Elton John. La biografia
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Elton John. La biografia

  1. 480 pagine
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Elton John. La biografia

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Informazioni sul libro

Quasi 400 milioni di dischi venduti, cinqueGrammy Awards e un Grammy Legend, una serie di canzoni indimenticabili che hanno letteralmente costruito l'immaginario della musica pop dalla fine degli anni Sessanta a oggi: Your Song, Tiny Dancer, Rocket Man, Candle in the Wind, Goodbye Yellow Brick Road, solo per citarne alcune. A poco più di 70 anni, Sir Elton John è una vera e propria leggenda vivente del rock, capace di lasciare il proprio graffio non solo nella storia della musica ma anche in quella del costume e delle battaglie per i diritti LGBT, grazie anche all'intensa attività della sua fondazione. E mentre il suo monumentale tour di addio alle scene tocca i quattro angoli del mondo e arriva al cinema l'attesissimo biopic Rocket Man, David Buckley attinge a testimonianze e interviste a Elton e ai suoi maggiori collaboratori per raccontare la sua storia, dal primo pianoforte a oggi, tra genialità ed eccessi, trasgressioni e gloria, tra dolorose cadute e spettacolari resurrezioni.

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Informazioni

Parte prima

NASCITA DI UNA SUPERSTAR

1947-1974
1

Oggetti inanimati per amici

«A quarant’anni sarai una specie di glorioso fattorino, oppure un miliardario.»
Bill Johnson, insegnante di Storia di Reginald Dwight
«I had a quit-me father, had a love-me mother;
I had Little Richard and that black piano.»
Made In England (Testo di B. Taupin – Musica di E. John)
In un pub, seduto a un pianoforte vecchio e sgangherato, un adolescente sfoglia un pacco di spartiti. Sono le dieci di una domenica sera e Reg Dwight è di scena, non tanto per sbarcare il lunario quanto per costruirsi un futuro. Sono tempi in cui è difficile ottenere un prestito e i giovani devono sgobbare parecchio per sostenere le loro spese “di prima necessità”. Per Reg, la prima necessità include una tastiera elettrica e un amplificatore. Un musicista alla mercé dei pianoforti messi a disposizione dai locali rischia di ritrovarsi a stonare per tutta la serata, mentre una buona attrezzatura gli consentirebbe se non altro il controllo parziale sulla qualità dell’offerta musicale.
Per un ragazzo di quartiere membro di una band, suonare nei pub è il modo più ovvio per arrotondare, e Reg è diventato l’“attrazione fissa” del pianobar al Northwood Hills Hotel, dove suona tutti i venerdì, sabato e domenica sera, quando non si esibisce con il suo gruppo, i Bluesology. Diversamente dalla media dei giovani musicisti del posto, suona con competenza e sa leggere gli spartiti. Anzi, secondo gli amici «è un drago». Nei pezzi rock imita alla perfezione la cadenza yankee e pesta quelle dita un po’ tozze sui tasti con una trascinante energia percussiva. Ma sa anche cantare le ballate sentimentali irlandesi, i successi recenti di Jim Reeves e le melodie da pub. Se la cava con il pop leggero e il repertorio soul. In sostanza è in grado di accontentare qualsiasi richiesta del pubblico. Mica male, per avere solo diciassette anni.
A volte capitano episodi un po’ sgradevoli, per esempio un ubriaco molesto che esprime la sua insoddisfazione per l’intrattenimento della serata minacciando di versare la sua pinta nel pianoforte (forse la destinazione più adatta, considerata la disgustosa birra alla spina smerciata nel pub). Ma in generale le serate filano lisce, soprattutto dopo l’arrivo di un gruppo di gitani che fungono da guardie del corpo ufficiose. E una rossa tra loro si è presa una bella cotta per lui.
Con una certa delusione e irritazione dei genitori, ma con suo immenso sollievo, Reg (che è un tipo molto sveglio) ha lasciato la scuola il semestre prima degli esami di maturità in inglese e musica. Ha già deciso che il suo futuro sarà altrove. L’attrattiva di un impiego come fattorino alla Mills Music, una casa editrice musicale con sede in Denmark Street, a Londra, è stata irresistibile per un ragazzo che vive di musica. Con un lauto stipendio di cinque sterline la settimana per preparare il tè e sbrigare commissioni, passa il tempo libero a studiare le classifiche, comprare dischi, andare ai concerti, ascoltare la radio e consumare musica con la passione di un autentico estimatore. Custodisce nella sua stanzetta una vasta raccolta di dischi disposta in accurato ordine alfabetico. Di ogni 45 giri conosce gli autori del lato B, il nome della casa discografica che l’ha pubblicato e del giornalista che l’ha recensito. È raro trovare un giovane immerso nella musica pop quanto Reg Dwight.
Perciò il suo problema come musicista non è la competenza ma il sex appeal o, più esattamente, la sua totale mancanza di sex appeal. Reg è basso e piuttosto tarchiato, e qualsiasi cosa indossi gli sta da schifo. Pur non avendo problemi di vista, a scuola ha iniziato a mettersi un paio di grossi occhiali con la montatura scura, come tributo a uno dei suoi eroi musicali, Buddy Holly. A furia di portarli si è rovinato gli occhi e adesso le lenti gli servono davvero. Sovrappeso e già un po’ stempiato, somiglia più a Piggy del Signore delle mosche o a Billy Bunter che ai rubacuori del boom del r’n’b e del Mersey Beat che dominano le classifiche inglesi del momento. Non che sia brutto ma, nell’epoca dei Beatles, degli Stones e dei Kinks, non si può neanche dire che sia propriamente bello.
Nessuno avrebbe previsto che in meno di un decennio l’affabile Reg Dwight, con la sua passione per i giochi di parole e i nomignoli sciocchi affibbiati a chiunque gli capitasse a tiro, sarebbe stato il titolare di oltre il tre per cento di tutti i dischi venduti in un anno negli Stati Uniti. Ma il pool genetico del rock’n’roll ha il vizio di produrre le mutazioni più strane. Con il passare dei mesi Reg Dwight si sarebbe dimostrato ben più di un semplice intrattenitore da pianobar. Quel ragazzo timido, impacciato e di estrazione piccolo-borghese sarebbe infatti diventato la più grande star musicale della sua generazione e uno dei più importanti personaggi mediatici nella storia della cultura pop. Adottando l’alter ego di Elton Hercules John, Reg si sarebbe spogliato del corpo goffo e tarchiato che nessuno amava per assumere le vesti di un colosso vanitoso, sgargiante e venerato della musica pop. Questa è la storia della sua incredibile metamorfosi.
*
Elton John nasce con il nome di Reginald Kenneth Dwight il 25 marzo del 1947. Suo padre, Stanley Dwight, un caposquadriglia della Royal Air Force, aveva sposato Sheila Harris nel gennaio del 1945 e, come tante coppie di sposi novelli di quel tempo, si era sistemato a casa dei suoceri, Fred e Ivy Harris, in una villetta a schiera dell’edilizia popolare al 55 di Pinner Hill Road, a Pinner, uno dei tanti sobborghi periferici della Grande Londra. I due si erano conosciuti nel 1942 quando Stanley era in servizio attivo in aeronautica e Sheila, appena sedicenne, consegnava il latte per la United Dairies. Stanley fece carriera nella RAF, nel 1947 fu promosso tenente pilota e i suoi incarichi lo tennero spesso lontano da casa.
La famiglia Dwight aveva la musica nel sangue. Il padre di Stanley, Edwin, era stato cornettista nella Callender’s Cableworks Band, l’orchestra di ottoni aziendale di un grosso produttore di cavi elettrici britannico con sede a Belvedere, nel Kent. Stanley, nato nel 1925 in una famiglia con altri cinque fratelli, era stato a sua volta trombettista con Bob Miller and The Millermen. Già intorno ai tre anni Reginald strimpellava melodie sul pianoforte verticale di casa con sorprendente disinvoltura. Ma più che il padre fu la madre a prodigarsi davvero per coltivare il talento precoce del figlio, coadiuvata dalla nonna di Reg, Ivy, e dalla zia pianista, Win. Ivy e Win tenevano il bambino sulle ginocchia e guidavano le sue dita sui tasti.
Fu subito evidente che Reg Dwight aveva trovato un ambito in cui poteva eccellere. Le sue pagelle scolastiche nel corso degli anni disegnano il profilo di uno studente appena sopra la media, con scarsa predisposizione per gran parte delle materie e un impegno giusto sufficiente a evitare bocciature. Ma davanti a un pianoforte era tutt’altra faccenda. Già da piccolissimo riusciva a memorizzare e riprodurre a orecchio una melodia. A tre anni i genitori lo sentirono suonare una versione rudimentale del valzer Les Patineurs, del compositore francese tardo ottocentesco Émile Waldteufel – un accattivante pezzo romantico e un grande successo dei suoi tempi. Se pure ancora limitato alla sola chiave di Do e magari non proprio un enfant prodige, Reg era senz’altro un pianista estremamente dotato e con un orecchio fantastico. Gli bastava sentire una melodia un’unica volta per riuscire a eseguirla quasi nota per nota.
«A quattro anni lo facevamo dormire di giorno per tenerlo alzato la sera a suonare alle feste» ha ammesso Sheila. Quindi, prima ancora di cominciare la scuola, Reg subiva già pressioni per esibirsi. Ma quella capacità di suonare davanti a un pubblico, che si trattasse di una dozzina di parenti e amici o di decine di migliaia di spettatori paganti, sarebbe stata la chiave del suo successo futuro. Alcuni musicisti si sono bruciati la carriera per la paura del palcoscenico ma Reg Dwight è stato sicuro di sé quasi fin da principio.
A cinque anni cominciò a studiare pianoforte sotto la guida della signora Jones, una maestra del quartiere. A sei, se gli chiedevano cosa volesse fare da grande, annunciava solenne che sarebbe diventato concertista. Una foto del 1952 lo ritrae in blazer e pantaloni corti, con i capelli ben pettinati e la scriminatura a righello, seduto composto al piano con le dita appoggiate sui tasti bianchi. Il sorriso già carismatico e la postura di tre quarti fanno di quel ritratto la sua prima foto pubblicitaria ufficiale.
La musica era la passione dominante dei Dwight. Al tempo la radio era ancora il principale mezzo di intrattenimento domestico delle famiglie di ceto medio e occupava il posto d’onore in ogni casa. Nella villetta dei Dwight era sempre accesa. «Sono cresciuto con Frank Sinatra, Rosemary Clooney, Nat King Cole» ha spiegato Elton. «Non vedevo l’ora che arrivasse la domenica, quando andavano in onda “Family Favourites”, “Round the Horne” e “Educating Archie”. Ascoltavo gli sceneggiati, che ti mettevano in moto i neuroni. Sono felice di essere nato a quel tempo e di avere avuto il privilegio di ascoltare quei fantastici programmi radio.»
I genitori del giovane Reg erano assidui compratori di dischi. «Ho cominciato ad ascoltare dischi a tre o quattro anni» ha detto Elton. «I primissimi che ho sentito erano di Kay Starr, Billy May, Tennessee Ernie Ford, Les Paul, Mary Ford e Guy Mitchell. Erano le star di quegli anni.» Tra i prediletti c’era anche Johnnie Ray. Erano gli anni a ridosso dell’esplosione del rock’n’roll e invece Stanley sembrava deciso a riempire la testa del figlio con un repertorio musicale più maturo. «Ho subìto molto la sua influenza» ha ammesso Elton. «Mi faceva ascoltare i dischi di George Shearing [pianista jazz]. Uno di quattro anni che ascolta George Shearing è un po’ bizzarro.» Per il suo settimo compleanno il padre gli regalò una copia di Songs For Swinging Lovers di Frank Sinatra. «Non proprio il regalo ideale per un bambino di sette anni» avrebbe poi commentato Elton. «Volevo così tanto una bicicletta.»
Nel panorama inglese il genere che più lo attirava era lo skiffle. «Ho attraversato un’intera fase skiffle dopo aver visto Lonnie Donegan in televisione» disse Elton alla BBC nel 2002. «Era la musica più originale che avessi mai sentito. Era fantastico vedere cosa riusciva a fare.» Ma il suo primo vero amore fu il rock’n’roll americano. «Mi capitò in mano una copia della rivista “Life”» ha spiegato, «e c’era una foto di Elvis Presley. Mai visto niente di simile.» La stessa settimana sua madre tornò a casa con i 45 giri dei primissimi classici del rock’n’roll e per Reg fu la folgorazione.
«È stata mia madre a iniziarmi al rock’n’roll» disse nel 1971. «Un giorno arrivò a casa con ABC Boogie di Bill Haley e Heartbreak Hotel di Elvis Presley. Si teneva sempre al corrente delle nuove uscite.» Poco dopo Reg sarebbe rimasto rapito dal mostruoso fascino dionisiaco del pianista Jerry Lee Lewis. Tra i primi dischi che si comprò da solo ci furono i 45 giri di She’s Got It e The Girl Can’t Help It di Little Richard. «Ma i primi in assoluto della mia collezione personale furono Reet Petite di Jackie Wilson e At The Hop di Danny and The Juniors» disse al giornalista di «Billboard» Timothy White nel 1997.
Come per molti bambini della sua età (e a pensarci bene, tantissimi futuri musicisti) fu Little Richard a esercitare l’impatto più forte su di lui. C’era qualcosa di pericoloso nella sua musica, e una logica sonora incontestabile anche nelle combinazioni all’apparenza più insensate di A-wop-bob-a-loo-lop a-lop-bamboo. E lui stesso aveva un aspetto radicalmente controcorrente, con completi eleganti abbinati ai capelli gonfi e imbrillantinati e al trucco appariscente che gli davano un appeal esotico e trasgressivo. Altri rocker come Elvis potevano essere più bellocci, e altri ancora, come Jerry Lee Lewis, sembravano posseduti in modo più autentico dal nuovo spirito di rischio e ribellione, ma Little Richard rappresentava qualcosa di persino più dirompente: una versione d’uomo che si prendeva gioco della mascolinità.
«In Inghilterra eravamo pronti per quella rivoluzione» avrebbe detto in seguito Elton. «Fino a quel punto la musica in circolazione era stata contegnosa e convenzionale. Ma poi hanno cominciato a emergere cose come All Shook Up, che dal punto di vista del testo era un altro mondo rispetto al Guy Mitchell di Singing The Blues. Tutto d’un tratto Bill Haley cantava Rock Around The Clock, Little Richard strillava Tutti Frutti… Sul piano lirico, era un altro pianeta. Era esploso qualcosa.»
Riflettendo sugli influssi di questa doppia ispirazione sul suo talento emergente, Elton ha dichiarato: «Jerry Lee Lewis ha esercitato un’influenza enorme su di me. È il migliore pianista rock di tutti i tempi. Io non potrei mai suonare alla sua velocità. Non ho le mani di un pianista – ho le dita da nanerottolo. Suono più come Little Richard. Andavo a vedere i concerti di Little Richard al Granada Theatre di Harrow, lo vedevo saltare come un matto sul pianoforte e avrei tanto voluto essere al suo posto».
L’adolescente Reginald Wight ammirava anche una pianista di tutt’altra formazione: Winifred Atwell. Nata nel 1914, la Atwell aveva studiato musica classica a New York prima di trasferirsi a Londra, incidere per la Decca Records e sfornare, con il suo pianoforte honky-tonk, una quantità di successi sulla scena inglese, compreso il brano The Poor People Of Paris, in testa alle classifiche quando Reg aveva nove anni. In seguito lui stesso avrebbe sviluppato un suo peculiare modo percussivo di suonare. Ma le sfumature e sfaccettature musicali di cui avrebbe arricchito la sua musica, che spazia dalla classica al country, dal rock’n’roll alle ballate, sono il prodotto diretto di gusti musicali sorprendentemente cattolici.
Reg era un bambino solitario e i dischi assunsero un’importanza enorme per lui, anche come artefatto. Il suo amore per la musica andava ben oltre la passione per le melodie musicali. Gli aspetti visivi e tattili degli album rivestivano per lui una pari importanza. Divenuto adulto, e per giunta molto ricco, il suo collezionismo è sfociato in ossessione. Già a venticinque anni Elton John era il concentrato vivente di un negozio di dischi e una fiera d’arte. Ripensando al se stesso più giovane ha osservato, in tono nostalgico: «Catalogavo con cura ogni disco che compravo. Conoscevo a memoria i nomi di tutte le case discografiche e contemplavo per ore le copertine e le etichette. Mi piace la mia roba. Sono cresciuto con oggetti inanimati per amici e li considero ancora dotati di un’anima. Per questo sono così attaccato alle mie cose, perché ricordo gli attimi di gioia che mi hanno dato… e sono molti di più di quanti ne abbia ricevuti dagli esseri umani».
Da piccolo Reg amava lo sport, soprattutto il cricket, il tennis e il calcio. Purtroppo nella sua scuola secondaria – la Pinner County Grammar, che frequentò dal 1958 al 1965 – lo sport ufficiale era il rugby e nessuno giocava a calcio. Il giovane Reggie però si innamorò della squadra di Watford, e fu un amore per la vita. Da adulto sarebbe diventato un tifoso accanito non solo del calcio ma anche del tennis, e un profondo conoscitore degli sport in generale.
Suo cugino, Roy Dwight, giocò nel Nottingham Forest la finale di FA Cup del 1959 e contribuì con una rete alla vittoria per due a uno sul Luton Town. Roy aveva segnato al nono minuto, ma al trentatreesimo s’infortunò fratturandosi la tibia e finì a vedere il secondo tempo in ospedale, rifiutando di sottoporsi alla radiografia fino alla fine della partita. All’epoca il regolamento non prevedeva sostituzioni e il Forest dovette resistere fino al novantesimo con soli dieci giocatori in campo.
L’amarezza nei confronti del padre è un tema ricorrente in tutte le interviste di Elton degli anni Settanta. In una del 1976 rilasciata a «Playboy» si reinventò persino la sua storia familiare, sostenendo: «Nei miei primi due anni di vita mio padre non mi ha mai visto. Era un pilota della RAF e quando tornò dal servizio io avevo già compiuto due anni. Non mi conosceva nemmeno e partì subito col piede sbagliato, perché quando mia madre gli disse: “Reg è in camera. Perché non vai a salutarlo?” lui rispose “No. Lo vedrò domattina”».
Il biografo Philip Norman ha dimostrato che quell’episodio non è mai accaduto. «A quel tempo Stanley Dwight aveva un incarico locale con l’Unità di manutenzione 4 della RAF, nella base di Ruislip» ha scritto in Sir Elton. The Definitive Biography. «Era a casa quando nacque Reggie, e l’indomani fu lui a registrarlo all’anagrafe. Nei primi cinque anni e mezzo di vita del figlio, Stanley restò a Ruislip e non viveva nella base. Tornava a casa ogni sera come qualsiasi altro pendolare.»
Nel 1949 l’aeronautica lo destinò alla base irachena di Bassora e per lui fu uno strazio separarsi dal figlio. «Il primo Natale che passò lontano dalla famiglia ordinò da Hamleys, un costoso negozio di giocattoli del West End, una magnifica macchinina a pedali per Reg – la prima di un futuro parco macchine di lusso – e gliela fece consegnare a domicilio» osserva Norman. Ciò detto, resta il fatto che Reg e Stanley Dwight non furono mai molto legati, tanto che nel 1992 il figlio non andò al funerale del padre. Un matrimonio in crisi, con l’inevitabile corredo di litigi e silenzi, aveva creato un’atmosfera di tensione che non poteva non segnare un ragazzino.
«Quand’ero piccolo i miei genitori litigavano di continuo» disse Elton al «Sunday Telegraph» nel 1997. «Io mi chiudevo in bagno. Sapevo che appena mio padre fosse rincasato sarebbe scoppiata una lite. E vivevo nel terrore di quegli scontri.» Elton ha inoltre attribuito al bisogno di attenz...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Elton John La biografia
  4. Nota dell’autore
  5. Prefazione di Gary Osborne
  6. Parte prima. NASCITA DI UNA SUPERSTAR. 1947-1974
  7. Parte seconda. DECLINO DI UNA SUPERSTAR. 1974-1987
  8. Parte terza. ALLA RICERCA DI ELTON JOHN. 1987-2019
  9. Appendice. Paul Buckmaster in conversazione con David Buckley
  10. Ringraziamenti
  11. Inserto fotografico
  12. Copyright