Il richiamo della foresta. Nuova traduzione
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Il richiamo della foresta. Nuova traduzione

  1. 140 pagine
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Il richiamo della foresta. Nuova traduzione

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Tra i più grandi romanzi d'avventura di tutti i tempi, Il richiamo della foresta racconta la lotta viva in ciascuno di noi, quella tra civiltà e istinto, e lo fa con un ritmo cinematografico serrato e splendido attraverso il "calvario di un cane" che, strappato al padrone e alla California per essere condotto tra le gelide nevi del Klondike, apprende l'arte feroce della sopravvivenza. Buck, che non aveva mai visto la neve, impara a conoscere la frusta, il gelo, il sangue e l'odio. Ma sperimenta anche l'amore per l'uomo buono che gli salva la vita, e al tempo stesso la voce irresistibile che lo attira nella foresta, l'impulso primordiale del ritorno alla vita selvaggia.
Un romanzo indimenticabile, in cui Jack London ha saputo raccontare la potenza sublime della natura come pochi altri prima di lui - e quasi nessuno dopo - e che oggi viene riproposto in una nuova traduzione.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2019
ISBN
9788858697191
Argomento
Literature
Categoria
Classics

INTRODUZIONE

«Il richiamo alla foresta», inno alla libertà

Non ricordo chi mi dette quel libro. Forse mio padre, forse mia madre. Ma ricordo che aveva la copertina rossa e che stava, insieme a molti altri libri dalla copertina rossa, in un mobile con gli sportelli di vetro. I libri, a quel tempo, erano i miei balocchi. E il mobile con gli sportelli di vetro era il mio paradiso proibito perché la mamma non mi permetteva di aprirlo. «Sono libri del babbo, sono libri da grandi, non da bambini» diceva. La mamma era convinta che più a lungo un bambino resta bambino, meglio è. Così selezionava con molto rigore ciò che leggevo, mi consentiva soltanto quel che giudicava innocuo per l’innocenza di una dodicenne: De Amicis, Salgari, Verne. E, a suo parere, il mobile con gli sportelli di vetro conteneva pericoli, insidie: Guerra e pace, Delitto e castigo, Le memorie di Casanova. Quest’ultime addirittura illustrate con disegni inquietanti. Lo avrei saputo dopo, da grande.
Infatti, nella prima fila, quei titoli non si scorgevan nemmeno. Nella prima fila c’erano esclusivamente i volumi con la copertina rossa e su quelli, non su gli altri, sognavo. Erano belli perché erano misteriosi. E perché, quasi sempre, il nome dell’autore era un nome che si pronunciava come un colpo di tosse e poi come una linguata: Jack London.
Proprio di fronte al paradiso proibito stava il mio divano-letto, e quel giorno ero malata. D’un tratto qualcuno aprì lo sportello, disse leggi-questo-qui, e un libro con la copertina rossa cadde tra le mie mani. Lo afferrai con l’avidità con cui si afferra un regalo atteso troppo a lungo. Era un libro di Jack London, Il richiamo della foresta.
Lo sfogliai con la delicatezza che si usa quando si tocca un velo. La carta era dura, pesante, quasi un cartoncino. La seconda pagina informava che il volume era edito dalla Romantica Editoriale Sonzogno, allo scopo di divulgare in Italia e a mitissimo prezzo i romanzi di grande successo: costo del presente, lire quattro e cinquanta. Bevvi piano piano le prime righe ed esse mi offrirono mille promesse: «Buck non leggeva i giornali. Così non poteva sapere i guai che si preparavano non solo per lui ma per tutti i cani di grandi dimensioni, forte muscolatura, pelo caldo e lungo, fra lo stretto di Puget e San Diego. Perché gli uomini, scavando nelle buie profondità dell’Artico, avevan trovato un biondo metallo e le compagnie di navigazione o trasporti avevan diffuso la notizia facendoli accorrere a migliaia nelle regioni del Nord. Questi uomini avevano bisogno di cani. E i cani che cercavano dovevano essere forti, di robusta muscolatura per sopportar le fatiche, con folte pellicce per proteggersi dal freddo».
Mi innamorai subito di Buck. E il colpo di fulmine fu tanto struggente che mi staccai da Buck solo all’alba, al momento in cui egli mi abbandonò per correre dietro ai lupi e divenire lupo lui stesso. Dalla camera accanto, la mamma brontolava: «Spengi la luce! Vuoi spenger la luce e dormire?». Ma io non volevo, non potevo spenger la luce e dormire. Sarebbe stato come togliermi un pezzo di pane dalla bocca, buttar via un sortilegio che mi avviluppava per trasformarmi. Quando ebbi finito il libro, infatti, non ero più una bambina che crede a De Amicis e a Salgari e a Verne in un mondo di bugie affascinanti e pietose. Ero una bambina pronta a trattar con gli adulti in un mondo di dure realtà. Una bambina cui Buck aveva insegnato che la vita è una guerra ripetuta ogni giorno, spietata, crudele, una lotta da cui non puoi distrarti un minuto, neanche mentre dormi, neanche mentre mangi, altrimenti ti rubano il cibo e la libertà. Dio, era così facile perdere la libertà. Bastava un mascalzone come Manuel: l’aiutogiardiniere che a tradimento ti porta nel frutteto poi ti mette una corda al collo e ti consegna, in cambio di pochi soldi, allo straniero. Lo straniero ti chiude in una gabbia, ti carica su un treno dove non c’è nemmeno da bere e infine ti consegna al domatore Druther che ti massacra di botte perché tu gli obbedisca. Più ti difendi, più ti arrabbi e ringhi ferito nella tua dignità e nel tuo corpo, più lui si accanisce: deciso a metterti in testa che un-uomo-col-bastone-fa-legge, è-un-padrone-che-dev’essere-obbedito-anche-se-non-necessariamente-amato. Guai a perdere la libertà per buonafede o distrazione. Perché la sua unica alternativa è la schiavitù, l’ingiustizia, la vergogna, le cinghie di cuoio che ti legano alla slitta dei cercatori d’oro: affinché tu la tiri col suo carico atroce sul ghiaccio, straziato dalla frusta e gli insulti.
Non sono certa di ringraziare Buck per avermi insegnato certe verità così presto: mia madre aveva ragione a dire più-a-lungo-un-bambino-resta-bambino-meglio-è. Nella vita esiste una sola verginità, quella chiamata infanzia, e perder l’infanzia a dodici anni fa male. A dodici anni la mia sorellina Elisabetta vide una corrida. Ce la portai io, scioccamente. E mentre il toro veniva trascinato via dall’arena, in un eruttare di sangue, lei mi rimproverò singhiozzando «Non dovevi mostrarmi così presto la violenza, la morte. Avevo tutto il tempo per scoprirle più tardi, da me». Buck fu la mia corrida. Da essa ne uscii, come Elisabetta, precoce e infelice. Ma l’infelicità ha il merito di far ragionare: molte cose che fino a quel giorno non avevo capito io le capii, di colpo, identificandomi in Buck. Perché vedi: c’era il fascismo, allora, in Italia. E sebbene fossi nata sotto il fascismo, non ne afferravo il significato. Ero talmente abituata alla sua realtà, ne ero talmente condizionata: non ne conoscevo l’alternativa. Il fatto che le Camicie nere picchiassero, ad esempio, mi sembrava una disgrazia normale come la grandine e le malattie. Si può forse impedire la grandine, si posson forse impedire le malattie? Buck mi spiegò anzitutto che il fascismo non era normalità. Il fascismo era Manuel, era il ricettatore, era l’uomo col bastone, era Druther che gli torce la mascella e lo abbatte ed aspetta che riprenda i sensi per dirgli: «OK, Buck, ragazzo mio. Abbiamo avuto una piccola conversazione e la miglior cosa da fare adesso è non pensarci più. Tu hai capito qual è il tuo posto e io so qual è il mio. Se sarai un buon cane, tutto andrà benone. Se sarai un cane cattivo, te ne darò tante quante potrai sopportarne». Poi mi spiegò che vi sono modi diversi per reagire a Druther: il suo e cioè quello dell’intelligenza che ha la forza d’attendere il momento giusto, quello dei cani che dopo esser stati picchiati si mettono a scodinzolare e a leccare la mano dell’uomo, quello dei pochi (Buck ne vede uno solo) che non accettano di ubbidire e perciò vengono uccisi. Infine mi spiegò che la prepotenza di chi ha il bastone non è mai fine a se stessa, capriccio: il suo scopo è ridurti in schiavitù per sfruttarti, per farti tirare la slitta con l’oro.
Certo, come ogni innamoramento, anche il mio per Buck fu colmo di scontentezze. Non mi piaceva ad esempio che, malgrado la disperata difesa iniziale, egli si fosse lasciato metter le cinghie. E nemmeno che, pur sentendosi profondamente offeso, egli giudicasse saggio non ribellarsi. Non mi piaceva che fosse diventato abilissimo nell’evitare le proibizioni per salvarsi la pelle, che rubasse nei momenti in cui era lontano dalla frusta o in cui la frusta si abbatteva sugli altri. E mi addolorava che il suo bel cervello si corrompesse in astuzia, prudenza, che per prudenza lasciasse sbranare la sua amica Curly da una muta ringhiante verso la quale era andata con cordialità. Perché non era corso in suo aiuto mentre lei giaceva sulla neve insanguinata? Perché non aveva impedito che la divorassero e, servendosi dell’insegnamento, non ne provava rimorso? «Quella scena tornò più volte a turbare i sogni di Buck. Così andavano dunque le cose, e non era un gioco facile. Se cadevi a terra, eri spacciato. Avrebbe cercato di non cadere.» Non pensavano lo stesso coloro che subivano il fascismo e dicevano a mio padre «di-che-ti-impicci-lascia-perdere-hai-una-famiglia»? Ma un giorno mi trovai sotto un bombardamento e vidi un vecchio che conoscevo cadere, ferito, e anziché fermarmi per aiutarlo continuai la mia fuga. E compresi Buck. Un altro giorno mi accorsi che la milizia ferroviaria stava arrestando una donna che aveva tentato di agguantare un po’ di cibo da un vagone sventrato e ne approfittai per rubare un intero mastello di marmellata dallo stesso vagone. Marmellata di albicocche, ricordo. E compresi Buck. Un altro giorno ancora fui fermata a un posto di blocco dai tedeschi, mentre accompagnavo verso le linee un americano, e per passarla liscia sorrisi ai tedeschi: gli scodinzolai come un cane. E di nuovo compresi Buck, le sue furbizie, il suo istinto di sopravvivenza, il suo egoismo che non era egoismo ma strategia in vista di una libertà da riconquistare. Perché per vincere il male che si combatte solo col male bisogna prima sopravvivere, non perdersi in piccole inutili audacie.
Sto dicendo che Buck fu per me una lezione di guerra, di guerriglia, di vita. E come tale guidò la mia adolescenza, la verde stagione che m’avrebbe portato ad essere ciò che spero o cerco d’essere: una donna disubbidiente, insofferente d’ogni imposizione. Altri si formarono su testi più sacri. Io mi formai sul calvario di un cane. Altri ebbero eroi più importanti. Il mio eroe fu un cane. Ma la verità più atroce che egli aveva da insegnarmi la capii molti anni dopo, da adulta: quando mi divenne evidente che, alla libertà di un individuo, perfino l’amore rappresenta una minaccia. Nel penultimo capitolo, Buck scopre l’amore. Un amore travolgente, accecante, una passione senza limiti. Lo scopre attraverso John Thorton, il brav’uomo che gli salva la vita. E Buck lo stratega, Buck il calcolatore, Buck il soldato che s’è battuto da leone col rivale Spitz uccidendolo, diventa un agnello che si scioglie di gratitudine per una carezza. Passa le giornate a fissare con occhi adoranti il suo Thorton, si sveglia la notte per accertarsi che Thorton non sia partito senza di lui, sgozza chi lo offende, si piega ai suoi capricci più sciocchi. Compreso il capriccio di fargli saltare un baratro e tirare, per scommessa, un carico di cinquecento chili. I suoi muscoli di acciaio, i suoi denti di ferro, la sua vista e il suo udito e il suo odorato che captano gli odori e i rumori e i contorni più lontani non gli servono più, ora che il suo unico scopo è amare ed essere amato. E questo delirio felice lo ingrassa, lo blocca come un’ancora. Bisogna che Thorton venga ucciso dagli indiani Jeehats perché Buck tagli l’ancora e ritrovi se stesso: in un’epica liberazione che è preludio di libertà assoluta. È estate e Thorton s’è accampato, con gli amici Pete e Hans, all’estremo nord: nella Capanna Perduta. Buck va e viene per la foresta coi fratelli lupi e un giorno, guidato da un’angoscia strana, rientra all’improvviso: per scoprire il massacro. Thorton non c’è più, l’hanno gettato in fondo allo stagno, Pete e Hans giacciono trafitti di frecce, gli altri cani sono morti e i Jeehats danzano forsennatamente sopra i cadaveri. E Buck… «Per l’ultima volta in vita sua Buck permise alla passione di imporsi sull’astuzia e il ragionamento. E fu il grande amore per Thorton che gli fece perder la testa». Non più cane né lupo ma demonio, si lancia con un ruggito tremendo sui Jeehats e uno ad uno gli squarcia la gola. Poi, rimasto solo e lavato di quell’amore che lo rendeva più schiavo delle cinghie, della frusta, del lavoro, si allontana tra gli alberi e torna laggiù dove non esistono catene né legami né àncore. Insomma questo libro io lo vedo come un inno alla libertà. Anzi, alla libertà assoluta.
Molti, lo so, non sono d’accordo con me. E sostengono che Il richiamo della foresta è ben altro, cioè la storia di un cane che ritrova gli istinti sopiti dai millenni, la purezza dei tempi remoti in cui la pietà non esisteva perché significava paura e la paura non esisteva perché significava morte, uccidere o essere ucciso era la legge e ad essa soltanto si prestava obbedienza. Sostengono che la storia simboleggia una lotta viva in ciascuno di noi: quella fra presente e passato, civiltà e natura, educazione ipocrita e spontaneità dei primordi. Buck, come l’uomo, sopravvive in quanto rifiuta il presente e la civiltà e l’educazione ipocrita per obbedire al richiamo degli antenati che ululano in lui. Può darsi che abbiano ragione, e che Jack London abbia inteso dir questo: sedotto com’era dalla forza selvaggia e sempre incerto sull’accettazione della civiltà. Ma un libro, vedi, non è mai ciò che dicono i più raccattando le tesi di chi li ha preceduti; non è nemmeno ciò che intendeva dire l’autore. Un libro, soprattutto quando diviene opera d’arte, è ciò che tu ci trovi attraverso te stesso. E spesso è la ricerca di te stesso, la scoperta di te stesso. Quel giorno lontano dei miei dodici anni precoci e infelici, io cercavo senza saperlo il problema che secondo me è il problema centrale della vita: il problema della libertà. E Buck me lo trovò: estraendolo dagli abissi inesplorati della mia intuizione infantile e regalandolo a una futura coscienza di adulta. Neanche due anni dopo esplose l’8 settembre: l’occupazione nazista, la Resistenza. Poiché grazie a mio padre mi trovai dalla parte di coloro che morivano per la libertà, fu facile per me sfruttare il regalo di Buck: interpretare il suo ululato come richiamo di libertà. E solo diventando donna avrei realizzato che la libertà assoluta non esiste. Non per gli uomini, almeno. Ad essi infatti non è dato tornare lupi e cioè puri. È dato esclusivamente battersi per un sogno, un’utopia, una leggenda. La storia di Buck non si conclude forse con un’utopia, una leggenda? Nessuno lo vede più. I Jeehats lo chiamano Cane Fantasma. Nel libro con la copertina rossa credo d’aver perfino sottolineato le parole Cane Fantasma. Dico credo perché quel libro non ce l’ho più. Lo prestammo a una dolce maestra di scuola, l’ebrea Rubitchek. E quando, nel 1944, a Firenze, i nazifascisti rastrellaron gli ebrei, insieme alla signorina Rubitchek rubarono i libri che teneva in casa. Né lei poté reclamarli, dopo. Finì in un campo di concentramento in Germania dove morì come Curly: sbranata dai cani selvaggi che poi si leccan le labbra.

Jack London, scrittore e giornalista

Poi, per via di Buck, mi innamorai di Jack London. Me ne innamorai leggendo tutto ciò che trovavo di lui: Zanna bianca, Radiosa Aurora, La valle della Luna, Martin Eden, La rivolta dell’Elsinore, Il tallone di ferro, La piccola signora della grande casa: mai belli come Il richiamo della foresta e a volte addirittura brutti, eppure incanti che mi rapivano sempre perché non mi annoiavano mai. Lo zio Bruno, mi rimproverava: «Perdere tempo con Jack London! Con tutti i libri che devi conoscere! Leggi Moby Dick, leggi Flaubert!». Lo zio Bruno era un uomo colto, dai gusti difficili, e apparteneva alla schiera di coloro che a Jack London guardano (o guardavano) come a un subletterato: senza comprenderne il valore filosofico e spesso poetico, il dramma della cultura conquistata e respinta, il discorso sulla violenza vista come movente naturale ed umano, sulla lotta vista come istinto biologico prima che morale. Come loro, lo trattava con diffidenza, magari disprezzo. Lo accusava d’esser grossolano, superficiale, d’aver scritto troppo: «Cinquanta libri, in sedici anni! Cinquanta diviso sedici fa tre e avanza due! Scriveva più di tre libri all’anno! Possono essere buoni?!». E si arrabbiava quando gli rispondevo che lui, però, se li era letti quasi tutti, in segreto: lui faceva come Gramsci che nel 1930, dal carcere di Turi, scriveva al fratello di fargli avere due libri di Trotzki, uno di Muller, e John Barleycorn di Jack London. «Non lo conosco ma dev’essere un romanzo d’avventure di marinai e minatori in Alaska.» Ascoltatrice attenta di ogni suo consiglio che si riferisse alla mia educazione, rifiutavo con rabbia tale ostilità su Jack London. E va da sé che ne vedevo le giustificazioni, che capivo bene come le sue opere da salvare non fossero molte. Artista o pennivendolo, a me piaceva. Mi piaceva anche quando scriveva male. Adoravo la sua fantasia, la sua intelligenza, la sua capacità di spaziare da un argomento all’altro, perfino la sua incoerenza e il caos mentale che gli permetteva di scriver su tutto; dalla caccia alla politica, dalla fantascienza alla sociologia, in una ricchezza di idee che i grandi stilisti non posseggono mai. O forse egli si addiceva, semplicemente, alla mia gioventù? Con lui giravo l’America sconosciuta, cercavo l’oro tra i ghiacci, pescavo nello stretto di Bering, abitavo i bassifondi di Londra, naufragavo in Siberia, mi inebriavo nei mari del Sud, circumnavigavo la vita come volevo viverla io: avventurosamente. In una intervista, una volta, mi hanno chiesto se la mia smania di viaggiare e conoscere paesaggi diversi, gente diversa, non sia nata dall’innamoramento che da ragazzina ebbi per Jack London. Ho risposto sì, penso di sì. Infatti temo che sia stato proprio lui a instillare in me il sottile veleno dell’avventura: coi suoi romanzi bistrattati, i suoi racconti incompresi, la sua esistenza pazza e straordinaria e conclusa a quarant’anni col suicidio.
Il colpo di grazia me lo dette Martin Eden, e la scoperta che il bel romanzo era in sostanza la sua biografia. Convinta che in quella storia, anzi in quella biografia, stesse la chiave della sua opera e del suo personaggio, mi buttai a studiare l’uomo anziché lo scrittore e mi affascinò sapere che era nato (nel 1876, a San Francisco) da una donna isterica e da un astrologo farabutto, che aveva avuto un’infanzia miserabile, che aveva imparato da sé a leggere e scrivere, che infine era stato un gran giornalista, un gran corrispondente di guerra. Mi formai un archivio sui suoi dati biografici, su di essi fantasticai come i ragazzi d’oggi fantasticano su Che Guevara. Flora Welman, la madre, aveva tentato di uccidersi quando aveva scoperto d’essere incinta di quel Chaney: l’astrologo. Infatti lui l’aveva abbandonata dicendosi afflitto da impotenza, il bambino non poteva essere suo, e la salvezza era venuta dal matrimonio con un buon vedovo che si chiamava John London. Salvezza per lei, naturalmente, non per il bambino. John London era un pigro capace di fantasticare e basta: a otto anni Jack era stato messo a lavorare in una fabbrica come operaio, senza poter spendere un soldo del suo salario. Glielo prendeva tutto Flora che solo una volta ne aveva detratta la somma necessaria a comprargli una maglietta, e lui ne era stato così felice che per tre settimane non aveva voluto indossarci sopra la camicia. Non aveva che una camicia. Quando gliela lavavano, doveva andare senza. La sua sola ricchezza era l’affetto di Eliza, la sorellastra poco maggiore di lui, ma Flora se ne fregava di entrambi e il giorno in cui si ammalarono di difterite chiese al medico, tutta speranzosa: «Per risparmiare, non si potrebbe seppellirli insieme nella stessa bara?». A scuola poteva andarci solo dopo la fabbrica ma il maestro era perennemente ubriaco e si vendicava su lui dei dispetti che gli facevano i più grandi: bastonandolo a sangue. Si ubriacava anche lui. Aveva cominciato a bere verso i cinque anni vuotando un boccale di birra destinato a John e non aveva più smesso. Le cose migliorarono solo quando la famiglia si trasferì ad Oakland dove c’era il mare e una biblioteca pubblica. Qui poteva leggere qualsiasi libro volesse, vagabondar sulla baia, fare amicizia coi marinai, scegliere lavori più leggeri: strillone di giornali, sguattero nei caffè, segnapunti al gioco delle bocce, venditore di ghiaccio. Qui c’era Jenny Prentiss, la cameriera negra che Flora aveva preteso per curare le sue malattie immaginarie. Jenny era buona e aveva perso un bambino. Riversava su Jack tutto il suo bisogno di dare affetto. E Jack la chiamava Mamie.
Fu Mamie a dargli i soldi per scappare di casa e comprarsi una barca, la Razzie Dazzie, con cui rubare le ostriche dai banchi demaniali di Oakland. Aveva tredici anni.
Ma una rissa con gli altri pirati di ostriche gli costò la barca: gliela affondarono per vendetta. Dovette mettersi in società con un altro fuorilegge, Scratch Nelson, e continuare a bordo di un battello la sua carriera di avventuriero. Col battello si poteva fare anche il contrabbando del pesce, guadagnare centottanta dollari a notte, restituire a Mamie il denaro prestato, sfidare la polizia che li ricercava con le golette. D’un tratto, eccolo abbandonare il contrabbando del pesce, ed imbarcarsi su una di quelle golette, per arrestare gli antichi compagni in nome della legge. Perché? Così. Per divertimento, eccolo sfidare Scratch Nelson che vuol tagliargli la gola, cavarsela per miracolo, cambiar di nuovo mestiere scappando a bordo della Sophie Sutherland: una nave addetta alla caccia delle foche. Eccolo navigare come mozzo fra lo stretto di Bering e il Giappone, mesi e mesi, col freddo, poi scendere a terra esasperato, far lo scaricatore sul molo di San Francisco, l’operaio in una fabbrica di juta, dalle sei del mattino alle sette di sera, e dopo le sette di sera leggersi Kipling, Darwin, Spencer, Shaw, Marx, Tolstoi, in un’accozzaglia di letture disordinate, superficiali, impulsive, con l’impazienza dell’autodidatta che vuole diventare qualcuno per non essere più maltrattato, con l’innocenza del proletario che manda a scuola il figliolo perché sia chiamato dottore. E lungi da lui il sospetto che un giorno si trasformerà in certezza disperata: la cultura appresa da poveraccio serve solo a renderti intellettualmente più povero. Eccolo, infine, scoprire la magia dello scrivere: quel bisogno di vomitar sulla carta ciò che si pensa o si ricorda o si è visto, in un dialogo pazzo tra se stessi e una massa senza volto, o un monologo ancora più pazzo per sentirsi un po’ meno soli.
Scriveva e metteva da parte: come tutti noi timidi, come tutti noi poveri quando incominciamo. Ma la madre terribile e furba gli ripeteva: perché non vendi quella roba ai giornali? Si decise quando un giornale di San Francisco bandì un concorso: «Raccontate una cosa vissuta». Scelse il tifone che aveva visto scoppiare al largo della costa giapponese, pescando foche. Lo scrisse in tre notti. La prima notte, fra l’una e le sei del mattino. Duemila parole cui la notte seguente aggiunse altre duemila parole e che la terza notte rielaborò condensando. Vinse il primo premio e aveva diciassette anni. La cosa lo incoraggiò: inviò un altro manoscritto. Ma questo gli fu respinto e allora, mortificato, riprese a vagab...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. INTRODUZIONE
  4. CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE
  5. BIBLIOGRAFIA
  6. IL RICHIAMO DELLA FORESTA
  7. I. VERSO LE ORIGINI
  8. II. LA LEGGE DELLA ZANNA E DEL BASTONE
  9. III. IL DOMINIO DELLA BESTIA PRIMORDIALE
  10. IV. GUADAGNARSI IL PRIMATO
  11. V. LA FATICA DELLA PISTA E DEL TIRO
  12. VI. PER L’AMORE DI UN UOMO
  13. VII. LA VOCE DEL RICHIAMO
  14. Copyright