Dialogo tra un cinico e un sognatore
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Dialogo tra un cinico e un sognatore

  1. 240 pagine
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Dialogo tra un cinico e un sognatore

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Che cosa hanno in comune un matematico e un imprenditore? Chi dei due frequenta di più i sogni e chi insegue una verità cinica? In questo affascinante faccia a faccia fra due mondi apparentemente opposti, Piergiorgio Odifreddi e Oscar Farinetti si confrontano sui temi più urgenti dell'attualità: dai cambiamenti climatici alla politica dei «Grandi Satana come Trump e Orbán», dall'importanza del rispetto per la filiera del cibo alla decrescita - «che è sempre infelice». Naturalmente senza trascurare la tragicomica situazione dell'Italia odierna, incatenata ai suoi falsi problemi, intrappolata tra un «Vaffa» e certi «ducetti rosa o neri», spesso vittima di nuovi media e vecchiefake news. E nell'esplorare tutte le contraddizioni del cinismo contemporaneo dei nuovi sovranisti e dei venditori di sogni, l'uomo di scienza e l'imprenditore attraversano le diverse concezioni attribuite al sogno e al cinismo nell'antichità e nel presente, e discutono su temi di importanza universale - dal valore del tempo e del denaro fino all'amore. Un dialogo filosofico dei tempi moderni, arricchito da citazioni, curiosità, aneddoti personali, dove non si perde mai di vista l'importanza della conoscenza dei fatti, ma neppure la necessità dell'ironia: saper scherzare su se stessi e sul mondo è forse l'unica strada per portare a termine un ragionamento serio.E se è vero che il cinismo rispunta ogni qualvolta i valori di coesione di una società si sfaldano, come nel nostro presente, è forse altrettanto vero che il contraltare costruttivo al ghigno del cinico non può che essere la capacità di sognare. Viene da chiedersi, in fondo, se quelli di Odifreddi e Farinetti siano due sguardi così diversi sul mondo. O se, almeno in questo caso, cinico e sognatore siano due facce della stessa medaglia. «La verità è che entrambi vorremmo essere sognatori, ma entrambi riteniamo che l'altro sia un cinico», dicono gli autori. Al lettore l'ultima parola.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2019
ISBN
9788858696866

Giovinezza, giovinezza!

Piergiorgio Odifreddi

Due grandi vecchi (o no?)

Ohibò, Oscar! Confesso che non mi aspettavo di sentirti cantare: «Giovinezza, giovinezza». Che, tra l’altro, a me ricorda non solo i vecchi giovani fascisti di un tempo, che ne avevano fatto un inno, ma anche i nuovi giovani fascisti di ora, che votano cantando la stessa solfa, magari senza nemmeno conoscere la canzone. Anche se tu, è ovvio, la canti diversamente.
Confesso di non aver mai sentito parlare prima del senatore decano Borea d’Olmo, che pure scopro essere delle nostre parti. Certo, chi ha la mente sana in un corpo malato può ben dire: «Io non sono il mio corpo, sono la mia mente», anche se questo non gli evita di soffrire e di morire. Ma ci sono anche molti esempi contrari, di persone che hanno la mente malata in un corpo sano, e spesso non sono nemmeno in grado di dirlo. Poi, ovvio, ci sono i pochi fortunati con la mente e il corpo sano (o quasi), come la Montalcini, ma per loro è facile essere positivi e attivi anche in tarda età.
Comunque, la Montalcini tanto ottimista e sognatrice non era: sicuramente, non nel senso in cui la intendi tu. Anzi, proprio al contrario! Anch’io l’ho conosciuta, e ricordo che una volta le domandai se aveva trovato la felicità. Lei rispose (e riporto le sue parole letterali, visto che la registrai):
Io sono serena. Felice no: di fronte all’enorme sofferenza nella quale naviga il mondo, chi può esser felice? Non avrebbe senso.
Anzi, io abolirei addirittura la parola: di felicità non si può parlare.
L’uomo è portato all’imperfezione, e dunque all’infelicità: la serenità è il massimo che possiamo desiderare e sperare.
Questo è puro Lucrezio, anche se lei preferiva citare Spinoza (in onore del quale i genitori l’avevano chiamata Benedetta, oltre che Rita).
Naturalmente, condivido con te l’apprezzamento per questa grande donna. Meno quello per Napolitano, che ho conosciuto pure io: anzi, gli sono grato per averci sponsorizzati al Festival della Matematica, ricevendoci sempre in Quirinale, e venendo una volta addirittura all’inaugurazione.
Ma confesso che i due «golpe bianchi» che fece nel 2011 e nel 2014 non mi sono piaciuti per niente. Più in generale, non mi è piaciuta la sua «presidenza imperiale», che gli valse il nome di «re Giorgio». E non credo proprio che imponendo al governo Monti e Renzi abbia fatto «il bene del paese». Anzi, entrambe le volte se ne fregò del parere del paese, che entrambe le volte lo sconfessò non appena poté: cioè, alle elezioni del 2013 e al referendum del 2017.

La sindrome di Peter Pan

Per tornare alla giovinezza, non erano solo i fascisti ad averla come mito. Ce l’hanno tutti i giovani, che vogliono giustamente prendere il posto di chi li ha preceduti: in fondo non è altro che una forma della naturale ispirazione dei figli a prendere il posto dei padri. Ma forse sarebbe meglio che i figli, naturali o culturali, ambissero alla sostituzione dei padri perché migliori di loro, e non semplicemente perché più giovani: anche tu, credo, preferiresti un cuoco bravo a un cuoco giovane, se l’alternativa si ponesse così.
In politica ne abbiamo visti tanti di «giovani», arrivati al potere prima dei quarant’anni: da Mussolini a Renzi. Ma questo non ha impedito loro di fare disastri: anzi, probabilmente è stata proprio la loro giovinezza, con l’eccesso di autostima e il difetto di esperienza che ne conseguono, a condurceli. Diverso è il caso dei politici come Berlusconi, che giovani non erano, ma continuano pateticamente a presentarsi e atteggiarsi come tali anche da vecchi, dimostrando in tal modo di essere senili.
Dire che «dobbiamo rimanere sempre giovani» non è meno balzano di dire che «dobbiamo rimanere sempre bambini». Se la seconda pretesa viene giustamente considerata un disturbo della crescita (la sindrome di Peter Pan), perché mai non dovrebbe esserlo anche la prima? E comunque la paura di invecchiare, nel corpo o nella mente, finisce per portare al botulino e ai lifting, con il ridicolo che spesso ne consegue.
Non sta a me citare la Bibbia, ovviamente, ma già l’Ecclesiaste (che comunque è uno dei libri più laici dell’intero malloppo) insegnava: «C’è un tempo per ogni cosa. Un tempo per nascere e uno per morire. Un tempo per seminare e uno per raccogliere. Un tempo per costruire e uno per demolire. Un tempo per accumulare e uno per disperdere eccetera». Ovvero, ogni cosa a suo tempo: giovinezza compresa.
A me questo sembra molto saggio, ma a te la parola «saggezza» dà sui nervi. Ora, non vorrei difendere Lucrezio a tutti i costi, ma la sua filosofia insegna appunto ad accettare la decadenza e la morte come inevitabili conseguenze della nascita e della vita. Pretendere di rimanere giovani mi sembra invece un tentativo di rimozione di ciò che sta arrivando, un voler continuare a ballare ignari del naufragio imminente, come i passeggeri del Titanic.

In difesa di Lucrezio

A proposito di Lucrezio: non era affatto «inerte e gaudente», e meno che mai «godeva delle disavventure altrui e del benessere proprio». Al contrario, predicava il distacco dalle attività inutili (quasi tutte) e dai beni superflui (quasi tutti). La sua nave in balia del mare in tempesta era il mondo di allora, che nel suo esagerato affannarsi per un mucchio di sciocchezze appare così simile al nostro. E la casa provvista di «sistemi di sicurezza» era la mente saldamente difesa dalla filosofia epicurea, non più preda di false preoccupazioni e sciocchi obiettivi.
Detto altrimenti, Lucrezio non era affatto egoista: semplicemente, evitava di confondere il proprio interesse con «l’impegno per il bene di tutti», come fai invece tu. Anche se qui sei in buona compagnia (si fa per dire), visto che questa è esattamente l’idea del capitalismo proposta da Adam Smith: ciascun operatore economico può farsi i fatti propri, perché una miracolosa «mano invisibile» guida comunque il mercato all’equilibrio della domanda e dell’offerta. E tutti vivono felici e contenti, perché mentre i ricchi si arricchiscono una provvidenziale «percolazione» (trickle-down) fa cadere dalla loro tavola le briciole che impediscono ai poveri di morire di fame. Amen.
Tu pensi che voler cambiare il mondo sia una bella cosa, a prescindere, ma dimentichi che non siamo affatto tutti d’accordo sul come bisognerebbe cambiare il mondo: forse non pensi che, rendendolo più piacevole per te, potresti anche finire col renderlo più spiacevole per altri.
E comunque non ogni cambiamento è necessariamente buono: certo, per migliorare bisogna cambiare, ma non sempre quando si cambia si migliorano le cose, e spesso è vero il contrario. Anche perché tra gli «attivisti» ci sono un sacco di stupidi, le cui attività sono potenzialmente dannose non solo per gli altri, ma anche per loro stessi (anzi, secondo Cipolla, è proprio questo che definisce lo stupido: il talento di fare danni anche a sé, oltre che agli altri).
Tornando a Lucrezio, non era nemmeno un inerte: infatti ha scritto una delle grandi opere della sua epoca, come Dante o Shakespeare nelle loro. Si può essere distaccati anche quando si agisce, perché il distacco non ha effetto sulle cose che fai, ma sull’atteggiamento con cui le fai. E i buddhisti insistono molto sul fatto che il raggiungimento dell’illuminazione non deve portare necessariamente a cambiamenti esterni della tua vita, ma piuttosto al modo in cui la vivi al tuo interno.
E non è neppure vero che Lucrezio si sia suicidato: in realtà non sappiamo niente di lui, a parte il fatto che è l’autore del suo libro. Tutto il resto è un’invenzione della Chiesa, che ovviamente non poteva sopportare un maestro che insegnava ad affrontare serenamente la decadenza e la morte, mentre la religione speculava e specula proprio sulla paura del trapasso e dell’aldilà.
E infatti, a mettere in giro la favola del suicidio di Lucrezio è stato quel pervertito di san Girolamo, l’inventore del celibato ecclesiastico, che stabilì a tavolino addirittura la durata della sua vita (quarantaquattro anni) e le modalità della sua morte (un filtro d’amore), perché sapeva che le menzogne dettagliate sono più credibili di quelle generiche.

Amenità sull’età

Orazio confesso di non conoscerlo bene, ma mi stupisco che abbia detto che «l’età è uno stato della mente», perché amava Lucrezio, e lo citava nelle sue opere. E Lucrezio insegnava già allora qualcosa che solo oggi le neuroscienze stanno incominciando a rendere popolare, con grandi difficoltà: il fatto, cioè, che non c’è differenza tra la mente e il corpo. In particolare, ciò che noi chiamiamo «mente» è solo un fenomeno emergente dal corpo: non esistono menti disincarnate, come pensano i metafisici, dai filosofi ai preti (per non parlare degli scrittori e dei registi horror).
Comunque, e chiunque l’abbia detto, che l’età sia uno stato della mente mi sembra una sciocchezza. Al massimo l’età è uno stato della salute, e ovviamente chi sta meglio può sentirsi psicologicamente più giovane di chi lo è anagraficamente, ma sta peggio.
E, già che ci sono, mi sembra una sciocchezza anche dire che i vecchi non muoiono perché mangiano bene: semmai, e la Montalcini ne era un esempio vivente, sopravvivono a lungo proprio quelli che quasi non mangiano, riducendo così al minimo il metabolismo. Per non parlare del fatto che i nostri vecchi sopravvivono anche perché si curano e prendono un sacco di medicine, altrimenti morirebbero molto prima.

Speculiamo, ma non sull’amore

Ma è ora di passare ad altro, per non diventar vecchi a forza di parlare di giovinezza. Anzitutto, mi accorgo che il nostro motto sul «senso della vita» sta diventando troppo lungo: mi ricorda un racconto di Borges, in cui il critico Lambkin Formento tenta disperatamente di fare un riassunto della Commedia di Dante, riassunto che diventa man mano più dettagliato, e alla fine arriva a coincidere con l’opera stessa. Detto altrimenti, i riassunti di un’opera sono tutti irrimediabilmente imperfetti, e così sono anche le descrizioni della vita.
Sul tuo «mangia e dormi, leggi e viaggia, ama e sogna» avrei comunque qualche dubbio, soprattutto per l’uso di quell’abusata parola passepartout che è l’amore. Io diffido parecchio dei nebulosi concetti metafisici, e l’amore è uno dei più tipici. Per esempio, nella prima intervista ufficiale del principe Charles e della sua fidanzata Diana, il giornalista domandò loro ingenuamente se erano innamorati. Lei rispose da adolescente sognatrice: «Naturalmente». E lui da cinico empirista: «Qualunque cosa questo significhi».
È proprio perché non è affatto chiaro cosa sia l’amore, che i credenti finiscono invariabilmente per tirarlo fuori nelle discussioni sulla fede, rifugiandosi nell’affermazione che «Dio è amore»: su quel terreno possono tranquillamente menare il can per l’aia, senza dover giustificare seriamente le proprie affermazioni. Più in generale, l’amore è il concetto nel quale di solito cercano e trovano rifugio gli umanisti (preti, poeti, psicanalisti) che non sanno di cosa parlare, o di cosa stanno parlando.
Per esempio, Dante poteva dire «l’amor che move il Sole e l’altre stelle» solo perché viveva in tempi in cui non si sapeva ancora che a farle muovere sono l’inerzia e la gravità, non certo l’amore (qualunque cosa esso significhi, appunto).
Ma, lasciando per ora da parte l’amore, mi viene in mente che, volendo, potremmo ridurre il nostro motto a un’unica parola con due sensi contrapposti, che descrivono sinteticamente le nostre rispettive professioni: «speculiamo».
Da un lato, infatti, «speculare» deriva da «specchio» (speculum) e significa «riflettere»: cioè, in generale, dedicarsi a un’attività intellettuale. Dall’altro lato, a partire dal Settecento il termine è stato usato per indicare chi non osserva le cose gratuitamente, come l’intellettuale, ma per trarne un vantaggio, come un imprenditore: in questo senso, «speculare» significa dedicarsi a un’attività economica, spesso lasciando da parte gli scrupoli.
E qui, diversamente dai termini «cinico» e «sognatore», non credo ci siano ambiguità sul senso in cui ciascuno di noi è uno speculatore.

Ride bene chi ride ultimo

Ora però vorrei «speculare» sulla matematica, visto che tu hai accolto con una «scompisciata dal ridere» le mie osservazioni sul suo rapporto con il cibo. Intendiamoci, non sei l’unica persona che se la ride dei matematici: la prima di cui la storia serbi memoria fu la serva della Tracia che rise quando Talete cadde in una buca, perché camminando si era distratto per guardare il cielo. Ma in questa storia il sognatore è lui, che si dedicava a speculazioni astratte, e la cinica lei, che evidentemente pensava fosse meglio dedicarsi ad altre attività più terra terra.
La cosa singolare è che a riferire questo aneddoto sia Platone, che era più attratto dalle cose celesti che da quelle terrestri. Ma Aristotele, che invece aveva interessi opposti, riporta un altro aneddoto su Talete. Il fatto cioè che, dopo aver intuito che un’annata sarebbe stata particolarmente favorevole alla raccolta delle olive, egli pagò un anticipo per riservarsi il diritto di affittare a un prezzo pattuito tutti i frantoi della zona al momento del raccolto. Quando questo si rivelò essere effettivamente abbondante, egli subaffittò i frantoi a un prezzo più alto, traendone un gran guadagno. In altre parole, Talete è l’inventore dei derivati (in particolare, delle opzioni call) che oggi sono diventati così di moda: cioè, di speculazioni molto concrete, e anche molto pericolose, se fatte da operatori senza scrupoli.
Tornando al tuo riso, ammetto che il mio esempio di connessione tra cibo e matematica fosse letteralmente superficiale, visto che parlavo di pelli di salame, bucce d’arancia e foglie di lattuga. Ma voleva mostrarti come la matematica possa trarre anche dalle cose più concrete e quotidiane l’ispirazione per i concetti più astratti ed esotici. Per esempio, lo spazio-tempo che Einstein descrive nella relatività generale si può pensare come una coperta a pezze, ciascuna delle quali appunto di pelle di salame, buccia d’arancia o foglia di lattuga: cioè, come un patchwork i cui pezzetti abbiano ciascuno una geometria euclidea, sferica o iperbolica.
Tu mi prendi in giro per quell’esempio, ma non hai capito, o fingi di non aver capito, che io non intendevo affatto dire che quando il matematico mangia il salame pensa solo alla geometria della sua pelle, invece che al gusto dell’insaccato: cosa che sarebbe non solo supponente, come dici tu, ma anche cretina, come aggiungo io. Al contrario, avevo detto che oltre a gustare il salame, esattamente come tutti gli altri, il matematico vede anche altri suoi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Dialogo tra un cinico e un sognatore
  4. Chi è cinico o sognatore?
  5. È tutta questione di sentimenti
  6. Un semplice accento
  7. Bombe a orologeria
  8. Ma vaffa...!
  9. Un cinico non fa figli?
  10. Vivere, vivere, vivere
  11. Cronaca di un viaggio: tra tristezze e sollievi
  12. Cosa legge un sognatore
  13. La tavola pitagorica
  14. Ancora una rivoluzioncina, anzi due
  15. Tentativo di scomposizione di un sogno
  16. Giovinezza, giovinezza!
  17. Lasciami sognare ancora un po’
  18. Critica della ragion amorosa
  19. Modeste proposte per migliorare
  20. Si sta bene sulle nuvole: il realismo di un sognatore
  21. L’ultima cena
  22. Note su Fontanafredda, il gioiello della corona
  23. Note
  24. Bibliografia
  25. Copyright