Piove fitto a Palermo, la notte tra il 17 e il 18 ottobre 1969. Non è normale in ottobre, nel capoluogo isolano che vive all’aperto anche d’inverno, con i tavolini di via Principe di Belmonte affollati fino a sera, dove molte case non hanno il riscaldamento.
La pioggia battente non ferma gli uomini che a bordo di una motoape raggiungono via dell’Immacolatella, nel quartiere della Kalsa, governato dalla famiglia Spadaro, in tasca qualche arnese da scasso e in mente un disegno ben preciso.
L’oratorio di San Lorenzo non ha speciali misure di sicurezza, negli anni del boom economico e dei juke-box con la musica a tutto volume non si ammette che qualcuno possa violare un luogo di culto per rubare opere d’arte.
La Natività del Caravaggio poi, figurarsi…
Un dipinto di quasi tre metri per due, con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi a contemplare il Bambinello, la Madonna seduta sulla paglia e l’angelo disceso dal cielo.
Invece qualcuno la stacca dall’altare con una lametta e la ruba, la tela che Michelangelo Merisi aveva realizzato nel 1609 tornando da Malta, dove per un delitto si era rifugiato e che, per un delitto, aveva dovuto lasciare.
A Palermo il «maestro della luce» si fermò per breve tempo, inseguito dai fantasmi e forse da ignoti sicari. È un ritorno in patria avvolto nel mistero, di certo vi è che il suo viaggio terminò sulla spiaggia toscana di Porto Ercole, dove lo rinvennero moribondo e infine spirò.
«Cosa c’era da pensare su Caravaggio» scrive di quei giorni oscuri Roberto Cotroneo «nel tempo in cui si pensava a far chiarezza sui suoi viaggi, sui suoi soggiorni, su quella vita turbolenta? Dopo la sua partenza dalla Sicilia, ancora con la speranza di poter tornare a Roma, dormiva guardingo con un pugnale accanto. Temeva di essere aggredito, temeva di essere ucciso. Non si lavava, portava i capelli lunghi, ed era pronto a esplodere d’ira per un nonnulla.»
Sul quotidiano «L’Ora», a due giorni dal furto, ne dà notizia il giornalista Mauro De Mauro, preoccupato che dopo il Caravaggio altri capolavori esposti in Sicilia possano sparire. Dalle stesse colonne e da quelle del «Corriere della Sera» gli fa eco Leonardo Sciascia, che eleva il misfatto agli onori della cronaca nazionale.
Nel tempo lo scrittore di Racalmuto maturerà verso quel delitto un’ossessione che non lo lascerà più. Il suo romanzo Una storia semplice, dato alle stampe nel 1989, poco prima di morire, parte ancora da lì, ipotizzando dietro la sottrazione affari illeciti che coinvolgono un funzionario di polizia.
Non sarà il solo parto di fantasia dedicato alla Natività, in una sequenza narrativa che, giungendo ai giorni nostri con il film di Roberto Andò Una storia senza nome, trasferisce il dipinto sul piano del mito.
Il suo autore, Michelangelo Merisi da Caravaggio, un mito lo è già, non solo per la sua arte ma per la biografia travagliata, segnata fin dalla giovinezza dall’intrigo e dalla violenza. A ventun anni, secondo il suo biografo Giovanni Pietro Bellori, lascia Milano dopo aver «appiccato per la gola un compagno suo in bottega, maestro Peterzano».
Più famosa la sua partecipazione a una rissa avvenuta in Campo Marzio, scoppiata per un fallo nel gioco della pallacorda. È la sera del 29 maggio 1606, il nostro vive a Roma da tempo ed è un personaggio ben noto agli sbirri pontifici, che più volte lo hanno condotto a Palazzo Madama, oggi sede del Senato e allora della polizia vaticana.
Gli animi si alterano, lo scontro si accende, spuntano i coltelli. Caravaggio e un suo amico sono feriti gravemente. Il pittore colpisce a morte uno dei fratelli Tomassoni, i loro antagonisti. «Caduto a terra Ranuccio,» racconterà lo storico Giovanni Baglione «Michelagnolo gli tirò una punta, e nel pesce della coscia feritolo, il diede a morte.»
Nello stesso anno del furto della Natività, il 1969, in Sicilia nasce un’altra leggenda: Totò Riina, picciotto di Corleone cresciuto a pane e raffiche di mitra, si trasforma in una primula rossa.
Catturare il «capo dei capi», responsabile di stragi e omicidi eccellenti, sarà per ventiquattro anni il sogno di ogni investigatore. Lo trasformerà in realtà un drappello di carabinieri che, come tanti predecessori, avevano speso sulle tracce del latitante giorni e notti di ricerche.
Il sogno dei detective dell’arte è invece recuperare il capolavoro rubato a Palermo in una notte di pioggia. Ironia della sorte, chi fra i primi documenta la scomparsa del quadro, il cronista Mauro De Mauro, un anno dopo sparisce a sua volta, forse vittima della stessa mano.
Cosa Nostra, con i traffici d’arte, al tempo si sta arricchendo e il capoluogo isolano ne fa le spese maggiori. Due anni prima del Caravaggio, dalla chiesa di Santa Maria in Valverde hanno rubato fra l’altro la Madonna del Carmelo, capolavoro secentesco di Pietro Novelli.
Dello stesso autore, nell’agosto 1969, qualcuno porta via il San Michele combatte Satana. Un ulteriore tentato furto si verifica a Palazzo Abatellis, sede della galleria d’arte regionale: obiettivo dei ladri, tre opere di Antonello da Messina di enorme valore.
Il cielo di Palermo ha meravigliose sfumature di colore. Amava dipingerlo Francesco Lojacono, che dopo averla lasciata vi tornò con i Mille di Garibaldi. Le sue vedute della città sembrano rapire i raggi dell’alba, lo avevano perciò chiamato «il ladro della luce». Ma i suoi erano furti senza conseguenze, che lasciavano il sole al suo posto. Ben altra è l’azione di chi in modo sistematico, all’ombra o con l’avallo della mafia, saccheggia il patrimonio culturale della Trinacria.
In quegli anni non solo la Sicilia è aggredita dai predoni della bellezza. Per correre ai ripari, il comando generale dei Carabinieri vara un progetto destinato a durare.
In principio era il Nucleo per la tutela del patrimonio artistico. L’Arma lo costituisce il 3 maggio 1969 d’intesa con il ministero della Pubblica istruzione. La sede prescelta è un palazzetto di stile tardo barocco progettato da Filippo Raguzzini in piazza Sant’Ignazio, considerata il capolavoro dell’artista napoletano. L’attuale comando Tpc è sempre nello stesso edificio.
A osservarlo sulla mappa di Roma, non potrebbe esservi luogo più adatto per ospitare la speciale unità investigativa. Si trova a un passo dal Pantheon, nel raggio ristretto che racchiude la massima concentrazione di meraviglie del mondo, da via del Corso a Palazzo Venezia, dalla Fontana di Trevi alla Colonna Antonina.
Varcando il portone si è accolti da una vista emblematica. Sui lati dell’ingresso due vetrinette espongono oggetti che alla notevole qualità estetica uniscono il fascino di un tempo lontano.
Sono reperti, vasi, anfore, che i detective dell’arte hanno recuperato a Parigi il 26 novembre 1999, rubati alla terra in aree archeologiche di Puglia e Campania.
Non deve stupire: la Magna Grecia è la culla di una civiltà che ha generato la scuola pitagorica e la scienza di Archimede, la filosofia di Empedocle e la poesia di Orazio. Mezzogiorno glorioso con le sue luci e le sue ombre, che ha visto sorgere la cultura occidentale e, in epoca moderna, le mafie più potenti.
L’interesse di Cosa Nostra per il patrimonio culturale, lo vedremo, va oltre il furto del Caravaggio.
Per le cosche l’arte è un campo da depredare per trarne lucro. Lo dimostrano il patrimonio milionario sequestrato nel 2017 dalla Dia a un trafficante di beni archeologici di Castelvetrano, feudo del noto latitante Matteo Messina Denaro, o i 5361 reperti provenienti da scavi clandestini effettuati nelle isole e nel Meridione, recuperati a Basilea grazie all’indagine Teseo del Tpc.
Portano al boss anche le dichiarazioni del pentito Mariano Concetto, che rivela un suo piano maturato alla fine degli anni Novanta. Era quello di rubare il Satiro danzante custodito a Mazara del Vallo, un’opera scultorea attribuita a Prassitele che era stata ripescata nel Canale di Sicilia.
Per Messina Denaro è una sorta di tradizione di famiglia: suo padre negli anni Sessanta rubò dal museo di Castelvetrano una statua alta quasi un metro, Efebo, che provò a vendere fra gli altri al miliardario americano Jean Paul Getty.
La zona di origine del clan è ricca di reperti, poiché è vicina al parco archeologico di Selinunte, che con i suoi 270 ettari di estensione è il più grande d’Europa.
Nei disegni mafiosi l’arte è anche un’arma da usare a scopi terroristici, come dimostra il patrimonio devastato dalle stragi del 1993, nel momento più alto dello scontro con lo Stato. La prima avviene la notte tra il 26 e il 27 maggio a Firenze, in via dei Georgofili, alle spalle della Galleria degli Uffizi. Lo scoppio di un’autobomba causa la morte di cinque persone e in seguito all’esplosione oltre un quarto delle opere della galleria subiscono danni. L’antica Torre dei Pulci, sede dell’Accademia dei Georgofili, viene distrutta.
L’attacco ai beni culturali prosegue a Roma, dove due attentati messi in atto con la stessa tecnica colpiscono il 27 luglio la basilica di San Giovanni in Laterano e la chiesa di San Giorgio al Velabro. Non ci sono morti, per fortuna, ma in dodici patiscono lesioni.
Quello stesso giorno finisce nel bersaglio anche Milano: una Fiat Uno imbottita di tritolo salta in aria provocando cinque vittime e dodici feriti in via Palestro e danneggiando il Padiglione d’arte contemporanea e la Galleria d’arte moderna.
Vi è perfino un’arte prodotta dalla mafia, come le marine che il corleonese Luciano Liggio espone nel carcere di Badu ’e Carros o quelle realizzate da Gaspare Mutolo, mafioso pentito della famiglia di Partanna-Mondello. Ha una passione per le tele anche Lucia Riina, figlia del boss mandante di stragi e omicidi eccellenti. Le sue opere adornano le pareti del ristorante Corleone, aperto nel 2018 al centro di Parigi.
L’ennesima circostanza che contrappone la mafia al Tpc è quella battezzata, dal nucleo di Palermo, operazione Demetra, un’indagine avviata con i colleghi della famigerata Scotland Yard britannica, della polizia criminale tedesca del Baden-Württemberg e della Guardia Civil spagnola. Vi hanno un ruolo anche altri uffici: l’unità di cooperazione giudiziaria Eurojust e l’agenzia investigativa Europol, entrambe con sede nella capitale olandese.
Grazie al loro raccordo, il 4 luglio 2018 scattano in simultanea ventotto misure cautelari, fra cui tre mandati di arresto europei eseguiti nel Regno Unito, in Germania e in Spagna, e quaranta perquisizioni in vari Paesi, che toccano fra l’altro due case d’aste ubicate a Monaco di Baviera. Fra i reati contestati vi sono l’associazione a delinquere transnazionale e il riciclaggio. Di pari passo viaggia il sequestro di oltre ventimila reperti archeologici, denaro contante, certificazioni per la vendita presso case d’asta, computer e telefoni cellulari.
«Tutto comincia nell’estate 2014» racconta il tenente colonnello Luigi Mancuso, comandante del nucleo Tpc di Palermo, che ha seguito l’attività dalle sue prime fasi. «Nasce per caso» dice sorridendo. Quando un’indagine va a segno è divertente ricordarne l’avvio, spesso dovuto a coincidenze incredibili.
Del resto è la storia dell’umanità: alcune fra le principali invenzioni della scienza moderna sono avvenute in modo fortuito. È successo ad esempio per Nobel e la dinamite, per Horace Wells e l’anestesia, per Fleming e la penicillina.
L’operazione Demetra prende il nome dalla dea greca del grano e dell’agricoltura, che per i romani si chiamerà Cerere. Al centro della Sicilia, in epoca antica, il culto della divinità era molto diffuso e la zona dell’indagine è proprio quella. Un imprenditore della provincia di Caltanissetta, sospettato dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo di altri delitti, trova dei reperti in un suo terreno e incarica un conoscente di svolgere gli scavi.
Lui lo fa e, accortosi della presenza di un vero tesoro, si attiva subito per piazzare la merce. Le sue mosse sono intercettate dai carabinieri di Caltanissetta e, quando emergono collegamenti con i traffici d’arte, entra in gioco il Tpc.
Nelle maglie degli investigatori incappano due organizzazioni. La prima, radicata nel Nisseno e nell’Agrigentino, ha i propri canali di vendita in Piemonte, con emissari nell’ambiente dei collezionisti locali.
È la seconda a impegnare di più i carabinieri del tenente colonnello Mancuso. Si tratta di una compagine forte che fa capo a un mercante inglese già apparso in altre indagini. Questi spedisce i reperti in Germania, a Monaco di Baviera, dove giungono in auto, in treno o in aereo, a seconda delle dimensioni.
Il ricettatore dispone di «corrieri» che ricordano quelli dei traffici di droga. Il nucleo Tpc palermitano si mette sulle loro tracce. Ne ferma due a Catania: il primo si sta imbarcando in aereo e ha alcune monete d’argento nel portafoglio, l’altro sta salendo su un treno con statuette e monete nascoste in un borsone.
Nella primavera del 2015, a Monaco di Baviera si tiene un’asta importante. Nel raccontarla sembra di rivedere Gambit, o La migliore offerta di Giuseppe Tornatore, in cui a battere il martelletto è uno strepitoso Geoffrey Rush.
La sala, arredata in stile floreale, si riempie di signore ingioiellate e accompagnatori vestiti in modo inappuntabile. Ci sono appassionati affluiti apposta da mezzo mondo, hanno già visto sui cataloghi i lotti in vendita e sono pronti a darsi battaglia fino all’ultimo euro per accaparrarsi i preziosi oggetti che, solo nelle loro collezioni, potranno avere il dovuto risalto.
È il turno di una moneta in oro di epoca romana. Al tombarolo che l’ha scovata in un terreno della lontana Sicilia è valsa cento euro, ma i potenziali acquirenti sono ignari dei dettagli. Nemmeno la casa d’aste è tenuta a conoscerli: se i...