La politica è una cosa seria
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La politica è una cosa seria

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La politica è una cosa seria

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"La politica è schifosa e fa male alla pelle" cantava Giorgio Gaber nel 1980. Quasi quarant'anni ci separano dall'invettiva diIo se fossi Dio, e nel frattempo cos'è cambiato? Poco, per certi versi, ma moltissimo per altri.Se è vero, come ci ricorda Andrea Scanzi, che "assistiamo da decenni a un inesorabile svilimento della cosa pubblica", il confronto tra ieri e oggi appare al contempo impietoso e illuminante, sospeso tra bruschi cambi di rotta e inquietanti continuità. Per misurare appieno distanze e affinità bastano i profili esemplari di undici politici del presente e del passato: Berlusconi, D'Alema, Renzi, Salvini, Rodotà, Bersani, Parri, Pertini, Andreotti, Berlinguer e Caponnetto. Vicende pubbliche e private in cui si affacciano altri nomi della nostra storia comune. Figure indimenticabili, accanto ad altre da dimenticare o colpevolmente dimenticate; vette di virtù politica o di bieco personalismo, esempi perfetti di dedizione alla comunità e di abilità mediatica; ritratti capaci di restituire, come tessere di un mosaico, il quadro complessivo del nostro Paese.Con la sua scrittura assieme lucida e allusiva, divertente e spietata, equilibrata e partigiana, l'autore ci guida in un percorso che unisce politica, cinema e letteratura, in cui la canzone d'autore diventa una vera e propria colonna sonora. E - all'interno di un dibattito in cuiil ruolo più comodo e redditizio è quello del megafono- prende coraggiosamente posizione.

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Informazioni

Come eravamo

Destino a scomparsa

(Ferruccio Parri)
«Non sono che il contabile dell’ombra di me stesso.»
Ivano Fossati, Lindbergh
In una delle sue ultime interviste, Mario Monicelli disegnò un ritratto impietoso dell’Italia e degli italiani. Era il marzo del 2010: «Gli italiani sono fatti così: vogliono che qualcuno pensi per loro e poi se va bene va bene, se va male l’impiccano a testa sotto. Questo è l’italiano».
Il giornalista gli fece notare che, nelle sue parole, non c’era speranza alcuna. E il Maestro, stizzito per Dna ma quella volta persino di più: «La speranza di cui parlate è una trappola, una brutta parola, non si deve usare. La speranza è una trappola inventata dai padroni. La speranza è quella di quelli che ti dicono che Dio... state buoni, state zitti, pregate che avrete il vostro riscatto, la vostra ricompensa nell’aldilà. [...] La speranza è una trappola, una cosa infame inventata da chi comanda». Le parole finali sono indimenticabili: «Io spero che finisca in una specie di... quello che in Italia non c’è mai stato: una bella botta, una rivoluzione che non c’è mai stata in Italia. C’è stata in Inghilterra, c’è stata in Francia, c’è stata in Russia, c’è stata in Germania, dappertutto, meno che in Italia. Quindi ci vuole qualche cosa che riscatti veramente questo popolo che è sempre stato sottoposto. Sono trecento anni che è schiavo di tutti e, quindi, se vuole riscattarsi... Il riscatto non è una cosa semplice: è doloroso, esige anche dei sacrifici, sennò vadano in malora, come già stanno andando da tre generazioni».
Di lì a poco, Mario Monicelli reputò di averne abbastanza. Vide una finestra nel suo piano d’ospedale e pensò che fosse quella l’uscita di scena migliore. O anche solo l’unica possibile. Del resto, Monicelli, i finali li ha scelti sempre lui. Nei film come nella vita. E al lieto fine è sempre stato orgogliosamente allergico.
Le parole di Mario Monicelli sono paurosamente simili a quelle pronunciate, più o meno trentacinque anni prima, da uno dei destini a scomparsa più belli che abbia mai avuto questo Paese. Il suo nome è Ferruccio Parri.
Parri è stato tante cose e tutte belle, ed è forse per questo che ne han sempre parlato pochino. Probabilmente aveva troppi pregi e dunque imbarazzava chi, al contrario, ne difettava. Cioè quasi tutti, a partire da coloro che la storia non la fanno ma la scrivono.
Laurea in Lettere, insegnante al liceo Parini di Milano, redattore del «Corriere della Sera»; eroe della Prima guerra mondiale, partigiano, Padre costituente, presidente del Consiglio, senatore a vita, Parri ha sempre vissuto come se fosse involontariamente costretto a lambire l’epica, sin da quando fu più volte ferito nel primo conflitto mondiale, per poi partecipare come ufficiale di stato maggiore alla preparazione dei piani di battaglia per la vittoriosa offensiva di Vittorio Veneto. È stato una sorta di eroe, pur non volendolo in alcun modo essere.
Rifiutò di prendere la tessera fascista e per questo fu picchiato; insieme a Carlo Rosselli, Sandro Pertini e Adriano Olivetti, organizzò la fuga in Francia di Filippo Turati e dello stesso Pertini; il fascismo lo condannò a dieci mesi di carcere prima e a cinque anni di confino poi. Quando l’avvocato lo difese, ricordando le tre medaglie, lui disse subito: «Se considero l’Italia attuale mi vergogno delle mie decorazioni».
A dispetto del gusto per le frasi tranchant, Parri era come pervaso da un’antropologica attitudine a non apparire. È una delle cose che mi ha sempre affascinato di lui: lo stridente contrasto tra l’enormità della sua vita e la timidezza nel darlo a vedere. Quando lo nominano capo del governo italiano, unica mediazione possibile tra le istanze di sinistra e quelle centriste, arriva a Roma da solo. Giunto a destinazione, nota una calca di giornalisti e forze dell’ordine. Timidamente, chiede perché mai ci sia tutta quella confusione. «Non ci disturbi!» gli risponde male un giornalista. «Stiamo aspettando il presidente del Consiglio!» Il presidente del Consiglio era lui.
Di Parri, con prosa rara, Carlo Levi ha scritto: «Mi pareva che egli fosse impastato della materia impalpabile del ricordo, costruito col pallido colore dei morti, con la spettrale sostanza dei morti, [...] dei torturati, con le lacrime e i freddi sudori dei feriti, dei rantolanti, degli angosciati, dei malati, degli orfani, nelle città e sulle montagne. Il suo corpo stesso pareva fatto di questi dolori, essi scorrevano nel suo sangue».
Quella materia lo appesantiva e al contempo lo elevava.
Messo a guida della Resistenza – sempre per quel suo essere mediatore senza neanche volerlo essere – e poi del Partito d’Azione, il suo nome di battaglia era «Maurizio», per via del nome della chiesa di San Maurizio sulla cima della collina omonima di Pinerolo, la sua città d’origine. Lì era nato nel 1890. Arrestato per caso (o perché gli inglesi lo diedero in pasto alle SS per indebolire la lotta partigiana), il 2 gennaio 1945 fu condotto in carcere a Verona. La sua scarcerazione fu il segnale della «buona fede» dei tedeschi, che di nascosto stavano trattando la resa; venne portato a Zurigo, ma chiese subito di tornare in Italia per partecipare alla lotta. Era fatto così.
Di fronte a piazzale Loreto, lui che aveva combattuto come pochi e sin dall’inizio, Parri parlò di una scena inaccettabile e di «macelleria messicana», un’immagine che tornerà in voga durante la mattanza della scuola Diaz al G8 di Genova.
Dopo la guerra, la stella di Parri brilla tantissimo ma fugacemente. Il suo governo, che pure pone le basi per la rinascita economica e per l’Assemblea Costituente (di cui ovviamente farà parte), dura pochi mesi. Anche il Partito d’Azione non avrà fortuna, come pure i successivi partiti che sosterrà: spesso per poco tempo, perché la sua coerenza non andava di moda nemmeno tra i colleghi. Soprattutto tra i colleghi.
Per esempio, i repubblicani da cui divorzierà nel 1953 per dar vita con Piero Calamandrei a Unità Popolare. Un’altra forza senza futuro, ma comunque decisiva per abbattere l’inaudita vergogna della «legge truffa».
Parri si oppose duramente al governo Tambroni, che sancì nel 1960 l’aberrante apertura della Democrazia Cristiana ai fascisti del Movimento Sociale, e venne accusato dalla destra di avere tradito i partigiani. Un falso storico che lo ferì molto.
Col passare degli anni Parri uscì sempre più dai radar: troppo onesto, troppo rigoroso. Troppo poco malleabile. E non aveva neppure il mito della competenza e del «mestiere della politica». Al contrario, riteneva che «gli uomini nuovi verranno. Bisogna non lasciarsi scoraggiare dal feticismo delle competenze. Gli uomini onesti assumano con coraggio i posti di responsabilità, e attraverso l’esperienza gli adatti non tarderanno a rivelarsi».
A fine 1967, Parri lanciò uno dei tanti appelli all’unità della sinistra: un miraggio già allora. Nel frattempo, se non altro, il presidente della Repubblica lo aveva fatto senatore a vita. Almeno quello.
Ferruccio Parri è morto a novantun anni l’8 dicembre 1981. Di lui Indro Montanelli ha detto: «Se ci fu un presidente del Consiglio italiano che meritò la qualifica di galantuomo, di politico onesto e probo, quello fu Ferruccio Parri». E Montanelli non ha mai regalato mezzo complimento a nessuno. «A Parri è sempre bastato avere la coscienza tranquilla. Per questo non volle mai rinunciare alle sue idee»: l’ha detto Enzo Biagi. «Triste, modesto, onesto, personalmente mite, cortesissimo, alieno da violenza, molto miope, paziente»: l’ha detto Giovanni Artieri.
Proprio durante i suoi anni da senatore a vita, verso la metà dei Settanta, il mediatore suo malgrado Parri anticipò suo malgrado Monicelli. Parri amava incontrare giovani deputati e intellettuali, per cercare di capire che cosa li muovesse. Erano quasi sempre politici in erba, di sinistra. A un certo punto ne accolse uno nel suo studio. La vista su Roma era bellissima, il giovane era molto felice e molto emozionato. Parri, con lineamenti d’altri tempi già quando aveva vent’anni, cercò di metterlo a suo agio. «Seguo con piacere i suoi lavori, lei mi piace, le sue battaglie sono meritorie.» Il giovane di sinistra era sempre più felice.
Poi Parri fece una pausa. Una di quelle pause che parlano. Parlano tanto. Abbassò la voce, quel tanto che basta perché sia chiaro che le parole che verranno non saranno parole qualsiasi. A quel punto, uno dei padri dimenticati della Patria disse: «Mi dia retta, lasci stare. Gli italiani non hanno speranza». Il giovane di sinistra cadde dalle nuvole. Cadde e si fece male. Perché Parri parlava così? Sperò d’aver frainteso, ma niente. Parri andò avanti. «Io lo so che lei è in buona fede, ma creda a me: io gli italiani li conosco. Li conosco bene. Non c’è niente da fare: non cambiano, e se lo fanno è solo in peggio. Lasci stare, è tempo perso: con gli italiani non c’è proprio speranza.» Esattamente come Monicelli trentacinque anni dopo.
Perché un uomo tutt’altro che nato disilluso e cinico come Parri, che aveva liberato il Paese e che gli aveva dato una delle Costituzioni più belle del mondo, parlava così? Perché anche lui credeva, per dirla di nuovo con Gaber, che gli italiani son proprio affezionati alla loro idiozia? Com’è che siamo riusciti a togliere la speranza anche a Parri?

Nessuno come lui

(Sandro Pertini)
«Dietro ogni articolo della Carta Costituzionale stanno centinaia di giovani morti nella Resistenza. Quindi la Repubblica è una conquista nostra e dobbiamo difenderla, costi quel che costi.»
Sandro Pertini
Chissà perché, quando pensiamo a lui, pensiamo per prima cosa a quando esultò al Bernabeu. Oppure a quando giocò a carte con Zoff, Causio e Bearzot. O ancora, almeno per me è così, a quando negli Ottanta lo prendeva bonariamente in giro il Trio di Marchesini, Lopez e Solenghi. Oppure a quando convocò al Quirinale Andrea Pazienza, perché adorava le sue strisce di Paz e Pert, di cui era bizzarro e guerreggiante protagonista. Evidentemente Sandro Pertini è stato così popolare che è proprio la sua dimensione pop ad affiorare per prima. Lasciando che, poi, emerga tutto il resto. Ed è un resto enorme.
La sua vita è stata un film, ma per qualche misterioso motivo nessuno ha pensato di farlo. Anzi, chi lo ha fatto, lo ha fatto male. Carlo Lizzani ha creato un personaggio ispirato a Pertini in Mussolini ultimo atto, ma al diretto interessato non piacque granché: «Durante quelle caldissime giornate mi fu rimproverata un’eccessiva intransigenza. Nel film, se c’è un personaggio “moscio” sono io!».
È incredibile, ma l’unico film su Pertini aveva come interprete un allora poco noto Maurizio Crozza. Era il 1993 e la pellicola, diretta da Franco Rossi, era Ci sarà un giorno (Il giovane Pertini). Racconta il quinquennio 1925-1930. È stato trasmesso dalla Rai una sola volta, nel 2010. E basta, perché poi la moglie di Pertini si è opposta.
La vita di Sandro Pertini è stata così ricca che si fatica a crederci. Ma è tutto vero. Racconto qui qualche momento della sua vita tra Prima e Seconda guerra mondiale, quando cioè Pertini, nato nel 1896 a San Giovanni di Stella in provincia di Savona, ha tra i venti e i cinquant’anni. In questa carrellata di imprese mitologiche, quindi, non c’è il Pertini politico. Quello più noto e, tranne casi sporadici, quello più amato.
No, la medaglia no. Nell’agosto del 1917, Pertini guida l’assalto al monte Jelenik, durante la battaglia della Bainsizza. Viene per questo ritenuto meritevole della medaglia d’argento al valor militare. Poi però non se ne fa nulla. Decenni dopo, quando è ormai al Quirinale, qualcuno ritrova il vecchio fascicolo e propone di decorarlo. Lui ammette che quell’azione bellica era stata una «cosa esaltante» per emozione e adrenalina, ma rifiuta la medaglia: «Ero e resto contrario alla guerra, quindi niente onorificenze».
«Curatemi, perdio!» Pertini partecipa alla rotta di Caporetto. Poi, il 4 novembre 1918, entra a Trento alla testa del suo plotone di mitraglieri. Viene colpito dal gas tossico fosgene. Lo salva un attendente, che se lo trascina letteralmente dietro. Pertini è agonizzante. All’ospedale da campo neanche vogliono curarlo, tanto ormai è spacciato. Lui, non si sa come, in qualche modo si ridesta e li minaccia con la pistola: «Curatemi, perdio!».
Il primo arresto. Il 22 maggio 1925, Pertini viene arrestato una prima volta dai fascisti per aver stampato a sue spese e distribuito un opuscolo clandestino dal titolo Sotto il...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La politicaè una cosa seria
  4. Premessa
  5. Come siamo
  6. Intermezzo con autocritica
  7. Come eravamo
  8. Conclusioni. Per un nuovo ottimismo della volontà
  9. Titoli di coda
  10. Copyright