Mamma ho l'ansia
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Mamma ho l'ansia

Crescere ragazzi sereni in un mondo sempre più stressato

  1. 256 pagine
  2. Italian
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Mamma ho l'ansia

Crescere ragazzi sereni in un mondo sempre più stressato

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Informazioni sul libro

"C'è stato un momento in cui le chiamate dei miei pazienti (o meglio, dei genitori dei miei pazienti) sono diventate un vero e proprio copione già scritto. Dopo le formalità di rito, proseguivano tutte nello stesso modo: 'Dottoressa, la chiamo perché a mio figlio è venuta l'ansia'." A lungo considerata un problema che riguardava solo gli adulti, negli ultimi anni l'ansia si è diffusa sempre di più fra bambini e adolescenti, con genitori spiazzati nel tentativo di comprendere le ragioni e la reale gravità del malessere dei figli. Ma qual è il modo giusto di valutare e affrontare l'ansia vissuta dai giovani? Come distinguere le normali paure adolescenziali da quelle patologiche? Stefania Andreoli, tra le più brillanti psicoterapeute dell'adolescenza italiane, in questo volume esamina le molteplici cause di stress a cui sono sottoposti i nostri ragazzi: competitività diffusa, modelli di successo irraggiungibili, una situazione economica in continuo mutamento. Ma anche genitori che – spesso con le migliori intenzioni – offrono ai figli protezione e libertà molto ampie nell'infanzia, aspettandosi poi risultati immediati e spesso irrealistici nell'adolescenza. Facendo riferimento a storie ed esempi tratti dall'esperienza con i suoi pazienti, Stefania Andreoli mostra l'inevitabile distanza tra i punti di vista di ragazzi e genitori, e indica i comportamenti da seguire per gestire lo stress dannoso e costruire il giusto equilibrio in famiglia. Per crescere figli sereni e in grado di affrontare le complessità che la vita comporta.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2016
ISBN
9788858684528

1

Va tutto bene, eppure non sto bene

Quando meno te l’aspetti
come una bomba.
OTIERRE

Cosa sono l’ansia e il panico

Driiin! «Buongiorno, dottoressa, sono la mamma di un bambino di quattordici anni, Alessandro. La chiamo perché ho bisogno di qualcuno che lo aiuti, visto che adesso gli è venuta l’ansia. Si figuri, io ce l’ho da anni, so bene di cosa stiamo parlando! Gli ho detto di non pensarci, di non preoccuparsi, ma, va be’, vuole andare da uno psicologo. Quando può incontrarci?»
Nel linguaggio comune, usare termini come «ansia» e «panico» per definire come ci si sente in una certa situazione è piuttosto frequente e, soprattutto, possibile, poiché si tratta di due parole che non sono giudicate sconvenienti da pronunciare. Posso affermare con una certa sicurezza che non esiste al mondo persona che non se ne sia mai uscita con un: «Dio, che ansia!» oppure: «Se solo ci penso, mi viene il panico!», ed è altrettanto probabile che abbia esclamato queste frasi pubblicamente, ad alta voce, senza troppi giri di parole.
Dichiarare che l’incontro con una persona che ci interessa, il discorso in sospeso con qualcuno che ce l’ha con noi, la scadenza incombente di un impegno ci mettono ansia, o ancora che le notizie del telegiornale, il timore di perdere chi amiamo, la paura di trovarci di fronte a un pericolo o a una sfida difficile ci gettano nel panico, non ci crea problemi, non ci fa sentire costretti a fingere. Non è come bere un goccetto a casa prima di un appuntamento, non farsi riconoscere alla slot machine del bar vicino all’ufficio oppure chiudere a chiave la porta del bagno dopo aver mangiato perché nessuno ci veda mentre rimettiamo tutto nello scarico.
In linea di massima (a meno di avere un disturbo di personalità narcisistico, ma questa è un’altra storia!) un modo per dire che ci si sente un po’ agitati si trova sempre. Anzi, spesso gli altri se lo aspettano, perché l’emozione di rivedere qualcuno di importante, di ottenere un riconoscimento o un risultato, di partire per una nuova avventura, se non portasse con sé anche un po’ di apprensione, non sarebbe poi così speciale: senza qualcosa che ci si agita dentro, questi avvenimenti avrebbero meno valore di quanto meritano e finiremmo per trattarli male, come se fossero ordinaria amministrazione.
Immaginiamo la nostra quotidianità come una linea su un monitor: perlopiù scorre dritta, senza picchi significativi né in alto né in basso, in una situazione, diciamo così, di equilibrio. Quando però uno stimolo ci raggiunge – in positivo o in negativo – cominciamo a sentirci diversi dal solito, la linea scende o sale: siamo emozionati.
È proprio a questo che servono le emozioni: ci trasformano per restituire senso e valore a ciò che ci succede, per dare una sfumatura agli avvenimenti della nostra vita in modo da poterli archiviare per colore. Dai toni neutri a quelli tenui, da quelli accesi, vivaci e brillanti a quelli scuri e opachi, processeremo e ordineremo le nostre esperienze per avere a disposizione tutti gli elementi che concorrono alla narrazione della nostra vita, nella migliore delle ipotesi abbinando tra loro tutti i colori.
Auguriamocelo, che succeda! L’alternativa all’eventualità di emozionarci – cosa che può e deve verificarsi spesso e volentieri in una vita felice, in una vita fatta di cose che accadono – è essere anestetizzati: non sentire nulla, essere imperturbabili, essere psichicamente congelati, gusci dentro ai quali non si muove niente, per paura che si sballi tutto. Oppure riuscire a percepire solo certi colori, ignorandone completamente altri.
Ebbene, se dare delle definizioni di cosa siano l’ansia e il panico è già di per sé un’operazione ansiolitica, intanto c’è una prima cosa da sapere.
L’ansia è l’espressione di ciò che dentro di noi sentiamo come vitale, importante, addirittura necessario, o urgente.

Uno spot per l’ansia e il panico

L’ansia e il panico hanno una loro origine e una loro funzione del tutto sane e fisiologiche, che individuiamo nel cosiddetto «meccanismo di attacco-fuga» di cui sono naturalmente dotate tutte le creature. Quando percepisce un cambiamento dello status quo, ogni essere vivente reagisce mettendo automaticamente in moto una serie di condizioni per prepararsi ad attaccare o a fuggire, a seconda della necessità: il respiro si fa più veloce (per ossigenare il sangue), il cuore comincia a battere all’impazzata (per portare più sangue ai muscoli), i muscoli si tendono, pronti a scattare, l’attenzione si fa massima per monitorare sia il pericolo sia le vie di fuga.
Si tratta di un sistema di sopravvivenza senza il quale saremmo esposti alla morte quasi in ogni momento: ci serviva nel Pleistocene per salvarci dagli attacchi di un branco di smilodonti e, via via che la specie umana si è evoluta, ci serve ancor oggi per poter attraversare la strada senza essere investiti, per evitare una fregatura, per evacuare un edificio in caso di incendio.
Se una certa generalizzata sensazione di disagio non ci comunicasse che dobbiamo stare all’erta, correremmo continuamente dei pericoli. Se poi non si facesse più intensa, fino a farci avvertire una vera e propria paura, nel percepire di notte l’ombra di uno sconosciuto che ci affianca lungo gli ultimi passi che ci separano dal portone di casa, saremmo facili prede per qualsiasi aggressore.
Senza paura, saremmo vittime.
Senza paura, siamo vittime.
Sono volutamente partita prendendola larga e scegliendo esempi più vicini all’esperienza di un adulto che a quella di un ragazzo.
Lo faccio in primissima battuta perché non c’è nulla – mai – che possiamo pensare di comprendere intimamente se non partiamo da noi stessi. Non tanto dalla nostra conoscenza diretta (io sono dalla parte di chi è convinto che non occorra avere avuto l’ansia per capire chi ce l’ha), quanto dal nostro poter sentire empaticamente ciò che sente l’Altro.
In secondo luogo lo faccio perché, come abbiamo visto innanzitutto dalle cifre sull’ansia presentate nell’Introduzione (e come ci dice nella sua telefonata Caterina, la mamma di Alessandro), è altissimamente probabile che un adulto abbia, abbia avuto o avrà (attenzione: non è un anatema!) un’incursione da parte dell’ansia e/o del panico nel corso della propria vita.
Da ultimo, partiamo dagli adulti poiché loro, con gli acciacchi dei più piccoli, c’entrano sempre. Nel nostro caso specifico, non intendo che le madri e/o i padri ansiosi debbano avere necessariamente dei figli ansiosi, quanto piuttosto, come dice in modo molto bello Roberto Viganoni, che «il panico o l’ansia siano dei disagi che nascono a livello della relazione e che per tali ragioni possono essere curati all’interno di una relazione».1
Quindi – come è stato per me e per la mia esperienza professionale di odio-amore con l’ansia – la qualità diversa che permetterà di affrontare quella dei nostri ragazzi dipenderà proprio dal modo in cui al suo cospetto si sono posti, si pongono, si porranno gli adulti.
Del resto, questo libro è rivolto a loro.

L’ansia, questa (s)conosciuta

Una delle cose che ho capito più chiaramente fin qui, imparando a conoscere a fondo l’ansia, è che intanto è molto difficile definirla, soprattutto – paradossalmente – da parte di chi la prova. Tuttavia, trattandosi di un cosiddetto disturbo «egodistonico», ovvero che rompe gli equilibri interni e ci fa sentire in modi in cui non ci vorremmo sentire, non è difficile che spinga chi ne soffre a chiedere aiuto e ad affrontarla.
Tra i motivi della fatica di inquadrare l’ansia c’è il fatto che, come abbiamo visto in queste prime pagine, essa in realtà è di per sé una componente normale e strutturale della vita.
L’ansia, che tu ci creda o meno, è qualcosa di buono, che contribuisce alla tua sopravvivenza e sicurezza ed è utile per preservare la specie umana. Perché tu – come qualsiasi essere umano «normale» – sei nato e sei stato educato per avere desideri, preferenze e obiettivi, e se non avessi assolutamente alcun tipo di ansia e non ti preoccupassi minimamente di realizzare i tuoi desideri, sopporteresti anche cose sgradevoli – come gli insuccessi, la disapprovazione degli altri, i pericoli, le aggressioni e persino i tentativi di ucciderti – e non faresti nulla per contrastarli o sfuggirvi. L’ansia, fondamentalmente, è un insieme di sensazioni di disagio e di tendenze ad agire che ti rende consapevole che stanno accadendo o potrebbero accadere degli eventi spiacevoli – ovvero cose che vanno contro i tuoi desideri – e ti avvisano che dovresti fare qualcosa per evitarlo. Così, se corri il pericolo di subire un attacco, e desideri restare illeso, puoi scegliere tra diverse azioni possibili, come scappare, contrattaccare il nemico, cercare l’aiuto di potenziali protettori, chiamare la polizia, convincere il nemico a lasciarti stare e così via. Ma probabilmente non faresti niente di tutto questo se non fossi preoccupato, all’erta, ansioso, teso, cauto, vigile o in preda al panico.2
Albert Ellis è tra i maggiori studiosi dell’ansia e del panico. Non a caso, è stato tra i più influenti ispiratori della teoria e terapia cognitivo-comportamentale, nata negli anni Sessanta del secolo scorso, ovvero l’approccio psicologico che sostanzialmente (ma ci ritorneremo) fino a oggi si è imposto come quello che si è occupato più diffusamente, e spesso con successo, di questi disturbi.
Ellis, come lui stesso racconta, è stato un ansioso grave fino ai diciannove anni, con picchi di fobie che lo avevano molto compromesso e con una madre altrettanto ansiosa che lui tuttavia tendeva a scagionare, dicendo che non era possibile che avesse «passato» la propria ansia ai figli, dal momento che il fratello non ne soffriva affatto.
Una volta, quando avevo circa undici anni, vinsi una medaglia alla scuola domenicale, e all’ora dell’assemblea mi chiamarono sul palco per consegnarmela: non dovevo fare altro che farmi dare la medaglia e ringraziare il presidente della scuola. Andai, presi la medaglia e ringraziai il presidente, ma quando tornai a sedermi un mio amico mi disse: «Perché stai piangendo?».
Ero talmente ansioso di apparire in pubblico che i miei occhi lacrimavano copiosamente, e sembrava che stessi piangendo.3
Ebbene, come lui stesso afferma, esistono vari tipi e gradi di ansia. La prima cosa da distinguere – e non sempre è agevole, soprattutto per un genitore – è il confine oltre il quale l’ansia normale e appropriata diventa disfunzionale e patologica: questo accade nel momento in cui viene avvertita con una frequenza e un’intensità tali da fare lo sgambetto troppo spesso e con cadute sempre più rovinose che passano metaforicamente da un ginocchio sbucciato a gambe e braccia fratturate.
L’ansia ha passato il segno nel momento in cui ci impedisce di vivere come abbiamo fatto fino a quel momento, di vivere bene, cioè: andando a scuola, praticando sport, incontrando gli altri, facendo progetti che poi proviamo a realizzare.
Diventa davvero molto importante riconoscere i sintomi di un’ansia non fisiologica perché, se finisce per essere minimizzata e sottovalutata, o se al contrario, per quanto riconosciuta, viene giudicata troppo impegnativa da affrontare, e quindi non viene adeguatamente trattata, rischia di incattivirsi trasformandosi negli attacchi di panico.
Un rapido test che reputo abbastanza infallibile per capire se un sano stato d’ansia ha superato la Linea Maginot dei nostri sistemi difensivi diventando qualcosa di cui doversi prendere cura è questo: se, leggendo, state pensando che vostro figlio oppure lo studente che, da insegnanti, avevate in mente quando siete stati attirati dal titolo di questo libro o ancora la ragazza a cui fate da educatori in oratorio e che un po’ vi preoccupa per come si sta chiudendo in se stessa a causa dell’ansia non abbiano apparentemente delle ragioni fondate e oggettive per motivare e giustificare il loro stato di malessere, ecco, ci siamo.
A undici, dodici, tredici… diciassette anni (ma anche a venti) è normale stare in ansia per un carico di pressione dovuto a riconoscibili stimoli esterni: essersi trasferiti in una scuola in cui non si conosce ancora nessuno, mamma e papà che litigano talmente tanto e male che forse si separano, oppure papà che sta perdendo il lavoro mentre mamma ha un part-time per cui in casa è arrivata forte la preoccupazione economica, la reazione ai fatti di geopolitica e terrorismo internazionale. Queste cose metterebbero legittimamente in ansia, poco o tanto, chiunque.
Con ciò non intendo dire che la reazione ansiosa dovuta a stimoli oggettivamente riconoscibili sia da considerarsi di serie B, né che basti individuare la fonte ansiogena per scampare all’ansia. Intendo riferirmi al fatto che nei casi in cui a una certa situazione segue una legittima reazione (come per esempio l’ansia che non ci fa dormire la notte appena dopo aver subìto un furto in casa), ci troviamo nel mondo della sana e normale fisiologia: la prova ne è il fatto che dovremmo piuttosto trovare anomalo se un evento dannoso, pericoloso o stressante non fosse seguito dalla sua coerente conseguenza emotiva.
Insomma, siamo nel regno dell’ansia che abbiamo descritto come appropriata e normale.
I sintomi di cui tratteremo in questo libro invece sono ben più subdoli e infingardi, ed ecco un’altra ragione per cui sono difficili da riconoscere, comprendere e descrivere sia da parte del figlio che ne soffre sia da parte di chi gli sta vicino e gli vuole bene. La frase che tipicamente li accompagna è: «Nella mia vita va tutto bene, eppure non sto bene».
Ogni volta che ho sentito questa frase pronunciata dai miei giovani pazienti con l’ansia ho sempre pensato a Charles Bukowski, quando ha scritto che non sono le grandi cose che mandano un uomo al manicomio. La morte o l’omicidio, l’incesto, il furto, l’inondazione – quelli se li aspetta. È la continua serie di piccole tragedie quotidiane che manda un uomo al manicomio. Non è la morte del suo amore, ma il laccio della scarpa che si rompe quando ha fretta. Il laccio di cui parla Bukowski, non a caso, sembra qualcosa di così sciocco e insignificante da non poter giustificare quanto male si possa stare come «portatori sani di ansia».
Eppure questo aspetto di i...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. Introduzione
  6. 1. Va tutto bene, eppure non sto bene
  7. 2. Perché arriva l’ansia?
  8. 3. Super Genitori
  9. 4. La famiglia ansiogena: zero conflitti, niente regole
  10. 5. Narciso, o l’adolescente postmoderno
  11. 6. Il palcoscenico dell’ansia: la scuola
  12. 7. Narciso e il mondo esterno
  13. 8. Se non va tutto bene, allora va bene
  14. 9. Come fare? (Elogio dell’imperfezione)
  15. Conclusioni
  16. Per approfondire
  17. Ringraziamenti