Nella campagna a sud di Roma, in un casale diroccato lungo la via Nettunense, due ragazzi stanno litigando.
Jaime ha diciassette anni. Ramon ventidue. La cicatrice che gli solca la fronte è il segno del comando. Nella pandilla di Giardinetti è il più alto in grado. Jaime gli deve obbedienza e devozione.
Sono due cuccioli irrequieti e affamati. Tozzi, muscolosi, carichi di tatuaggi.
La strada è stata la loro maestra. Per essere ammessi hanno dovuto colpire facce, tagliare carni, pestare nemici, e sono stati colpiti, tagliati, pestati. Hanno spezzato ossa e sfregiato volti, si sono guadagnati il rispetto con la violenza.
Ma una cosa simile non era mai capitata. Mai.
Abbandonata sul pavimento di quella che un tempo doveva essere un’ampia sala comune, fra detriti di legno e chiodi arrugginiti, c’è una ragazza.
Ha gli occhi chiusi, e dal suo corpo minuto, avvolto in una coperta rossa macchiata di sangue e di chissà cos’altro, si leva un odore acre. Solchi profondi affiorano sulla pelle pallida, e sotto i nodi intrecciati con strane corde dai colori vivaci s’intuisce una ragnatela di lividi e tagli.
Chi l’ha ridotta così ci ha messo del tempo, e dell’impegno.
«Questa è roba da maniaci» sta dicendo Jaime, che odia i maniaci.
«Non è un problema nostro, hermano» risponde Ramon.
«Ah, no? Ramon, la puta sta morendo.»
«E allora?»
«Non mi piace, andiamocene.»
«Prima il lavoro, hermano.»
«Ma di che lavoro stai parlando?»
«Di questo lavoro.» Ramon sorride ed estrae il machete. Si avvicina alla ragazza e fa segno a Jaime di seguirlo. «Su, aiutami. Prima ci sbrighiamo e prima ce ne torniamo a casa.»
«Ma che vuoi fare?»
«Secondo te?»
Ramon gira intorno al corpo della ragazza, scosso da un respiro affannoso. Si sofferma come per prendere la mira, e solleva la lama. Jaime capisce quello che aveva sospettato fin da subito, e che si rifiutava di accettare.
Il lavoro. Fare a pezzi la chica. Come si vede nelle serie, come si sente nei racconti degli anziani che ancora ricordano gli squadroni della morte, laggiù nel lontano Salvador.
Un conato di vomito gli risale lungo l’esofago. Lui ha sfregiato, picchiato, colpito. Ma non ha mai ucciso. Finora. Va bene, c’è sempre una prima volta. Ma non è detto. D’accordo, quando gli scontri sono all’ordine del giorno, il morto ci può scappare. E la difesa del territorio è sacra, come quella della famiglia, dei fratelli, della tua donna. Ma deve esserci un motivo, altrimenti è solo locura.
Con tutta la forza di cui è capace, Jaime ricaccia indietro il vomito e avanza di un passo verso il compagno. Magari, se riuscisse a guadagnare tempo…
«Aspetta.»
«Che c’è ancora?»
«E poi che ne facciamo del… corpo?»
«Giusto. Va’ nel furgone e prendi i sacchi della spazzatura.»
«Ramon…»
«Hai paura?»
«Spiegami almeno perché, Ramon!»
«Perché cosa?»
«Questo! È per i soldi? Ormai gli affari vanno bene, non ci serve…»
«Non è questione di soldi. È un favore a uno grosso. Uno che può aiutarci a crescere.»
«Chi?»
Ramon lascia partire una bestemmia feroce. Dovrà tenerne conto, quando andrà a confessarsi da padre Rodriguez: le bestemmie sono peccato, e poi portano male, come dice la sua cara mamita. Ma Jaime sta proprio esagerando! Un moccioso senza cojones. Se non fosse il nipote di Hernan, el lobo, una leggenda nel giro delle pandillas, lo manderebbe volentieri a tenere compagnia alla chica.
«Ne ho le palle piene, amigo. Va’ a prendere quei sacchi e facciamola finita!»
Ramon alza il machete per vibrare il primo colpo, e mentre Jaime, rassegnato, angosciato, serra le palpebre per risparmiarsi almeno la visione del massacro, si sente un botto fortissimo e il machete vola via. Una voce alta e roca urla: «Fermi, polizia, a terra o vi ammazzo!».
«Non sparare!» grida Jaime, coprendosi la testa con le mani e tirando un sospiro di sollievo.
Ramon ha un attimo di esitazione. Il tempo di visualizzare un tizio massiccio, con i capelli bianchi, un vecchio, carajo, ma un vecchio che impugna con due mani una semiautomatica, e l’istinto prende il sopravvento. Ramon scarta da un lato e contemporaneamente estrae il coltello dal fodero agganciato all’ascella, scagliandolo contro la sagoma armata da vero artista della lama.
Il pistolero s’è accorto della manovra, si abbassa per evitare l’impatto, ma perde l’equilibrio e cade a faccia in giù sul pavimento. Con un guizzo caparbio, all’ultimo istante, riesce a evitare che la pistola gli sfugga. Parte un colpo che si perde lontano, verso il soffitto.
Ramon ha la tentazione di approfittare del momento: dopotutto è più giovane e addestrato al combattimento. Ma il tizio ha l’aria di essere un professionista, e ha una pistola. Senza contare che si è qualificato come poliziotto, e quindi potrebbe attendere rinforzi, non essere solo. Al diavolo il lavoro, si dice Ramon, questa è una trappola, mi sa che quel cagasotto di Jaime ci ha visto giusto. E così si lancia verso l’uscita e urla all’altro di seguirlo.
Ma Jaime non ci pensa proprio. Se ne resta sdraiato, a pochi centimetri dalla ragazza che non la smette di ansimare e sembra davvero a un passo dal tirare le cuoia. Ragione in più per chiamarsi fuori da questa storia. «Non sparare, mi arrendo, mi arrendo!» ripete, come in una stanca litania.
Il tizio con la pistola, intanto, si è rimesso in piedi. Guarda il ragazzo che se ne sta steso e piagnucola. Dall’esterno arriva il suono di un motore che si avvia. Il complice se la sta filando. Il tizio si dà dell’idiota, avrebbe dovuto squarciare le ruote del furgone, ma ora è troppo tardi per rimediare.
Per prima cosa, mettere la scena in sicurezza. Con le fascette di plastica che si porta sempre appresso lega il giovane mani e piedi.
«Fa’ un solo movimento e ti ammazzo.»
Poi va da lei. Le solleva il capo. Ha gli occhi sbarrati ma non è in coma. Dev’essere sotto shock, giudica, ed è sicuro di non sbagliarsi. Ha una certa esperienza, dopotutto. Sono dieci anni che batte la strada. Si riprenderà, ma per il momento è inutile cercare di interrogarla. In un sussurro le mormora parole di conforto. Lei sembra non capire. Forse è straniera, dall’incarnato sembrerebbe una dell’Est. Prostituta? Presto per dirlo. Non è questo che conta, ora. Con gesti calmi e delicati la libera dalla coperta lercia. Sotto è nuda. Nuda e piena di ferite. Si leva il giubbotto e lo stringe intorno a quel petto scarno, le scosta una ciocca di capelli dalla fronte, scotta, ha le labbra screpolate, e lui non ha neanche un goccio d’acqua. Una violenta ondata di pietà e una pietosa ondata di violenza lo sommergono. Guarda il giovane ammanettato, ha voglia di fracassargli le costole. Si trattiene perché un’area periferica del cervello ha registrato un’informazione che solo adesso, con qualche istante di ritardo, è in grado di elaborare.
Torna a concentrarsi sulla ragazza, scosta il giubbotto e li mette a fuoco. I nodi. I nodi e le corde colorate. L’ordine in cui sono disposti.
Scatta qualche foto col cellulare. Poi le prende una mano e comincia ad accarezzarle i capelli. La sua voce roca suona dolce e profonda. Comincia a cantare, piano piano, come se le note avessero il potere di lenire quel dolore senza senso.
Si chiama Gianni Romani, un tempo soprannominato il Biondo. È un commissario di polizia. Si trova lì perché un informatore di fiducia, il Pulce, gli ha soffiato che in quel vecchio casale erano state notate delle brutte facce.
C’è andato giusto per dare un’occhiata, con la segreta speranza di mettere le mani su qualche piccolo spacciatore.
Si è ritrovato faccia a faccia con il suo passato.
Con un sorriso che sa di ferocia si rivolge al ragazzo legato. «Tu e io, adesso, ci facciamo due chiacchiere.»
«Ha presente, dottore, quella studiosa americana che viveva coi gorilla, quella che fu ammazzata dai bracconieri…»
«Dian Fossey.»
«Esatto.»
«Ha sognato di essere Dian Fossey?»
«Ma no! Ho sognato di essere uno di quei gorilla.»
«Un gorilla?»
«Ero un magnifico esemplare, alto, imponente, con dei muscoli incredibili…»
«Davvero interessante. Era un maschio? Glielo chiedo perché ha parlato di “un esemplare”, “un gorilla”. Tutto declinato al maschile.»
«In effetti. Maschio. Sì, maschio.»
«Continui, la prego.»
«Allora. Sto fuggendo da… non so, credo che siano cacciatori… insomma, mi stanno dietro, sento dei colpi, sparano, ma non sono ferita. Sono in una specie di foresta, poi di colpo mi ritrovo su… come delle falesie, e sotto c’è il mare, spuntoni di roccia, e le acque che si agitano, ribollono. Lo definirei un paesaggio bretone, o forse è la Maremma d’inverno.»
«E poi?»
«E poi comincio a cadere. A volare, per essere precisi. Tipico, no?»
«Interessante.»
«Mentre volo, o cado, o quello che è… mi accorgo che in basso, su una spiaggetta di sabbia fina, bianchissima, riesco persino a distinguere i granelli che scintillano al sole, un bel sole franco, di piena estate… sotto di me c’è una famigliola. Una bella famigliola italiana di oggi, col papà un po’ sovrappeso, la mamma col costume intero e una bambina con le treccine. Hanno steso un asciugamano, o forse una coperta, e si preparano a… un picnic… Lei, per esempio, la mamma, ha un cestino termico, sa, uno di quei contenitori con dentro, bo’, una pasta fredda, un’insalata di pasta, insomma, e della frutta… uva e fichi… e lui, il padre, ha messo in fresco un grosso cocomero… l’ha messo in fresco nel mare…»
«Questo probabilmente lo associa alle sue origini. Pugliesi, se non erro…»
«Ah, no, la prego, mi risparmi la solfa delle memorie, la mia famiglia… nella mia famiglia quando si andava al mare c’erano l’autista, la cameriera, una tata per me e mia sorella, e mia madre non si sarebbe mai degnata di stendersi sulla sabbia, capirà, con tutta quella gente che passava, con quei germi… no, il punto non è la memoria, questa volta, il punto è un altro.»
«Me lo racconti.»
«Mentre cado e mi avvicino a questa gente io ho la certezza che farò loro del male. Lo so. Li mangerò, forse, o…»
«È notevole che lei si identifichi con un gorilla, che, come sa, è vegetariano… Chi pensava di mangiare, soprattutto?»
«Sentivo che stavo per piombare su di loro, ...