Jean non levava gli occhi di dosso a Victor Lessage, in attesa di una spiegazione che non arrivava. Gli ex colleghi della gendarmeria di Orange gli avevano fatto una gentilezza, permettendogli di sedere di fronte a quell’uomo che lui conosceva da circa trent’anni e che ora si trovava in stato di fermo. Era stato lo stesso Victor a richiedere quella visita. Dopo tutti quegli anni il padre dei gemelli aveva ancora fiducia in lui, ma Jean non era sicuro di meritarla.
«Dimmi che non hai niente a che vedere con la scomparsa di Nadia Vernois.»
«Con che coraggio mi fai una domanda del genere?» rispose Victor avvilito.
Quel tono, Jean non lo riconosceva. Victor Lessage era un uomo in preda alla collera ormai da tre decenni. Un uomo in rivolta, capace di provocare e talvolta anche di accusare, ma un uomo avvilito no, mai. Jean ce l’aveva con se stesso per avergli fatto quella domanda; tuttavia gli indizi erano a suo carico e ignorarlo non gli sarebbe stato di alcun aiuto.
«Perché mi hai fatto chiamare?»
«Lo sai benissimo che non mi staranno a sentire. Sono il sospettato ideale. Sto lottando da mesi per evitare che l’omicidio di Solène cada in prescrizione ed ecco che un’altra bambina viene rapita poco prima della data fatidica, obbligando gli inquirenti a tenere aperto il fascicolo. Anche se i tuoi colleghi non sono mai stati delle aquile, non ci vuole un genio per capire chi sarà il primo a trarre vantaggio da questo rapimento. Al posto loro, io stesso mi sarei arrestato.»
Jean sorrise. Da quando si conoscevano Victor non aveva mai nascosto il suo disprezzo per le uniformi e non si poteva certo biasimarlo. I due figli erano scomparsi, la bambina per sempre e forse anche Raphaël, senza che nessuno fosse riuscito a fornire la benché minima spiegazione. Ma quello che non capiva era perché lui, Jean Wimez, incaricato dell’indagine all’epoca dei fatti, avesse sempre avuto diritto a un po’ più di simpatia.
«Hanno altri indizi a tuo carico» riprese Jean a malincuore. «Hanno trovato nel tuo salotto un fermaglio per capelli appartenente alla piccola.»
«Ogni tanto Nadia veniva a trovarmi.»
«Come sarebbe a dire, veniva a trovarti? Da quando? Lo hai detto ai miei colleghi?»
«Perché mi prendano anche per un vecchio pervertito? No, grazie.»
«Dimmelo! Perché Nadia ti faceva visita?!» insistette Jean a disagio.
«Rilassati, Jeannot, non è come pensi. Non c’era niente di malsano. Certo, uno psicologo da bar ti direbbe che è un caso di transfert, ma ti giuro che non è così. Nadia sa cosa è capitato alla mia famiglia e conosce bene i fatti perché aveva deciso di fare una tesina su Solène. Un compito da presentare alla fine dell’anno. Uno di quei lavori che poi devi esporre davanti alla classe… La piccola si era messa in testa che tutti i bambini della sua età dovevano sapere quanto ci è successo. Un lavoro sulla memoria, in un certo senso. Era una ragazzina di cuore, sai, e matura anche!»
«Perché ne parli al passato?» lo interruppe Jean con un tono più brusco di quanto avrebbe voluto.
«Hai ragione» ammise Victor. «Mi sa che lo sto proprio facendo questo transfert del cazzo. Ascolta, Jean, non so cosa sia successo a quella ragazzina ma ti giuro che sarò il primo a cercarla, se mi lasciano uscire di qui. Non credere che mi sentirei meno solo se le accadesse qualcosa. Il dolore non si condivide. Alla fine l’ho capito.»
Jean scrutava l’uomo che in segreto aveva sempre ammirato. Victor si era battuto per tutti quegli anni come un forsennato. Affinché fosse fatta giustizia, affinché nessuno dimenticasse lui e i suoi figli. Persino il suicidio della moglie non era riuscito a placare la sua sete di verità. Victor Lessage aveva impiegato ogni minuto di cui poteva disporre a cercare la faglia che gli avrebbe permesso di scatenare il sisma. Leggeva tutte le riviste scientifiche a caccia di nuove tecnologie da applicare al suo caso. È così che, mentre la gendarmeria tentava ancora di orientarsi in quel nuovo campo, Victor aveva avuto l’idea del test del DNA. Purtroppo per lui, aveva riesumato la figlioletta per niente. I test erano stati inconcludenti e, ancora una volta, Victor aveva dovuto mordere il freno. Aveva creato un’associazione in memoria di Solène, raccogliendo parecchie adesioni, ma poi, col passare degli anni, i suoi membri si erano allontanati. La sua azione dimostrativa ai danni del municipio, trasmessa in televisione quasi trent’anni prima, gli aveva procurato il sostegno di un gran numero di sconosciuti sparsi in tutta la Francia. Così, quando Facebook fece la sua comparsa, lui, che aveva capito già da tempo l’impatto che potevano avere i media di nuova generazione, comprò subito un computer per creare un account e imparò a usare i nuovi strumenti messi a sua disposizione, i social network. Il suo profilo contava più di cinquemila «amici». Non ne conosceva nessuno di persona, ma questo non gli impediva di sollecitarli non appena voleva ricordare alle autorità che il suo caso non era ancora stato archiviato. Fino a quel momento, i suoi sforzi non erano stati ricompensati e proprio per questo Jean nutriva grande ammirazione per lui. Quell’uomo, vedovo e ormai senza figli, continuava a non mollare.
«I colleghi mi hanno detto che non hai un alibi per l’ora in cui è scomparsa» riprese Jean dopo qualche istante.
«Quando smetterai di chiamarli “colleghi”?» ribatté Victor. «Hai lasciato il lavoro da quasi dieci anni.»
«Sai come si dice: gendarme un giorno…»
«Mai sentito!»
«Magari me lo sono inventato» ammise Jean di buon grado. «Ma torniamo al tuo alibi, d’accordo?»
«Cosa vuoi che ti dica più di quello che ho già detto a loro? Ero a casa. Da solo. Come ogni giorno della settimana da quando Luce ha deciso di stringersi un cappio al collo.»
«Nessuno ti ha visto quel giorno?»
«Quale parola non capisci nell’espressione “da solo”?»
«Sii serio, per favore. Hai fatto una telefonata? Sei uscito a prendere un video?»
«In pieno pomeriggio?»
«Fa’ uno sforzo, Victor! Se non lo hai capito, sto cercando di aiutarti.»
Victor sembrò riflettere con più serietà alla domanda ma poi scosse la testa, piano, prima a sinistra poi a destra.
«Solo e sfaccendato. Il colpevole perfetto.»
«Ho l’impressione che non afferri la gravità della situazione» s’innervosì Jean.
«Al contrario» rispose Victor glaciale. «Se c’è qualcuno che se ne rende conto, quello sono io. Mentre noi due ce ne stiamo qui e i tuoi colleghi, come li chiami tu, accumulano pseudoprove alla cazzo di cane, nessuno cerca la piccola Nadia.»
«Stronzate! Sono tutti sul piede di guerra. La tua casa e il tuo giardino sono stati perquisiti, e proprio ora stanno perlustrando le tue vigne.»
«Allora, Jean, che Dio aiuti quella povera bambina, perché nessun altro lo farà!»
Da due ore Jean tentava di ottenere informazioni da Victor Lessage, senza risultato. L’uomo che gli sedeva di fronte sembrava ormai rassegnato. «Il Maledetto di Piolenc», come lo avevano soprannominato certi compaesani, non reagiva più alle provocazioni dell’ex gendarme. Ma Jean Wimez non si aspettava una confessione. Non aveva creduto nemmeno per un attimo alla sua colpevolezza. No, quello che aspettava era una reazione, un appiglio, uno qualunque, che gli permettesse di togliere Victor dai guai.
Lui stesso avrebbe preferito trovarsi a chilometri da lì. Il caso dei gemelli di Piolenc era stato il «suo» caso, o meglio il suo disastro, la sua dannazione. Appena promosso, a trentacinque anni, si era ritrovato a capo di un’unità di crisi presto sopraffatta dagli eventi. Si dice che le prime quarantotto ore dalla scomparsa siano cruciali.
Jean aveva capito troppo tardi l’esattezza di quel dato statistico.
La mattina dell’11 novembre 1989 gli si era impressa a fuoco nella memoria. Come tanti altri, Jean non aveva dormito molto, ma per una volta non era a causa dell’indagine. Le immagini della caduta del muro di Berlino, trasmesse in diretta da ventiquattro ore, lo avevano ipnotizzato. Rostropovic e il suo violoncello lo avevano commosso fino alle lacrime. Eppure, non era niente in confronto a ciò che aveva provato soltanto poche ore dopo.
Solène e il vestito della prima comunione. La corona di fiori bianchi sui capelli. Quel corpicino steso delicatamente sull’erba bagnata, con una mano posata sull’altra all’altezza del cuore. Anche lui condivideva l’opinione del giardiniere che l’aveva trovata. Solène somigliava a un angelo.
L’autopsia aveva riscontrato che la bambina non era stata maltrattata né aveva subìto sevizie sessuali. Una pallida consolazione alla quale si era aggrappata l’intera cittadina. Era morta per asfissia, e poiché nessuna traccia di tessuti era stata rinvenuta nella trachea, la tesi accettata era che l’assassino l’avesse soffocata ostruendo le vie aeree con le mani. Il suo viso era così piccolo. Non occorreva essere robusti per impedirle di respirare.
L’abito che indossava non faceva parte del suo guardaroba, ma la taglia era perfetta, e così ne avevano dedotto che l’assassino lo avesse comprato appositamente per lei: era il primo indizio a disposizione da due mesi. Gli investigatori cercarono in ogni negozio di abbigliamento per bambini della regione, come anche nelle sartorie, ma senza ottenere niente.
E dopo settimane di ricerche infruttuose dovettero arrendersi all’evidenza: il ritrovamento del corpo di Solène non avrebbe consentito alcun progresso nelle indagini. La sua morte rimaneva un mistero e nessuno più si aspettava di ritrovare vivo il fratello. Soltanto Jean Wimez non aveva perso le speranze. E Victor Lessage, ovviamente. Da quella fiducia condivisa era nata una specie di amicizia, sicuramente un reciproco rispetto.
«Siete andati al cimitero?»
La domanda di Victor lo colse in contropiede. Da quando era entrato in quella stanza, era stato lui, Jean, a condurre l’interrogatorio.
«Il cimitero di Saint-Michel?»
«Certo. Quale sennò?»
«Victor, al momento non c’è niente che dimostri un nesso tra il rapimento di Nadia e quello di Solène.»
«E di Raphaël.»
«Scusa?»
«Ho detto “e di Raphaël”» ripeté Victor, teso. «Tutti sembrano dimenticare che il mio ragazzo è ancora da qualche parte là fuori.»
Jean rimase in silenzio. Cosa avrebbe potuto dire, se non che il ragazzino in questione, a patto che fosse ancora vivo, doveva avere oggi quarant’anni e senza dubbio non aveva...