L'ultima volontà (Nero Rizzoli)
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L'ultima volontà (Nero Rizzoli)

  1. 416 pagine
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L'ultima volontà (Nero Rizzoli)

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NERO RIZZOLI è LA BUSSOLA DEL NOIR FIRMATA RIZZOLI. Un ex brigatista rosso ammette in punto di morte di non aver compiuto la strage per cui ha scontato decenni di galera. Non è stato lui ad aver massacrato, nel 1986, tre carabinieri nella campagna emiliana. Una confessione al contrario che significa solo una cosa: i veri assassini sono ancora in libertà. E sono potenti. Hanno depistato, intorbidito le acque, creato un labirinto di specchi in cui la verità sembra irraggiungibile.
Ma l'ex colonnello dell'Arma Annibale Canessa non si fermerà di fronte a nulla pur di fare giustizia, ed è per questo che riunisce la sua squadra: il fido maresciallo Ivan Repetto, Piercarlo Rossi detto il Vampa, miliardario e aspirante uomo d'azione, l'atipico hacker Matteo Bernasconi. Con loro affronta un'indagine che lo porterà a esplorare i recessi più oscuri della storia italiana, un caso che affonda le radici nelle ombre della Resistenza e della Liberazione, e le allunga fino ad oggi, nei palazzi romani della politica. Una pista di sangue lunga settant'anni, costellata di morti innocenti e di segreti inconfessabili. Mentre il colpevole continua a tessere le sue trame, l'ex colonnello si ritroverà faccia a faccia con l'anima nera di un Paese in pace, ma mai pacificato.
Con la terza avventura di Annibale "Carrarmato" Canessa, Roberto Perrone torna ad affondare le mani nelle pieghe più oscure della storia d'Italia. Senza fare sconti a nessuno.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2019
ISBN
9788858696668
1986/1

Un uomo nella notte

«È là.»
Il maresciallo Domenico Mimmo Savasta fermò la Uno bianca dietro uno dei capannoni gemelli. Per fortuna il cielo era coperto da una coltre di spesse nubi: ci fosse stata la luna la sua auto nuova avrebbe brillato fino a Bologna. Perché si era fatto convincere dal concessionario a prenderla di quel colore? Oltre i fabbricati la strada diventava uno sterrato. La pioggia che minacciava di cadere l’avrebbe trasformato in acquitrino. Erano nella zona industriale della frazione di Mancasale, a nord di Reggio Emilia.
Aveva appena terminato di formulare il pensiero sulle nubi che si scatenò una tempesta. Cominciò a diluviare, un’infame notte di tregenda di fine aprile. Tutta la pioggia che non era venuta a marzo voleva riprendersi il suo spazio. Strinse le mani sul volante. Savasta amava le auto e, quando c’era lui a bordo della macchina di servizio, non lo mollava mai. Di norma, il superiore in grado non guidava.
Quella sera, tra l’altro, si erano mossi con la Uno e lui ne era gelosissimo. Malgrado l’acqua che scrosciava sui vetri Savasta riusciva a vedere benissimo la cascina, distante un centinaio di metri. Era abbandonata.
Il maresciallo aveva fatto delle ricerche. Quando avevano costruito i due capannoni, destinati a ospitare le macchine agricole di una ditta di Reggio Emilia, la Soprintendenza alle belle arti aveva bloccato il progetto che ne prevedeva un terzo al posto della cascina, destinata alla demolizione. Un ricercatore dell’università di Bologna aveva scoperto che si trattava di un edificio storico: uno degli esempi più antichi di cascina comunitaria, capace di ospitare più famiglie.
Bene, aveva detto il padrone della ditta di macchine agricole: allora ve la regalo, visto che non ci posso fare nulla. E a questo punto gli enti preposti si erano chiesti cosa farne. Di soldi per restaurarla non ce n’erano. La burocrazia aveva fatto il resto. La responsabilità dei lavori era rimbalzata da un ufficio all’altro. Quindi si era arrestata su un binario morto. E lì era rimasta, mentre la cascina crollava su se stessa, come da progetto iniziale del tizio delle macchine agricole. Il suo destino si stava compiendo. Solo più lentamente. All’inizio ci andavano i ragazzini a fumare, dalle prime sigarette ai primi spinelli, poi era diventata un rifugio per gli “scappati di casa”, in tutti i sensi. Infine, vista la fama che si era conquistata, nessuno si era più azzardato a metterci piede, nemmeno la polizia. Se i tossici si ammazzavano lì, meglio. Lontano dagli occhi degli onesti cittadini.
Poco frequentata, quindi adatta a incontri riservati.
Come quello che il maresciallo Savasta si aspettava di interrompere quella notte.
La indicò ai due colleghi.
Era lì che sarebbe avvenuto lo scambio. Era lì che Savasta avrebbe trovato le prove necessarie per inchiodare «quel figlio di puttana». Quando si riferiva all’uomo che braccava ormai da mesi non usava mai nome e cognome: «Quel figlio di puttana», e basta. Tanto in caserma tutti sapevano a chi si riferiva. In particolare i due colleghi che stavano con lui in quel momento: il brigadiere Salvo Scaloni e il carabiniere scelto Paolo Mallesi. Scaloni era di Lucera, in provincia di Foggia. Malgrado l’ormai decennale permanenza in Emilia conservava un marcato accento pugliese, che scatenava l’ilarità e le imitazioni dei commilitoni. Qualcuno lo chiamava Oronzo, come Oronzo Canà, l’immaginario allenatore nel pallone interpretato da Lino Banfi.
Ma le prese in giro erano rigorosamente segrete: Scaloni era grande e grosso, quasi due metri per cento chili, e già lo spostamento d’aria che produceva al suo passaggio era un oggetto contundente. Era sposato con due figlie, gemelle di dieci anni. Sulla sua scrivania non c’era spazio neanche per una matita: era tutta occupata dalle foto delle bimbe, da quando erano neonate in poi. Savasta, ogni volta che passava di lì, si chiedeva dove avrebbe infilato le altre, visto che le piccole erano arrivate a un’età in cui i ragazzini cambiano aspetto di continuo.
Mallesi invece era di Sassuolo, e quindi giocava in casa. Aveva scelto di svolgere nell’Arma il servizio di leva, gli era piaciuto e si era raffermato. Lo avevano trasferito da poco, dopo un anno e mezzo a Orgosolo. All’inizio gli altri esitavano a chiedergli della Sardegna per paura di scatenare brutti ricordi. «Ti mando in Barbagia» era la minaccia preferita dei superiori ai subalterni: quella zona era per i membri delle forze dell’ordine quello che per i bambini era la casa dell’uomo nero. Un posto simile all’inferno, dove le doppiette spuntavano ovunque dalla macchia mediterranea, dove i sequestratori avevano mille posti per nascondersi, dove l’omertà regnava sovrana. Peggio della Sicilia, sosteneva qualcuno. Ma presto avevano capito, con evidente sconcerto, che Mallesi era probabilmente l’unico carabiniere in servizio che della Barbagia parlasse benissimo. Quasi con nostalgia.
«Tutte storie, quelle che si sentono. Se non mi avessero trasferito proprio a casa, avrei chiesto di restare laggiù. Aria buona, si mangia benissimo, e le ragazze, non ne parliamo» confessò un giorno ai colleghi sbigottiti. Mallesi era quel che nel linguaggio comune viene definito un bel ragazzo: le donne gli cadevano ai piedi come niente, bastava un sorriso. Si raccontava che in Barbagia si fosse divertito soprattutto per quello, anche se restava un mistero come fosse riuscito a sopravvivere con tutti quegli uomini dal sangue caldo, gelosissimi delle loro compagne. E poi c’era il cibo: Mallesi era un goloso, e non faceva altro che decantare le meraviglie della cucina, della pasta con salsiccia e porcini, del porceddu, della pecora lessata con patate e cipolle, dei formaggi: il pecorino di qua, il pecorino di là.
«Meglio del parmigiano» era arrivato a sostenere prendendosi una scarica di insulti: in quel posto pieno di reggiani, di nascita o d’adozione, era un bestemmia.
Insomma, per lui la Barbagia era stata una specie di Disneyland. Eppure, tornato a casa, aveva messo la testa a posto e si era fidanzato con una ragazza di Correggio. Era perfino fedele, assicuravano i bene informati, prossimo al matrimonio.
Savasta li stimava. Anzi, era proprio affezionato a quei due uomini, così diversi tra loro.
Per questo quella sera era assalito da continue folate di senso di colpa. Erano tutti e tre in borghese. Tutti e tre fuori dalla loro zona, ufficialmente fuori servizio e, soprattutto, senza autorizzazione. Il maresciallo non aveva avvisato dell’operazione né gli altri militi della stazione, né i colleghi di Reggio Emilia, né il magistrato competente. O un magistrato qualsiasi. Nessuno.
Savasta era certo che, ogni volta che si stavano avvicinando troppo, qualcuno spifferasse le loro mosse al figlio di puttana. Non sapeva se stesse in caserma, se stesse in procura, se magari fosse un “cugino” della polizia o della guardia di finanza. Non sapeva nulla. Ma il traditore c’era, su questo non aveva dubbi. Forse lo faceva per arrotondare il magro stipendio di servitore dello Stato, forse era qualcosa di peggio, ed era coinvolto nei traffici dell’uomo che stava braccando.
Savasta non conosceva il nome dell’infame, il suo ruolo, la posizione che occupava. Ma era là, acquattato nell’ombra come un serpente, a strisciare.
Per questo Mimmo Savasta non voleva correre rischi, e a parte Scaloni e Mallesi non aveva informato nessuno. Anche perché, se qualcosa fosse andato storto, non avrebbero avuto coperture. Certo, il maresciallo era deciso ad assumersi ogni responsabilità e a difendere i colleghi, sostenendo in caso di necessità che li aveva costretti a seguirlo. Però qualcosa poteva toccare pure a loro, che tenevano famiglia, già formata o in costruzione, e avevano molto da perdere. Da questo i sensi di colpa.
Lui era single, rispondeva solo a se stesso. Sì, c’erano sua sorella e suo padre, ma economicamente non dipendevano da lui, per fortuna.
«Lei ha sposato il lavoro, maresciallo. Dovrebbe rallentare» gli consigliava il capitano Caselli, il suo diretto superiore.
E in effetti Savasta prendeva molto sul serio il suo mestiere. Era una missione. Il suo senso della giustizia lo portava spesso a oltrepassare i limiti previsti dalla legge, come stava facendo in quel momento, ma le sue fughe in avanti venivano tollerate grazie all’alta percentuale dei suoi successi. Savasta non mollava mai la presa. La sua caratteristica principale era la capacità di battezzare al primo colpo gli esseri umani per quello che erano: individuava il marcio anche sotto le superfici più brillanti e tirate a lucido.
Era in grado di andare oltre le apparenze, di stanare quanto di peggio si annidava sotto un’Emilia a prima vista idilliaca. Individuava il male nascosto in quella terra dove tutto funzionava, dove i servizi erano più efficienti, le scuole le migliori d’Italia e spesso del mondo.
Tutto vero, eh, ma era proprio la prosperità che attirava i bastardi come quello che stava inseguendo. E aveva il dovere di dare la caccia a gente del genere.
Anche in quell’occasione aveva dovuto abbattere una facciata di apparente rispettabilità. Aveva individuato il suo bersaglio e gli era stato addosso per mesi. Fino ad arrivare lì, in mezzo a una tempesta primaverile, ad attendere che comparissero i protagonisti dello show. Per mandargli a monte lo spettacolo.
Da dove si trovavano, i tre carabinieri potevano vedere le luci che si inseguivano veloci sulla A1, distante poco più di duecento metri. I fari delle auto creavano uno strano effetto, in mezzo a tutta quella pioggia: sembravano spiritelli che saltellavano qua e là.
Savasta guardò l’orologio. Le 23:50. Il suo informatore gli aveva confidato che lo scambio sarebbe avvenuto a mezzanotte. Un classico: droga per soldi.
Sfiorò la Beretta 92S nella fondina ascellare. Sperava di non dover sparare, ma era pronto. Si allenava con regolarità, anche al di fuori degli obblighi connessi al servizio.
I due che si era portato dietro erano i migliori del suo gruppo. Ed erano fedelissimi. Si sarebbero comportati bene, anche nel caso di un conflitto a fuoco. Su questo non aveva timori.
L’uomo che gli aveva passato la dritta veniva chiamato Spina, ed era uno storico tossico-spacciatore di Reggio. Savasta l’aveva seguito per un po’ e aveva capito che, per quanto il suo ruolo fosse marginale, sapeva sicuramente cosa tramava il figlio di puttana. Quindi aveva deciso di metterlo alle strette: gli aveva fatto capire di chi doveva avere più paura, e in un amen Spina si era messo a cantare.
Ogni primo giovedì del mese, nella cascina arrivava la roba dalla Francia. L’edificio non era distante dal casello di Reggio Emilia. La portavano con un furgoncino scuro: «Pulito, con l’insegna di una ditta di traslochi di Milano» secondo le parole dell’informatore.
«E lui?» aveva chiesto Savasta.
«Lui c’è sempre.»
Bastava.
Perso in tutti questi pensieri, il maresciallo non si era accorto del tempo che passava.
Guardò di nuovo l’orologio. Le 00:16.
Qualcosa non andava. Quelli «spaccavano il secondo», aveva detto Spina. E invece non era arrivato nessuno. Da quel punto controllavano le due vie da cui un mezzo poteva arrivare alla cascina. In giro non c’era un’anima. Che avessero annullato lo scambio? O avessero addirittura deciso di cambiare posto?
Questo poteva significare solo una cosa: il traditore era lì, in quell’auto sferzata dalla pioggia. Ma non era possibile. Non poteva crederci. Scacciò l’idea con rabbia e si voltò verso i colleghi.
«C’è qualcosa che non va. Voi restate qui, io vado a vedere. Armi pronte.»
Scaloni, accanto a lui, estrasse dalla tasca del giaccone la Beretta, mentre Mallesi mise mano al mitra PM12 calibro 9 mm parabellum.
«Maresciallo, è sicuro di voler andare da solo?» chiese.
«Sì, voi state all’erta.»
Furono le ultime parole del maresciallo Domenico Mimmo Savasta.
Chiuse il K-way, strinse il cappuccio sulla massa di capelli ricci e scese dall’auto. Teneva il braccio destro lungo il corpo e l’arma ben salda nella mano. Incurante del fango che gli impiastricciava le Clarks e dell’acqua che gli sferzava il viso avanzò rapido. Guardò a destra e a sinistra. Non vide luci né movimenti.
Ci mise poco meno di un minuto a coprire i cento metri che lo separavano da...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’ultima volontà
  4. Laggiù
  5. 1986/1. Un uomo nella notte
  6. Adesso/1
  7. 1986/2. Un uomo innamorato
  8. Adesso/2
  9. 1986/3. Un uomo senza nome
  10. Adesso/3
  11. 1986/4. Un uomo di merda
  12. Adesso/4
  13. 1986/5. Un uomo tormentato
  14. Adesso/5
  15. Laggiù. Nel tempo e nello spazio
  16. Adesso/6
  17. Un paese d’ottobre
  18. Ringraziamenti
  19. Copyright