La verità nasce dalla carne
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La verità nasce dalla carne

  1. 304 pagine
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La verità nasce dalla carne

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La VERITÀ NASCE dalla CARNE (1988-1990) è il terzo volume della serie BUR Cristianesimo alla prova, che raccoglie le lezioni e i dialoghi di don Giussani durante gli Esercizi spirituali della Fraternità di Comunione e Liberazione. Qual è la natura del cristianesimo? Ciò che ha fatto tutte le cose, il significato cui il cuore di ogni uomo aspira si è identificato con la precarietà di una carne, è diventato un uomo: ecco, il cristianesimo è questo avvenimento. Ma non è solo un passato: Cristo, Dio fatto uomo, si rende udibile e tangibile oggi attraverso la precarietà di una carne, quella di una compagnia fatta di persone come tutte le altre, eppure diverse, con una umanità trasformata, più compiuta, desiderabile, che si può incontrare nelle piazze e negli ambiti di vita di tutti, che desta attenzione, stupore. È nato dalla carne, Dio. E rimane nella storia attraverso la carne di coloro che Egli sceglie e che lo riconoscono, rendendosi così presente ai nostri bisogni e alle nostre fragilità.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2019
ISBN
9788858696675

«OCCORRE SOFFRIRE PERCHÉ LA VERITÀ NON SI CRISTALLIZZI IN DOTTRINA, MA NASCA DALLA CARNE»

(1989)a
La terra e la gioia, già al centro della riflessione comune, vengono ora riprese e approfondite, con un forte accento sulla condizione umana, sulla «carne» da cui può sorgere, in modo finalmente autentico, la verità, e può innalzarsi una concreta costruzione.
Nel Volantone pasquale campeggiava l’immagine di Gesù a Emmaus, in mezzo ai discepoli, dipinta da Rembrandt. Anche in quest’opera del 1648, come nella prima versione, la luce spaccava il buio, la verità prorompeva, potente, in mezzo alla normalità della vita. La frase di una lettera di Emmanuel Mounier ne spiegava il senso: «È dalla terra, dalla solidità, che deriva necessariamente un parto pieno di gioia e il sentimento paziente di un’opera che cresce, di tappe che si susseguono, aspettate con calma, con sicurezza». Perciò, senza alcuna rassegnazione o passiva consolazione: «Occorre soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne».1
Immagine e frase, ove la fede si univa alla vita, il cielo alla terra, la ragione all’esperienza, la verità alla carne, erano diventate una sorta di “manifesto” per tutti e per tutte le occasioni. Anche la Compagnia delle Opere ne aveva fatto il tema della sua assemblea annuale.
L’insistenza era voluta, e derivava dall’avvertito bisogno di non ridurre ideologicamente la novità cristiana incontrata, facendone un “discorso”, e di contrastare ogni tentazione di egemonia, facendone un “progetto”.
La testimonianza personale, in un clima in cui tutto stava rapidamente cambiando e i tradizionali riferimenti sarebbero scomparsi senza essere sostituiti, si presentava come la vera origine della propria posizione nel mondo e come insostituibile inizio di ogni azione. L’universitario cinese che si parò in piazza Tienanmen davanti ai carri armati, negli ultimi giorni della Primavera democratica cinese, divenne, in tutto il mondo occidentale, il simbolo della resistenza al potere. Ma per chi aveva scoperto «il rapporto che ci costituisce» fu l’impellente invito a testimoniare e a comunicare a tutti ciò che dà senso alla vita.
Le sicurezze basate sulle connivenze politiche stavano mostrando la loro precarietà e inconsistenza. Lo scontro tra i partiti della Prima Repubblica era diventato aspro e, nella quasi incoscienza generale, stava conducendo al tramonto di un’epoca. Il sentimento di «un’opera che cresce» consentiva di tenere viva la speranza e di non soccombere nell’impaziente attesa di illusorie soluzioni. Si trattava di cogliere il «singolare “genio”» di un’esperienza, come scrisse Paul Josef Cordes ai partecipanti, che consiste «nel saper coniugare una fedeltà viva alla grande tradizione ecclesiale e un’intrepida capacità di “creare forme nuove di vita”».
Con una lettera agli amici della Fraternità, don Giussani annunciava il riconoscimento dei Memores Domini da parte del Pontificio Consiglio per i Laici, avvenuto l’8 dicembre 1988, ricordando che essi, nella comunità cristiana, svolgono «l’alta funzione» di richiamare tutti «all’ideale per cui si esiste e si agisce». Tale atto fu «il vertice del riconoscimento autorevole della nostra esperienza come Fraternità».2
a. Esercizi spirituali della Fraternità di Comunione e Liberazione, 28-30 aprile 1989, Rimini.
1. Volantone di Pasqua, 1989, Comunione e Liberazione; cfr. E. Mounier, Lettere sul dolore, op. cit., pp. 39-40.
2. L. Giussani, L’opera del movimento. La Fraternità di Comunione e Liberazione, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2002, p. 258.

Introduzione

«Il Signore ha messo un seme»1 e «il nostro cuore non si è perduto».2 Così questo seme è cresciuto. Poco o tanto? Tanto, perché siamo qui in tanti. Vi confesso che, per la prima volta, è come se mi meravigliassi di dovervi parlare. È come se fosse venuto il tempo – quando tutto matura, tutto si interiorizza – in cui uno vorrebbe dire le parole soltanto a se stesso. Poi mi sono detto: «Ma dirle a loro è come dirle a me». E allora tutto si pacifica, tutto si spiega: è giusto che dica a voi parole che dico a me stesso. San Paolo diceva ai cristiani di Filippi: «Fratelli miei, state lieti nel Signore: a me non pesa, e a voi è utile che vi scriva [sempre] le stesse cose».3 Dobbiamo parlare delle stesse cose, perché il seme è quello e la pianta che se ne sviluppa è omogenea al seme. Dobbiamo parlarci delle stesse cose; quando ci ritroviamo tutti, una volta all’anno, di che cosa volete che abbiamo a parlare se non di quel rapporto che ci costituisce, che dà senso alla nostra vita, che si fa compagno della nostra vita, che ci abilita a guardare, a sentire e a usare le cose in un modo così diverso – quando ne viviamo la memoria – che si crea una socialità diversa, nuova? Si crea, a partire da quel seme, una trama di rapporti che, se ognuno di noi potesse, se avesse tempo, se avesse agio, se avesse capacità materiale e se avesse uno spirito di fede, di speranza e di carità più forte, sarebbe realmente come un pezzettino di Paradiso in questo mondo, un riverbero del Paradiso in questo mondo. Invece, quanta impotenza! L’ho constatato quando, essendomi assentato per dei mesi, ho visto accumularsi quintali di posta, e mi sono detto: «Adesso come faccio a rispondere a tutti, a uno a uno, a ognuna di queste lettere?». Farò quel che potrò; magari fra due anni – meglio tardi che mai – potrebbe arrivarvi qualche risposta. Ma è soltanto un sintomo di questa impotenza, che però ci rende come abbandonati al Signore, come bambini fra le braccia del padre. Per questo san Paolo dice: «Siate lieti, lieti nel Signore!».4 Quello che non posso fare io, amico mio, e vorrei fare per te, proprio come fratello, lo farà Iddio, anche se non ti sembra possibile nei momenti brutti, quando vorresti una parola, quando vorresti una presenza.
Vorrei semplicemente indicare quello che mi sembra il punto più suggestivo e necessario in questo momento del nostro sviluppo: «Il nostro cuore non si è perduto» e perciò ha camminato. Mi è venuto in mente leggendo una preghiera nel rito ambrosiano – il più bello di tutti –, nella quarta settimana del tempo pasquale: «Concedi a tutti i Tuoi figli, o Dio, una comprensione sempre più viva e perfetta dei misteri celebrati in questo tempo pasquale, e a coloro che credono con cuore ardente e sincero dona di riconoscere la gioiosa certezza della loro speranza nel destino di gloria».5 Una certezza piena di comprensione, una intelligenza che penetra dentro il grande Mistero e, nello stesso tempo, una gioia, cioè un’affezione, perché la gioia è il massimo dell’affettività; comprensione e gioia, intelligenza e affettività: ecco, è come se urgesse sempre di più l’unità della nostra persona nella fede. Il Signore ha posto un seme, che deve diventare grande: e la caratteristica di un seme che diventa pianta è proprio l’unità.
Ho trovato una preghiera di sant’Anselmo che riguarda proprio l’urgenza che abbia a crescere l’unità tua e mia nella fede, l’unità della nostra persona, una unità che è “congegnata” di intelligenza, cioè di comprensione sempre più grande, e di affezione sempre più grande, perché la vostra gioia sia piena («Vi ho detto queste cose affinché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena»).6 Dice, dunque, sant’Anselmo: «Ti prego, Signore, fammi gustare attraverso l’amore quello che sento attraverso la conoscenza. Fammi sentire attraverso l’affetto quello che sento attraverso l’intelletto. Tutto ciò che è Tuo per condizione» – la nostra vita è tutta data, condizionata – «fa’ che sia Tuo per amore», fa’ che io lo abbracci e lo accetti, così che l’unità della mia persona si espliciti, si esprima, si espanda. «Attirami tutto al Tuo Amore. Fa’ Tu, o Cristo, quello che il mio cuore non può»; fammi vivere cioè questa intensità affettiva nell’aderire al vero e prima ancora questa acutezza nel percepire il vero, che io non sono capace di realizzare. «Tu che mi fai chiedere, concedi!»7
«Tu che mi fai chiedere, concedi!» Credo che questo possa essere il tema o il programma di queste giornate, di questo gesto comune cui partecipiamo con sacrificio – ognuno di voi ha fatto un grande sacrificio per venire e dovrà continuare a farlo nel restare –. Questo sacrificio possa alimentare la verità di questo grido o di questo abbandono: «Tu che mi fai chiedere, concedi».
Ora, quando la persona è ben unita, vale a dire quando c’è la comprensione della fede, pardon, quando avanza la comprensione della fede e si rende più densa l’affezione al suo contenuto, cioè a Cristo, allora quella che è chiamata gioia da san Paolo può essere più precisamente definita come speranza: vibra, si dilata e s’avventa sul tempo e sullo spazio della nostra esistenza la speranza. La speranza infatti è una certezza che costruisce, con l’energia dell’affetto, la propria realizzazione, cioè il proprio futuro, il proprio destino. Diceva il nostro grande Mounier, l’autore della frase che è tema della meditazione pasquale di quest’anno:8 «Con la speranza […] tutto può essere rifatto fino in fondo, fino all’anima dell’anima».9 Non solo si parla di speranza come costruzione e realizzazione della nostra persona, come ho detto prima, ma addirittura come capacità di rifare. Mi consolo! Consolati anche tu, amico mio, come mi consolo io. La speranza mi dà la possibilità di rifare dal fondo, raggiunge l’anima dell’anima: è come se nessun residuo mi potesse tenere indietro. L’unità della mia persona nella fede genera questa energia vincitrice del tempo e dello spazio, questa vittoria sulla vita, che è la speranza.
Qualche volta mi viene in mente: «Che cosa pretendi di dire sempre?». È stata una fissazione anche quest’oggi, anzi in questi giorni: «Perché pretendi di dire sempre queste stesse cose?». Ma capisco che è artificiosa come domanda; tante tentazioni sono domande artificiose, tanti dubbi e tante incertezze e tante depressioni nascono da un artificio. Comunque sia, mi sono fatto questa obiezione: «Perché ci ripeti sempre queste cose? Con che diritto tu ripeti sempre queste cose?». È come sentire, con paura, di essere tacciati di imbonimento o di plagio: «Ripete sempre le stesse cose per plagiare, per convincere a tutti i costi». Guardate che cosa dice san Paolo ai Corinti: «Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede»: la tua fede, fratello mio, è rapporto fra te e Cristo, e non c’è niente che possa sospendere questo rapporto, che possa penetrare, stare in mezzo, fare da coibente, da impedimento, in questo rapporto, oppure sostituirti in questo rapporto. No, noi non facciamo da padroni della vostra fede, noi parliamo alla vostra libertà, come la vostra presenza parla alla mia libertà. La parola che ti dico la dico a me stesso, la dico alla tua libertà perché la dico alla mia. «Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia.»10 Non c’è infatti nessuna gioia senza fede, senza che la fede diventi conoscenza progressiva, senza che la fede scaturisca in affezione che mobiliti la nostra volontà, senza che il cuore non si perda, perché il cuore è la libertà. La fede è intelligenza e affezione. Senza questo, non ci può essere gioia. Veramente san Paolo nella Lettera ai Filippesi dice: «Siate lieti nel Signore»,11 ma la parola letizia è come la versione più discreta della parola gioia, e la gioia è come il fiorire definitivo della pianta, mentre la letizia è la pianta che può fiorire in gioia. «Non siamo padroni della vostra fede.» Che bello poter non pretendere nulla – nulla! – da nessuno e poter dare tutto a tutti, per quello che siamo capaci, per dono di Dio e per gratuità della nostra libertà, per generosità della nostra libertà.
Ho citato questo pezzo della Lettera...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. PREFAZIONE. «UN CUORE DENTRO TUTTE LE COSE»
  4. La verità nasce dalla carne
  5. NOTA EDITORIALE
  6. «VIVERE CON GIOIA LA TERRA DEL MISTERO». (1988)
  7. «OCCORRE SOFFRIRE PERCHÉ LA VERITÀ NON SI CRISTALLIZZI IN DOTTRINA, MA NASCA DALLA CARNE». (1989)
  8. GUARDARE CRISTO. (1990)
  9. FONTI
  10. Copyright