Il parafulmine e lo scopone scientifico
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Il parafulmine e lo scopone scientifico

  1. 216 pagine
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Il parafulmine e lo scopone scientifico

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Sedersi al bar di Traversetolo per giocare una mano di scopone scientifico con il vecchio Tito, detto "Il Migliore", è impresa che richiede coraggio, nervi d'acciaio e talento. Anche per chi è abituato a sfide sportive di altissimo livello. Ma il solo talento basta per conquistare grandi vittorie? O piuttosto è necessario un capo che spinga i propri uomini oltre i loro limiti, che abbia il carisma per farsi seguire, che sappia tutelare e valorizzare il lavoro del gruppo, gestire le sconfitte e le vittorie? E soprattutto: capi si nasce o si diventa? È questa la domanda centrale dalla quale muove Gian Paolo Montali per analizzare i meccanismi di leadership con il suo stile unico, nello stesso tempo profondo e ironico, semplice e ricco di riferimenti e aneddoti. E, facendo ricorso alla sua straordinaria esperienza di uomo di sport e di azienda (cinque Scudetti, sedici coppe, un Mondiale, due campionati europei e un argento alle Olimpiadi in venticinque anni di pallavolo, prima di sedere nel Consiglio di Amministrazione della Juventus ed essere Direttore generale della Roma), svela i suoi segreti, introduce concetti innovativi come quelli di impollinazione e contaminazione, smentisce tanti luoghi comuni che vorrebbero il buon capo autoritario e tutto d'un pezzo, o che "squadra che vince non si tocca". Il parafulmine e lo scopone scientifico è un libro prezioso, rivolto non solo a chi riveste ruoli di responsabilità in un contesto aziendale ma a chiunque si trovi quotidianamente alle prese con la gestione di un gruppo, si tratti di una squadra di lavoro, di una compagine sportiva, di un team nel senso più ampio del termine.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2016
ISBN
9788858684467

1.

Non si prendono le balene nella Termina

Alcuni fanno stampare dei cartoncini con
strane figure, si mettono a un tavolino
e alzano e abbassano questi cartoncini.
Li avete mai visti? Io li vidi una volta in un
bar, si mettono in quattro intorno
a un tavolino e alzano dei cartoncini
e li abbassano. Ho visto usare il tempo così.
Don Milani

Provate a immaginare un bar di campagna, di quelli che hanno ancora i tavolini in formica, in cui il barista è ben oltre i settanta e dove l’espressione “happy hour” non è mai stata pronunciata nemmeno per sbaglio. Ai tavoli, quasi parte dei tavoli stessi, l’esercito dei giocatori incalliti di briscola e scopone scientifico. Non ricordo il giorno esatto, ma di certo era un sabato e, come tutti i sabati, ai posti di combattimento sedevano i migliori al completo. Non sono mai stato un grande stratega delle carte (a parte quando in ritiro mi immergevo in interminabili ed esilaranti partite di briscola chiamata “in cinque”), ma sono sempre stato affascinato dallo scopone scientifico. La briscola va bene per tranquillizzarsi prima di sfide importanti, lo scopone scientifico – al contrario – non mi rilassa affatto. Anzi, mi esalta e mi intriga. In particolare mi esalta e mi intriga osservare come giocano, come si muovono e come si esprimono i grandi campioni del mio bar di campagna. Che ogni sabato diventa il Maracanã della briscola e il Santiago Bernabéu dello scopone scientifico. Ci sono puntualmente tutti i più bravi della vallata, oltre a una cornice di pubblico il più delle volte imponente.
I più anziani, i veri protagonisti dello spettacolo, stanno seduti al tavolo e sembrano quasi indolenti. Falso. In realtà sotto sotto covano una grinta e una cattiveria pronte a scattare fuori al minimo sbaglio del compagno. I più giovani sono tutti invariabilmente tesi e concentratissimi, terrorizzati dall’eventualità di commettere errori e quindi di subire l’umiliazione di venire rimbrottati ad altissima voce di fronte alla platea. I giovanissimi invece si piazzano in piedi dietro ai migliori in attesa di una chiamata per un posto al tavolo.
Mi esalta e mi intriga osservare come giocano, come si muovono e come si esprimono i grandi campioni del mio bar di campagna.
In uno di quei caldi sabati pomeriggio c’ero anch’io, reduce da una stagione piena di vittorie: Coppa Campioni e scudetto. Tra saluti, complimenti e consumazioni pagate, seguivo concentratissimo le mosse di quei fenomeni.
Immaginate un tavolo con quattro giocatori e una trentina di spettatori assiepati intorno a seguire in rigoroso silenzio, immaginate la tensione che sale a ogni giocata. I sospiri, gli aggrottamenti delle sopracciglia e il cambio di postura a indicare gli umori e l’interpretazione dell’azione.
Ecco, io stavo lì in piedi a osservare tutto questo mondo, attento a cogliere ogni sfumatura e ogni indizio per imparare. Come Platone, sono convinto che si può scoprire di più su una persona in un’ora di gioco che in un anno di conversazione. Ad accompagnare questa coreografia c’era una nuvola stagnante di fumo, continuamente alimentata dalle decine di sigarette consumate da molti dei presenti. Io non ho mai fumato una sigaretta e detesto il fumo, eppure, preso da una trance semiagonistica, non mi accorgevo praticamente di nulla.
Come Platone, sono convinto che si può scoprire di più su una persona in un’ora di gioco che in un anno di conversazione.
Ma ecco che la grande occasione mi si presenta senza preavviso. Ultime mosse, si contano i punti e subito partono le discussioni e gli improperi. È il caos: tutti a dire la loro, il cartiere che non pareggia il mazzo alla fine, la primiera persa per un sei di bastoni, i denari pareggiati per un grave sbaglio e così via. Mi sto divertendo come un matto, e anch’io inizio a dire la mia.
A un certo punto, il Migliore, Giuseppe Guarnieri detto “Tito”, dopo avere insultato il compagno e averlo costretto a lasciare il tavolo reo di inqualificabili errori, continuando a criticarlo e passando in rassegna tutti i volti degli spettatori alla ricerca solo di cenni di consenso, vede la mia testa ciondolare dal basso verso l’alto in servile atteggiamento da “Giuda zerbinato”, mi fissa per un attimo e, dopo una pausa di qualche secondo, dice a voce alta: «Bene, Montali. Abbiamo vinto ancora eh, con la pallavolo… Ma adesso siediti e facci un po’ vedere cosa sei capace di fare qui e se io e te formiamo una bella coppia». Di quel momento ricordo solo il mio repentino cambio di stato d’animo. Prima ero sereno, divertito e allegro, poi, improvvisamente, proprio mentre mi sedevo sotto gli occhi degli increduli presenti, mi sono fatto teso e insicuro. Anche perché l’altro ricordo di quel momento sono i miei amici che si prodigano con cenni del capo e delle mani a consigliarmi di non accettare l’invito a scendere in campo. Giocare contro Tito è difficile, ma lo è ancora di più giocare con lui. Vietato sbagliare. Quindi, forse sarebbe meglio rinunciare… Ma ormai è tardi, in una frazione di secondo sono già seduto al tavolo.
E qui mi riconosco: accetto subito la sfida. Vada come vada. Ci metterò tutto il mio impegno e il mio (poco) talento.
Nel bar improvvisamente tutta la curiosità si sposta sul nostro tavolo; c’è gente che abbandona la propria partita e si avvicina, ma non capisco perché tutti vogliano mettersi dietro di me.
Ci sono varie interpretazioni del motivo che ha spinto Tito a chiedermi di giocare con lui, ma non vi annoierò citandovele. Lascio a voi il compito di formularne una, vi dico soltanto che L’arte della guerra di Sun Tzu (un trattato di arte militare scritto nel VI-V secolo a.C. da un generale cinese), in confronto alla psicologia e alla filosofia dello scopone scientifico, è Cuore di De Amicis.
Le carte, come gli scacchi, sono vere e proprie armi per il tempo di pace: vengono utilizzate per sconfiggere, eliminare, umiliare, tradire e far cospirare gli uomini gli uni contro gli altri.
Accetto subito la sfida. Vada come vada. Ci metterò tutto il mio impegno e il mio (poco) talento.
Ma anche per vincere.
Nel momento di maggiore estasi di piacere, quando ancora si fa la pesca delle carte per decidere il cartiere, il mio sguardo incrocia quello del Lello, un habitué del locale e grande talento del far niente.
Il gesto non ammette fraintendimenti. La testa si sposta lentamente da destra a sinistra e ritorno. Il presagio è chiaro. Ma nulla ormai mi può fermare e penso a tutte quelle volte che in carriera qualcuno mi ha vivamente consigliato di desistere da un mio nuovo progetto o da una missione impossibile.
Ogni volta che ripenso a questo episodio, la mia prima riflessione riguarda “l’attesa”. L’ho sempre considerata il momento più bello e prezioso del mio lavoro: quando si conoscono i nuovi giocatori e collaboratori, oppure prima di una partita o di una conferenza o di una lezione all’università; l’attesa che mi ritaglio regolarmente quando arrivo in anticipo a un appuntamento per riflettere una volta di più su quello che sto per dire o fare. L’attesa prima di addormentarmi, con la mente che cerca di distrarsi da ciò che mi aspetterà domani, ma niente… Ritorna sempre al lavoro della mattina dopo.
Anche quel giorno, desiderato da tempo, aveva tutte le caratteristiche delle altre attese. Come pure il finale. Si deve scendere in campo e iniziare a giocare. Così è stato anche allora.
“L’attesa”. L’ho sempre considerata il momento più bello e prezioso del mio lavoro.
Il rito di chi dà per primo le carte ha un’importanza strategica nello scopone scientifico: avere il diritto di farlo per primi, quindi rimanendo ultimi a fare una mossa, nell’economia del gioco è come gareggiare in casa nel calcio. Questo diritto è lasciato alla sorte, a chi pesca la carta più alta. E qui Tito decide subito di valutare la mia attitudine alla fortuna facendomi scegliere quella per il sorteggio. Un po’ come se Totti, il Capitano, decidesse di lasciare il rito della monetina per la scelta del campo a un giovane al suo esordio in serie A.
In pochi sanno che uno dei miei soprannomi, a parte quelli irripetibili, è Gastone. Gastone è il cugino di Paperino ed è la nemesi del suo sfortunatissimo parente: è, infatti, proprio il più fortunato di tutta Paperopoli e dell’intero pianeta. Aggiungo io, con una punta di vanità, anche il più elegante. Il soprannome, nel mio caso, deriva dalla grande fortuna che mi ha sempre permesso di andare a vincere ovunque. E per non smentirmi estraggo dal mazzo la carta più alta. Serviremo noi e sarò proprio io il cartiere. A volte la sorte è beffarda, come in questo caso, perché se è vero che avremo un vantaggio è altrettanto vero che io dovrò controllare il gioco e soprattutto cercare di pareggiare sempre le carte in modo da essere sicuro di chiudere la tavola e di non andare “a piedi”. In questo modo rischierò tuttavia di non raccogliere le ultime rimaste in tavola.
La lettura delle carte è il momento più importante per definire la strategia del gioco. Come in una qualsiasi altra attività lavorativa, ti trovi ad avere a che fare con il “tempo”. In poche decine di secondi devi decidere la tattica da seguire in base a ciò che hai in mano e a quello che c’è sul tavolo. Essendo io il cartiere, aspetto che gli altri tre abbiano fatto le loro scelte e quindi gioco la mia carta. Dopo avere deciso cerco, sollevando leggermente lo sguardo, di incrociare il viso del mio compagno. Sono alla ricerca di una minima traccia di espressività, ma niente, imperscrutabile, non alza mai gli occhi, è concentratissimo, nessun cenno di distrazione. Così anche dopo il secondo giro. Gioco la mia seconda carta, mi guardo intorno e cerco i suoi occhi, inutilmente.
In poche decine di secondi devi decidere la tattica in base a ciò che hai in mano e a quello che c’è sul tavolo.
In quel momento capisco il perché del suo soprannome “il Migliore”. Nulla potrebbe distrarlo. Nulla potrebbe distoglierlo dal macinare decine e decine di formule matematiche alla velocità della luce. Con la visione periferica mi accorgo che la platea assiepata intorno al tavolo inizia a dare segni di vita e a commentare le prime mosse. Molti si bisbigliano all’orecchio chissà quali ipotesi o scenari futuri.
La partita è arrivata al suo primo momento di stasi. Tra una giocata e l’altra il tempo d’attesa aumenta sempre più. L’avversario che mi precede, però, dopo averci riflettuto giusto un attimo, “spariglia” la tavola. Da come si muovono le teste degli spettatori, questa scelta ha il consenso generale. E adesso però tocca a me. La situazione è la seguente: ho giocato due carte e me ne restano in mano ancora sette. Siamo solo all’inizio della prima partita, e lontano dalle ultime giocate dove si decide il risultato finale. Ho davanti a me un ventaglio di scelte e ci penso su. Forse troppo perché improvvisamente mi accorgo che Tito, aggrottando leggermente le sopracciglia, mi sta osservando. È la prima volta che alza lo sguardo. Ho le mani ghiacciate e percepisco, dal leggero brusio alle mie spalle, che non è un buon segnale, così mi prendo più tempo per la scelta. E dalla bocca del mio compagno esce questa frase: «Troppo pensare, poco capire». In confronto, la tensione provata all’ultimo punto della finale Olimpica o negli ultimi venti minuti della gara della Roma a Verona quando eravamo all’ultima di campionato virtualmente Campioni d’Italia sull’Inter, non era nulla. Sono bloccato. Vedo il Lello che ricomincia a ciondolare con la testa a destra e a sinistra. Il battito cardiaco è decisamente aumentato: fino a pochi minuti fa stavo benissimo e ora sono in confusione e ritardo ulteriormente la giocata. In quel preciso istante vedo “il Migliore” che si alza dritto sulla sedia e mi guarda fisso negli occhi. E poi, con la stessa sicurezza e prosopopea di Gambardella nella Grande bellezza quando fa il monologo sulla terrazza davanti al Colosseo, mi spara a sangue freddo questa domanda: «Non avrai in mano il cavallo di denari?».
Prima ancora che dalla mia bocca esca un minimo suono, riesco a immaginare quello che avviene alle mie spalle. Quel movimento di teste spostate da destra a sinistra per farmi desistere dal scendere in campo, improvvisamente si è trasformato dall’alto in basso, in chiaro cenno di conferma.
Ma lì sta tutta la grandezza del genio (del male): non gli bastava quel servile movimento di teste alle mie spalle, voleva sentirlo dire da me. Una vera e propria confessione in stile noir francese.
Guardo che carte ho in mano: mentre le passo in rassegna una a una trattengo il fiato, nella speranza di non trovare il cavallo di denari, le scorro da destra a sinistra, dalla più bassa alla più alta e alla penultima… Eccolo lì: il cavallo di denari.
Ancora non capisco cosa stia per accadere realmente, e mi domando come faccia a sapere che ho il cavallo di denari e perché me lo chieda: ho giocato solo due carte e me ne restano ancora sette. Non sarà così importante. Pronuncio un flebile: «Sì», ma non basta.
«Cos’hai detto?»
«Sì, ho il cavallo di denari».
A quel punto, Tito, con un gesto che mai più dimenticherò, lancia le sue carte sul tavolo da gioco, e pronuncia la frase fatidica: «Caro Montali, non si prendono le balene nella Termina».
La Termina è un piccolo ruscello che attraversa Traversetolo, paese sulle prime colline del parmense dove sono solito passare l’estate, nella mia casa di campagna, e dove è situato anche il bar della partita. Come potrete immaginare, essendo un ruscello secco per la maggior parte dell’anno, pescare qualcosa è un’impresa titanica, immaginiamo prendere una balena. Con quella frase chiude la partita.
L’episodio scatena lo stupore generale, non perché “il Migliore” non abbia abituato tutti a gesti eclatanti, ma per l’entità della frase appena pronunciata. Che mette fine alla mia pur breve carriera da giocatore di scopone scientico. Mi ha fatto tornare in mente in particolare un mio vecchio allenatore, a cui chiesi spiegazioni sul perché passassi tutto il tempo in panchina senza mai giocare; la risposta che mi diede fu un giro di parole educato per dirmi che non ero preparato e che mi mancava il talento.
Per diventare un leader (o un “capo”, lascerei perdere il termine inglese “boss” che in Italia gode di pessima fama), a mio avviso, il talento naturale non è una condizione sufficiente. Magari è necessaria, ma soltanto in piccola parte. Uno può nascere leader, ma può anche diventarlo. Tito, nella sua orgogliosa difesa dell’unicità del suo talento, probabilmente dimentica il fatto che anche lui è stato un tempo giovane e inesperto e che anche lui ha imparato come giocare osservando altri più bravi di lui.
Anche Tito, come quasi tutti, non è nato leader, ma lo è diventato. Lo è diventato con l’impegno, la costanza, l’esercizio, la passione e la (poca poca) umiltà. Quello che contesto a Tito non è il fatto che sia stato più bravo di me a giocare a scopone scientifico, semmai gli contesto una gelosa difesa del proprio talento, un atteggiamento di chiusura e sfida verso l’esterno. Questo tipo di comportamento può diventare molto dannoso all’interno di un’organizzazione. Essere una guida significa condividere, spargere in giro i semi della propria competenza. Il concetto di condivisione è da qualche anno sulla bocca di tutti (dall’open source al tasto “condividi” di Facebook) ma resta largamente sconosciuto in quegli ambienti lavorativi in cui sarebbe più utile applicarlo.
Io ormai giro per il mondo e sono sempre vestito bene, giacca, camicia, cravatta, scarpe lucide… Però sono pur sempre lo stesso Gian Paolo che è cresciuto in campagna e che conosce e apprezza le regole della natura. Per prepararvi a fare bene il leader, che significa creare un ambiente vincente e destinato a durare a lungo, la cosa più utile che potete fare è anche una delle attività più piacevoli che esistano: farsi un giro per i campi ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. Introduzione
  6. 1. Non si prendono le balene nella Termina
  7. 2. L’impollinazione
  8. 3. Ambienti vincenti ambienti perdenti
  9. 4. L’innovazione
  10. 5. Le tre trilogie di capo
  11. 6. Un leader carismatico
  12. 7. Ambizione e presunzione
  13. 8. Il parafulmine
  14. 9. Valorizzare il talento
  15. 10. Il leader davanti all’insuccesso
  16. 11. Il leader nella comunicazione e nella gestione dei conflitti
  17. 12. Contaminazioni
  18. La riconoscenza è sempre il sentimento del giorno prima