LA CULTURA DELLA FELICITÀ
C’era una volta
Un tempo i figli avevano paura dei padri, indossavano il grembiule, facevano a pugni senza essere bulli e andavano a lavorare dopo la terza media. Se erano grassi, erano sani. Le famiglie sopravvivevano ai tradimenti e alle assenze. La scuola era un luogo di prestigio. Essere educati significava ubbidire e rispettare regole certe. Un genitore pretendeva una sola cosa fondamentale: studia!
Essere felici significava conquistare benessere e libertà, lasciandosi alle spalle, nell’oblio, gli orrori della guerra. Le donne, allenate all’attesa angosciante e alla rinuncia, lo sapevano più di ogni altro. Crescevano i figli da sole, memori dell’ira dei padri, pronti a usare la cinta. I maestri usavano la bacchetta. Le punizioni cominciavano a scuola e finivano a casa (il famoso: «ora ti do il resto»). L’amicizia era fonte di vantaggi: essere amico dell’amico ti permetteva di avere il telefono in salotto in una settimana invece che in un mese e, a volte, di non pagare le multe. C’era persino chi si impegnava in politica. La notte attaccava i manifesti, con le mani gelate, e non per fare carriera. In tv si parlava un italiano colto commentando una partita di calcio. Al Giro d’Italia si leggevano i resoconti di Buzzati. Prima che arrivassero i Biscardi e gli Sgarbi si urlava solo negli stadi. Si diventava famosi per una scoperta, un’invenzione, un’impresa sportiva o un crimine efferato. Il «Grande Fratello» era il protagonista di un romanzo. Ci si sballava con il vino rosso. C’erano gli emarginati e gli integrati. Molti inneggiavano a Cuba, Mosca o Pechino, ma emigravano a Londra o a New York; i più radicali finivano a Parigi o a Rio.
Integrarsi significava adattarsi. Più studiavi, più lavoravi, più guadagnavi. La ricchezza cresceva e veniva redistribuita trasformando fabbriche tossiche e cantieri pericolosi in serre del lusso e dell’abbondanza. La felicità era considerata una tv a colori, una casa a Cortina e l’orgoglio di poterla comprare.
Era una felicità momentanea e fragile. Al televisore ci si abituò molto presto e la famiglia del Mulino Bianco implose fra i biscotti.
Criticare la felicità
Il paradigma dominante di una felicità comprata attraverso il lavoro non superò la prova dei fatti. Il benessere, costruito con durissimi sacrifici, liberava dalla miseria, emancipava culturalmente, permetteva ascese sociali, ma non creava quell’appagamento profondo che è tipico di una vita felice. La strategia dell’adattamento infatti richiedeva il costante sacrificio delle spinte autorealizzative. Passioni, attitudini, desideri e vocazioni dovevano essere sacrificati in nome del mercato, delle possibilità offerte dal sistema e dei ruoli previsti dalla cultura della famiglia patriarcale. I letterati diventavano ragionieri, gli artisti si diplomavano come geometri, i filosofi frequentavano Economia e Commercio, le donne stavano a casa. Poi i giovani cominciarono a scalpitare alla ricerca di un’identità originale. Ma soprattutto le mogli si ribellarono.
Sulla base di queste inquietudini avvennero due sommovimenti critici contro il paradigma
felicità = benessere.
Un primo sommovimento fu il ripiegamento individualista. Ben prima della crisi economica un sintomo predittivo del fallimento della tesi «ricchezza = felicità» fu la crescita esponenziale dell’uso di droghe mortali. A metà degli anni Settanta, l’eroina era comparsa sul mercato illegale in grande quantità. La droga, inizialmente a prezzi bassi, invase strade e quartieri, benestanti e meno benestanti. Decine di migliaia di persone furono coinvolte in questo consumo, stigmatizzate come «drogati». Fra il 1985 e il 1989 i pazienti dei centri di recupero passarono da 13.905 a 61.689.1 Le città più ricche, come Verona, Pordenone, Udine, Milano e Varese, registrarono il più alto livello di tossicodipendenti. Le stazioni di Roma e Milano erano ricolme di giovani ripiegati su se stessi, rallentati, barcollanti, con gli occhi chiusi. Il trend dei decessi esplose qualche anno dopo l’apice del consumo e arrivò ai massimi picchi nel corso degli anni Novanta. L’eroina ferì a morte un’intera generazione, che si era messa alla ricerca di un’alternativa ai paradigmi dominanti per finire sfruttata dalle mafie.
Questo accadeva nel momento di massimo splendore di quella corsa al benessere promesso e ottenuto.
Un secondo importante sommovimento culturale fu guidato dalle donne. L’autorealizzazione come strategia di felicità implica la riconquista del governo della propria vita. Le donne lottarono per riappropriarsi del loro corpo, imposero i trial alla medicina, criticarono la maternità imposta, pretesero di studiare, si presentarono nei posti di lavoro, si prepararono per i concorsi. Nessuna rivoluzione, solo cambiamenti espliciti e radicali, tutt’ora in corso.
Il monumento all’infelicità
La mia generazione (sono nato nel ’64) è cresciuta in questo mondo. Le infrazioni – come il rapimento di Aldo Moro, sentito alla radio durante una giornata di scuola, le stragi e le violenze – non cambiavano il nostro programma di vita; eravamo troppo piccoli per contestare. I nostri miti non erano certo Mao, Pol Pot o Castro. Se evitavi l’eroina distribuita dalle mafie locali, sopravvivevi. Il liceo classico è stata la mia missione adolescenziale. Era come scalare l’Everest della cultura con la fiera consapevolezza di avere un’origine operaia e contadina. Ma dopo il diploma dovevi affrontare la scelta. Cosa fare della tua vita? A quale facoltà iscriverti? A queste domande sopperiva l’analisi di mercato. Quale formazione poteva promettere un lavoro sicuro? Mio padre lo sapeva bene: Economia e Commercio significava un posto fisso, poco importava se la detestavo.
Mi sono laureato in Economia e Commercio nel 1991 (la laurea in Psicologia è arrivata molti anni dopo). Sono entrato in quella facoltà con la promessa che le aziende ti cercavano se eri stato bravo. Ne sono uscito quando l’Olivetti licenziò migliaia di persone. Agli inizi degli anni Novanta il sistema dell’adattamento era già imploso, si era avviato un lungo declino economico e culturale. Nel giro di pochi anni crollò il settore edilizio, si ingigantì il debito dello Stato, poi vennero lo scandalo di Mani pulite, la crisi dei partiti, l’ingresso di comici e impresari sulla scena politica. Chi aveva accumulato debiti, sperando che i guadagni futuri sarebbero stati superiori alle rate del mutuo, si accorse che la curva di crescita economica, costante dal dopoguerra, aveva cambiato segno. Adesso aveva più debiti e meno ricavi, la curva scendeva inesorabilmente.
Così, mentre sommovimenti profondi modificavano il paradigma dominante della felicità fondata sul benessere, il sistema che aveva promesso la ricchezza tramite l’adattamento implodeva. La felicità come ricchezza non aveva convinto soggettivamente, e ora non era più possibile oggettivamente. I principali paradigmi culturali, che avevano dominato a partire dal dopoguerra, caddero insieme al muro di Berlino, una mostruosità storica, un monumento all’infelicità.
La crisi di senso
Da allora il cambiamento non si è più arrestato. Le principali istanze della donna sull’autodeterminazione del corpo e dell’amore, emancipate dalla logica politica, hanno stravolto la vita degli uomini cambiando ogni paradigma fino ad allora conosciuto. Pensiamo ai bambini: ne nascono sempre di meno, ma quelli che nascono sono voluti e sopravvivono, a differenza del passato quando spesso erano «effetti collaterali». È un’innovazione radicale che mai si era vista nella storia della specie, totalmente sottovalutata dalla psicologia e dalla pedagogia. La violenza è stata espulsa dalle scuole e le famiglie senza amore né rispetto reciproco si sono frammentate attraverso rancori espliciti. Per la prima volta i genitori hanno cominciato a essere pessimisti sul futuro dei figli.
«L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro» dicevano i «padri» della Costituzione italiana. Questo paradigma sottintendeva che lavorando si sarebbe ottenuta quella ricchezza che avrebbe donato la felicità. Il fine richiedeva il mezzo adeguato dentro un sistema di valori fondato sulla divisione di ruoli fra maschio e femmina e sulla famiglia come contenitore etico. Secondo la psicologia dominante la salute era data dal lavoro e dalla famiglia. Coloro che non si adattavano a questi canoni sviluppavano nevrosi inquiete che, attraverso un duro allenamento su se stessi, dovevano essere superate con l’aiuto di farmaci di nuova generazione, analisi psicologiche interminabili oppure attraverso la repressione dei padri. La strategia dell’adattamento era la sola che promettesse la felicità.
Ma quando il sistema è crollato sotto i colpi delle critiche esplicite e delle sue stesse contraddizioni interne, anche i canoni della felicità si sono modificati. Ne è scaturita una crisi del senso. Il nuovo secolo ha visto persino l’estinzione degli intellettuali, senza che nessuno ne abbia sofferto la mancanza. Con il crollo del muro di Berlino, è entrata in scena l’autodeterminazione dei popoli, sconvolgendo le cartine geografiche del dopoguerra.
Dall’autodeterminazione dei popoli a quella degli individui, fuori dalle logiche dell’adattamento, il passo è stato breve. Fra gli integrati e gli emarginati, si sono moltiplicati i divergenti, un tempo figure di nicchia come gli artisti che facevano la fame a Parigi.
Oggi il benessere è un terreno da difendere dalla minaccia della scarsità e dell’emergenza. Tuttavia nessuno pensa davvero che, se trovato e conservato, possa da solo donare la felicità.
Recentemente ho avuto modo di discutere con una mia cliente a proposito del problema del suo livello di reddito. Non se ne era mai fatta un cruccio, finché non ha iniziato a pensare con il suo compagno di mettere su famiglia. Oggi il denaro è l’unità di misura di un budget elaborato per la fondazione dell’impresa degli affetti, non è certo obiettivo di emancipazione o sintomo di felicità. Per molti è una gabbia fondata sul ricatto. Nel 2014 l’indagine annuale sul mondo del lavoro che Randstadt conduce in oltre trenta Paesi riportava un dato significativo: l’80% degli italiani avrebbe cambiato lavoro, se avesse avuto la possibilità di farlo, e il 50% avrebbe rifiutato qualunque aumento se avesse avuto la possibilità di lavorare da casa.
Proposte alternative: dall’adattamento all’autorealizzazione
Nel frattempo sono emerse altre forme di benessere – promesso e atteso – per sedare i nervosismi e le frustrazioni. Sono sorte le aziende del relax e del disimpegno, organizzate intorno alle terme, ai fanghi e all’affidamento del corpo a esperti manipolatori; promettono quiete, pace, distensione dell’animo e rilassamento del corpo. Una felicità in forma passiva, non solo perché arrendevole, affidata e addomesticata, ma soprattutto perché tiene lontani dalla facoltà del pensare. Si desidera estraniarsi dai propri contesti senza analizzarli, riprendersi dai propri dolori senza comprenderli, allontanarsi dalle relazioni senza modificarle. Le palestre del non-pensiero sono le terre promesse dove si può finalmente staccare la spina. Un po’ come morire rimanendo in vita. È la crisi del concetto di benessere, che si irradia moltiplicando le terme del non-impegno.
I problemi sono venuti alla luce senza soluzioni collettive. La fragilità delle famiglie (negli Stati Uniti oggi le donne single sono più numerose di quelle sposate), la ricerca del lavoro, la crisi del sistema scolastico, le difficoltà relazionali, i disorientamenti vocazionali, le ondate migratorie, le rinunce ai figli, le nuove dipendenze digitali, la devastazione ambientale e le meteofobie non solo dimostrano la crisi dell’adattamento dell’essere umano a un contesto liquido dove rischia di annegare, ma anche la ricerca affannosa di una felicità di nuovo tipo, che scaturisca dall’essere se stessi. Il passaggio dall’adattamento all’autorealizzazione è traumatico, difficile, complesso, promettente e insieme inevitabile. Nella strategia dell’autorealizzazione, che è nuova e dunque priva di modelli o tradizioni, gli errori sono all’ordine del giorno.
Ma come può la felicità scaturire dall’essere se stessi? Non è un’utopia? E se scoprissimo che, pur essendo noi stessi fino in fondo, la felicità non fosse che una chimera?
UNA FELICITÀ INNOVATIVA
L’inganno del dottor Freud
Alle domande con cui ci siamo lasciati nel capitolo precedente ha risposto – o ha tentato di rispondere – la psicoanalisi: la felicità è una meta impossibile. L’obiettivo del lavoro su se stessi è passare da un’infelicità malata a un’infelicità normale.
La psicoanalisi freudiana ha disprezzato le passioni e i sentimenti umani elevando una fantomatica pulsione sessuale a chiave interpretativa totalitaria. Per il medico viennese, che a quarant’anni scelse l’astinenza totale dalla sessualità e dalla cocaina, la voglia di affermarsi, la domanda di giustizia, il coraggio delle proprie idee, l’indignazione per il loro mancato riconoscimento, l’allenamento delle proprie facoltà non avevano dignità di analisi se non come sublimazioni della frustrazione sessuale (forse la sua, appunto). Emblema della psiche diventa un fanciullo, di nome Narciso, che ha una tale confusione mentale da non distinguere se stesso dalla propria immagine riflessa nell’acqua. Edipo invece, che svela la dinamica dell’infanzia, è un tipo che conosce il padre quando lo ammazza e, per errore, genera figli con la propria madre. Entrambi sono esseri smarriti in dipendenze erotiche, prototipi della miseria umana. Gente da compatire, piuttosto che da ammirare, falliti senza impresa. Promuovere queste figure come emblemi della condizione umana è la strada migliore per trasformare gli uomini in pazienti. Se Freud avesse avuto sul lettino Achille gli avrebbe diagnosticato una personalità borderline a causa di eccessive pretese genitoriali.
D’altronde all’origine di tutto per Freud è l’orda, quell’ammasso di violenze fra uomini da cui nasce la cultura come addomesticamento del nostro animo selvatico. Personalmente, all’orda freudiana preferisco le teorie di un’antropologa appassionata e pionieristica come Marija Gimbutas, che negli anni Settanta descrisse la civiltà neolitica della Dea Madre, fase millenaria nella lunga storia degli esseri umani, singolarmente priva di guerre e spargimenti di sangue, di mura e di armi.
L’inganno del dott. Freud è ...