prima di essersi sentito tradito, credo che stimasse anche lui. Mi portò a qualche suo comizio; io all’epoca ero molto giovane, ma ascoltavo con attenzione e mi pareva parlasse bene.
Eppure, forse per puro spirito da antagonista, strizzai l’occhio all’altra parte. E così iniziai a frequentare le feste dell’Unità, a leggere gli scritti di Antonio Gramsci e di Pier Paolo Pasolini, ad ascoltare le parole di Enrico Berlinguer.
In seguito mi capitò di incontrare Fini, ancora non indagato per riciclaggio nell’ambito dell’inchiesta sull’immobile di Montecarlo, negli studi di Otto e mezzo, la trasmissione di approfondimento condotta da Lilli Gruber. Un giorno la redazione mi propose un confronto con lui e io accettai l’invito.
Al termine della diretta Lilli Gruber offre sempre un prosecco ai suoi ospiti. Io ero lì sul divanetto davanti ai camerini quando mi si avvicinò Fini, mi fece i complimenti per il mio intervento e mi chiese notizie di mio padre. Gli dissi che stava bene e che lottava ogni giorno per le sue idee.
«Salutamelo» disse Fini.
«Lo farò, ma non credo apprezzerà, piuttosto, presidente, mio padre vorrebbe indietro i 10 euro che le diede come donazione quando mollò Berlusconi per fondare Futuro e libertà.»
Quando Fini, nel settembre del 2010, allora presidente della Camera, in procinto di lasciare il Popolo della Libertà radunò i suoi a Mirabello, vicino Ferrara, mio padre decise infatti di partecipare all’incontro. Io ero in America Latina ma gli mandai una mail suggerendogli di non fare stupidaggini. «Guarda che ti prenderanno in giro ancora una volta, come a Fiuggi nel 1994» gli scrissi.
Il Movimento 5 Stelle era nato da poco meno di un anno ma già me lo sentivo cucito addosso e volevo che anche mio padre, da sempre un grande sostenitore di Beppe Grillo, ne facesse parte. Ma si sa come sono i nostalgici, si aggrappano ai loro mondi anche se sono più che defunti.
Mio padre andò a Mirabello e mi raccontò di aver donato 10 euro per l’organizzazione di quell’evento. Quando seppe che avrei incontrato Fini negli studi di La7 pretese che gli chiedessi indietro il denaro. E così feci. Dissi a Fini, seriamente, che mio padre si era sentito tradito dai suoi comportamenti, dalla sua debolezza, dal suo appoggio a Monti e che rivoleva i 10 euro.
«Quanto è forte tuo padre» commentò Fini, ma la mano nel portafogli non se la mise.
Sempre negli studi di Otto e mezzo, qualche mese dopo, incontrai un altro «grande vecchio», Eugenio Scalfari. Scalfari per me è il Napolitano del giornalismo italiano. Anch’egli sempre da parte dei potenti e contrarissimo a chi lotta per ottenere quote di sovranità.
Quando arrivai negli studi di La7 lui era seduto su quello stesso divanetto. Portava un maglione rosso e si aggrappava a un bastone. Io l’avevo sempre attaccato, per me anch’egli era l’emblema della restaurazione a ogni costo. Ma vederlo anziano, anche piuttosto confuso, mi indusse a trattarlo con il massimo rispetto.
«Finalmente un grillino» disse lui stringendomi la mano. Mi guardava come se fossi un alieno, non so, forse si immaginava che sarei entrato in quegli studi con una clava in mano, vestito di pelli di leopardo. Invece ero in giacca e cravatta e mi ero anche fatto la barba. Lui era freddo e avvertivo un grande rancore nei miei confronti, ma io ero sicuro di me e molto sereno.
Per rompere il ghiaccio gli ricordai l’intervista che proprio lui aveva fatto a Berlinguer nel 1981. Fu con quell’intervista che Berlinguer lanciò l’allarme sulla «questione morale». Berlinguer, segretario del partito più organizzato, leader di una macchina di propaganda e di una struttura estremamente compatta si scagliò con grandissimo coraggio contro la partitocrazia, ovvero il governo dei partiti, utilizzando parole durissime. Le leggo spesso queste sue parole. Descrivendo la degenerazione dei partiti politici Berlinguer disse, tra l’altro, che questi avevano occupato tutto: dalle istituzioni alle banche, dalla sanità pubblica alle università, passando per la Rai e i grandi giornali.
Lo disse nel 1981, ancora non erano nati i clan Renzi, Boschi e Verdini. Berlusconi era soltanto un imprenditore. Eppure Berlinguer pare stesse parlando di loro.
A Scalfari feci i complimenti per quell’intervista, ma lui rispondeva solo con «vuote invettive» contro di me. «Vuote invettive», proprio come Napolitano descrisse allora le parole di Berlinguer sulla questione morale. Continuava a ripetere come fossi eterodiretto, una marionetta in mano a Grillo. Io smentivo punto su punto quei suoi luoghi comuni ma non c’era verso, era come parlare a un muro.
Era la prima volta che mi confrontavo con Scalfari. Tuttavia l’avevo incontrato in precedenza in un ristorante, piuttosto lussuoso, ai Parioli. Io ceno sempre in trattorie e ristoranti più che abbordabili, ma quel giorno ero in bicicletta con una mia amica e decidemmo di concederci una cena «da signori». Accanto a noi c’era una grande tavolata. A capotavola Scalfari e di fianco a lui Luigi Zanda, l’attuale capogruppo del Pd al Senato, colui che sta impedendo in ogni modo l’abolizione dei vitalizi, già passata alla Camera dei deputati. Non voglio essere irrispettoso, posso soltanto dirvi che l’età media dei commensali era piuttosto alta.
Avete visto Una...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Meglio liberi
  4. PARTE PRIMA. La prima settimana
  5. PARTE SECONDA. Nove mesi prima…
  6. PARTE TERZA. Lettera a mio figlio
  7. Indice