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Il Tigre e il porcospino
Dov’era Georges Clemenceau? Era arrivato il giorno delle elezioni politiche – domenica, 26 aprile 1914 – e il quotidiano «Gil Blas» annunciava con stupore che il settantaduenne ex primo ministro era scomparso da Parigi. «La sua partenza non ha mancato di sorprendere» riferiva il giornale. «A questo vigoroso polemista la lotta politica non interessa più?»1
«Gil Blas» era sempre ben informato sui movimenti di Clemenceau, che con il suo terribile temperamento e la sua vis polemica si era guadagnato il soprannome di «il Tigre». Due anni prima, il giornale aveva riportato la notizia di come i pompieri l’avessero tratto in salvo mentre era a mollo nella vasca e il suo bagno aveva preso fuoco; un’altra volta aveva informato i lettori del fatto che, nonostante fosse uno dei più noti anticlericali di Francia, aveva trascorso un periodo di convalescenza postoperatoria in un istituto gestito da suore.2 E anche in questa occasione il quotidiano riuscì a rintracciarlo rapidamente, annunciando che era andato a godersi la primavera in campagna: «Si mormora che voglia riposare a qualsiasi costo e che, poco interessato ai risultati elettorali, oggi andrà a letto presto, immerso nella pace campestre».
Il buen retiro di Clemenceau si trovava un’ottantina di chilometri a nordovest di Parigi, nel paesino di Bernouville, in Normandia. Sei anni prima, quando ancora era primo ministro, aveva acquistato una palazzina di caccia metà in legno e metà in muratura, ne aveva riempito il giardino di pioppi e ginestre di Spagna e il laghetto di trote e storioni. Alcune settimane dopo aver lasciato la sua carica, nell’estate del 1909, «Gil Blas» pubblicò una poesia che lo descriveva «agile come un giovincello», dedito al giardinaggio nella casa di Bernouville.3 Fu senza dubbio il suo amore per il giardinaggio che, nell’imminenza delle elezioni, lo spinse a Bernouville e da lì a trovare un amico a Giverny, per poter parlare di fiori invece che di politica. Quell’amico era Claude Monet.
Giverny si trova a trentadue chilometri da Bernouville, ma lo chauffeur avrebbe percorso in fretta quella distanza: Clemenceau era un amante della velocità e incitava sempre i suoi autisti a premere sull’acceleratore, sfrecciando a cento chilometri all’ora sulle sconnesse strade di campagna.4 Spesso disattivava il tachimetro per non allarmare i suoi passeggeri.5 L’auto sarebbe entrata nel paesino di Vernonnet e poi, una volta raggiunta la riva destra della Senna, avrebbe svoltato per Giverny percorrendo una strada costeggiata a destra da prati e a sinistra dal ripido fianco di una collina. La collina era tagliata dalle strisce biancastre delle cave di arenaria e ricucita qua e là dalle viti che producevano il vino locale. Sulla destra scorreva il fiume Ru, un ruscelletto dove, poco tempo prima, un giornalista in visita si era meravigliato alla vista delle lavandaie.6 Più avanti, una fila di alti pioppi s’allungava serpeggiando tra i prati che in maggio erano punteggiati di papaveri e in autunno popolati da covoni.
Circa tre chilometri dopo Vernonnet appariva all’improvviso un grappolo di case. Al bivio, l’autista di Clemenceau avrebbe preso a sinistra dirigendosi verso una minuscola chiesa con un tozzo campanile ottagonale dal tetto simile al cappello nero di una strega. Giverny era un paese di duecentocinquanta abitanti, formato da un centinaio di casette di campagna frammiste a dimore più imponenti, circondate da frutteti e nascoste da muri coperti di muschio.7 L’effetto, specialmente per chi proveniva da Parigi, era magico. Immancabilmente, i visitatori descrivevano Giverny come affascinante, caratteristico, pittoresco, un «paradiso terrestre».8 Una visitatrice di Monet annotò entusiasta nel suo diario: «Questo è il paese dei sogni, il regno delle fate trasformato in realtà».9
Una cartolina di Giverny all’epoca di Monet
Monet era arrivato per la prima volta a Giverny trent’anni prima, quando lui ne aveva quarantadue. Il paese dista circa sessantacinque chilometri in linea d’aria da Parigi ed è situato a nordovest della capitale, nella valle della Senna. Nel 1869, la strada ferrata aveva fatto la sua comparsa accanto al Ru, e all’ombra dei due mulini a vento alla periferia orientale del paese, là dove i salici si chinano pigramente sull’argine, era spuntata una stazione ferroviaria. Ben presto, tutti i giorni eccetto la domenica, quattro treni presero ad attraversare sbuffando il paese. Nel 1883, all’inizio della primavera, uno di questi aveva trasportato Monet, alla ricerca di una casa. All’epoca era un vedovo che doveva pensare a due ragazzi, a un’amante di mezza età e alla di lei prole. Seduto al suo posto, aveva guardato rapito il panorama dal finestrino mentre il treno si fermava fischiando per una sosta imprevista accanto a un corteo nuziale in attesa sulla banchina. Preceduti da un violinista, i novelli sposi e il loro seguito erano saliti allegri sul treno, ignari che i loro festeggiamenti sarebbero stati decisivi non solo per la scelta della residenza, ma anche per il destino artistico del pittore.10
Poco tempo dopo, Monet e la sua composita famiglia presero possesso di una delle più grandi dimore del paese, un vecchio casolare conosciuto con il nome di Le Pressoir. Per i sette anni successivi l’artista affittò la proprietà da Louis-Joseph Singeot, un commerciante con affari nella Guadalupa. Rosa con le persiane grigie, dava a nord sulla Rue de Haut, la strada alta, e a sud su un giardino circondato da mura che ospitava un orto e un meleto. Monet dipinse subito le persiane di verde, colore che diventò rapidamente noto in paese come «verde Monet»,11 e trasformò in atelier un fienile collegato alla casa con il pavimento in terra battuta. Nel 1890, pochi giorni dopo il suo cinquantesimo compleanno, acquistò Le Pressoir da Singeot, aggiungendovi di lì a pochi anni un appezzamento di terra adiacente. Cominciò a sradicare le piante di ortaggi e gli alberi da frutta sostituendoli con iris, tulipani e peonie giapponesi. All’estremità nordoccidentale della proprietà fece costruire un edificio a due piani – un visitatore lo descrisse come un «padiglione rustico» –12 al piano superiore del quale creò un atelier con il soffitto alto e dotato di lucernario. Al pianterreno c’era una voliera con pappagalli, tartarughe e pavoni nonché una camera oscura e un garage per la sua collezione di automobili.
La grande casa, lo studio luminoso, il parco auto: simili lussi erano arrivati tardi. I primi anni della carriera di Monet furono anche caratterizzati da padroni di casa e negozianti furiosi, amici squattrinati ed economie forzate. «Negli ultimi otto giorni» si lamentò nel 1869 «non avevo pane né vino, non avevo fuoco per la cucina né luce.»13 Quello stesso anno sostenne di non avere i soldi per comprare i colori e gli ufficiali giudiziari, per saldare i suoi numerosi debiti, gli pignorarono quattro quadri, staccandoli direttamente dalle pareti di una mostra. Nel corso del decennio successivo, i suoi quadri venivano venduti anche a venti franchi, in un’epoca in cui una tela bianca ne costava quattro. Una volta fu costretto a darne alcuni a un fornaio in cambio del pane. Un negoziante di tessuti si rivelò «impossibile da placare». La sua lavandaia, quando non pagava il conto, gli tratteneva in pegno la biancheria. «Se non riesco a racimolare seicento franchi entro domani sera» scrisse a un amico nel 1877, «i miei mobili e tutto ciò che possiedo sarà venduto e noi ci ritroveremo sbattuti in mezzo alla strada.»14 Quando un macellaio gli inviò l’ufficiale giudiziario per pignorare i suoi beni, Monet distrusse per vendetta duecento tele. La leggenda narra che trascorse un inverno cibandosi solo di patate.15
Una cartolina del secondo atelier con le serre in primo piano
Monet esagerava spesso la sua condizione. Persino agli albori della carriera, infatti, i suoi dipinti avevano attratto alcuni collezionisti avveduti e spuntato prezzi di tutto rispetto. Nel 1868, Arsène Houssaye, un critico stimato, pagò ottocento franchi per uno dei suoi dipinti: una somma sufficiente ad affittare una casa per un anno intero. Inoltre, le sue privazioni erano compensate da amici generosi: il pittore Frédéric Bazille, il romanziere Émile Zola, un pasticciere e romanziere di nome Eugène Murer e il dottor Paul Gachet, che più tardi avrebbe avuto a che fare con un altro artista frustrato e squattrinato, Vincent van Gogh. Tutti loro, nel corso degli anni, ricevettero lettere in cui Monet chiedeva denaro e descriveva nei dettagli le sue precarie condizioni finanziarie e le sue miserande prospettive. Nel 1878, a trentotto anni, si lamentò con un altro benefattore, l’omeopata Georges de Bellio: «È triste trovarsi in una condizione simile alla mia età, sempre obbligato a domandare favori». Poi, alcuni mesi dopo: «Sono completamente disgustato e demoralizzato da questa esistenza che sto conducendo da così tanto tempo… Ogni giorno porta con sé nuovi affanni e nuove difficoltà, da cui non riuscirò mai a liberarmi».16
La carriera di Monet, in realtà, era iniziata in maniera molto promettente. Nel 1865, i suoi due dipinti della costa di Normandia destarono scalpore al Salon di Parigi: un critico le definì «le più belle marine degli ultimi anni», mentre un altro dichiarò che erano le migliori dell’intera mostra.17 Gli anni che seguirono, tuttavia, si rivelarono difficili: le opere successive – le cui immagini indistinte e pennellate apparentemente casuali violavano le convenzioni artistiche del tempo – erano regolarmente rifiutate dalle giurie del Salon. La cattiva fama del pittore presso la critica sembrò segnata definitivamente quando, nel 1874, Monet espose il suo lavoro a Parigi insieme a un gruppo di artisti ribelli di cui facevano parte Pierre-Auguste Renoir, Edgar Degas e Paul Cézanne. Furono soprannominati, con intento denigratorio, «Impressionisti» e una delle marine di Monet fu liquidata e derisa da un critico come «meno rifinita di una carta da parati grezza».18 I critici definirono la sua arte «incoerente», «finta, malsana e comica» e i suoi quadri «studi di decadenza». «Quando i bambini giocano con carta e pastelli» scrisse con disprezzo uno dei suoi oppositori nel 1877 «riescono a fare di meglio.»19 Monet teneva un album con i ritagli di queste recensioni: «Un autentico catalogo di miopia, ignoranza e indifferenza» osservò un amico.20 In un’intervista del 1880 venne annoverato come uno tra «quelle bestie selvatiche dell’arte».21 Un collezionista che acquistò un Monet fu talmente deriso dagli amici che staccò il quadro dalla parete.22
L’arrivo di Monet a Giverny non era avvenuto sotto i migliori auspici. Nell’aprile del 1883, proprio il mese in cui l’artista si trasferì nel paese, un recensore sostenne che la sua opera andava semplicemente oltre la comprensione del grande pubblico. Monet godeva della stima di un manipolo di ammiratori, ammetteva il critico, ma il vasto pubblico continuava caparbiamente a essergli contro. «Monet dipinge in uno strano linguaggio» affermava «di cui solo lui e pochi iniziati posseggono i segreti.»23
Oltre a questo stile incomprensibile, Monet aveva portato a Giverny un pizzico di scandalo. Dalla morte della moglie Camille nel 1879 – e probabilmente da prima – aveva una relazione con una donna sposata, Alice Hoschedé, separata dal marito Ernest, un uomo d’affari reduce da un fallimento. Tra gli inv...