Autostrada A10 da Bordighera verso Genova
Veloce, e al diavolo i limiti e le multe. Sempre più veloce, per lasciare indietro tutto. L’auto schizza da una parte all’altra della carreggiata, intasata dalle altre macchine. Solo una moto le tiene testa tallonandola, e ciò rende il guidatore della Porsche ancora più temerario. “È la guerra che vuoi? Eccotela, allora.”
Sfrecciano una dietro l’altra zigzagando fra le vetture dei turisti in arrivo dalla Francia e i TIR, ancora tanti dopo la pausa domenicale. La moto, più agile, guadagna terreno. Arriva all’altezza del finestrino anteriore destro dell’avversario e accelera al massimo, incurante dello spazio davanti che si sta restringendo. L’uomo azzimato alla guida della Porsche frena d’istinto e la moto passa per un pelo fra la macchina e l’autotreno che la precede. “Deficiente”, pensa l’automobilista rendendosi conto che un SUV nero come uno scarafaggio sta cercando di approfittare della sua distrazione. Impreca, accelerando con decisione. I tre passano quasi incolonnati, la moto, la Porsche e il SUV, sfiorando il grosso TIR con la targa macedone, che arranca, rallentato dal carico e dalla noia sonnolenta dell’autista che si è distratto, perdendo velocità. Quando si accorge dei tre, cambia marcia rabbioso, facendo vibrare il motore. Intanto i “bastardi”, come li definisce fra sé, si allontanano, ciascuno chiuso nello spazio delle proprie frustrazioni.
Un paio di chilometri più indietro, un altro uomo sta fuggendo da una situazione che non sa risolvere. La Giulietta grigia non tiene un’andatura regolare: il conducente, chiuso nei propri pensieri, un po’ preme e un po’ rilascia il pedale dell’acceleratore. Ha trentasei anni ma ne dimostra qualcuno in più, forse perché la sua vita non è delle più facili.
Tutti abbiamo un’identità e una storia, però lui fa parte di un mondo nel quale si muovono persone che possiedono anche una leggenda, cioè una sorta di storia diversa da quella reale, con un nome sempre nuovo e una personalità cangiante a seconda delle necessità.
Mimo – questo è il suo nome di battaglia – è uno che va dritto al punto, senza scrupoli. Lo esige il suo lavoro, anche se non può raccontarlo a nessuno.
Negli ultimi mesi una situazione conflittuale ha complicato la sua vita e, nel tentativo di venirne a capo, non ha fatto che peggiorarla.
Adesso che è in viaggio, ha tempo e modo di ragionare. Ciò che lo turba ha un nome: Malvina, come il personaggio dei Canti di Ossian, come le isole reclamate dagli argentini, come la pianta medicinale dai fiori violacei.
Rivede il momento in cui l’ha conosciuta. Malvina teneva il suo bambino di pochi mesi in braccio, trattenuto da una fascia colorata che le avvolgeva le spalle e il ventre. La sala di palazzo Ducale era in penombra ma l’intensità con cui la donna stava osservando un autoritratto di van Gogh era tale da accendere di una luce nuova il quadro. Il pittore stralunato pareva aver smesso di dipingere per rivolgersi a lei.
La ritrovò in un’altra sala della mostra, seduta su una panca. Parlava piano al bambino che stava allattando al seno. Mimo non riuscì a distogliere lo sguardo. Lei si voltò e gli sorrise. Un sorriso sereno e, allo stesso tempo, incantevole.
I suoi occhi brillavano e Mimo ne fu travolto.
Il ricordo lo fa star male. Al solito, ogni volta che pensa a lei, il senso di vuoto allo stomaco si ripresenta puntuale: è contemporaneamente una sofferenza e un appagamento. Sono emozioni forti, un misto di passione, attrazione e inquietudine. In una parola: amore. Per Malvina prova tutto questo, eppure negli ultimi tempi non riesce più a trasmetterglielo, a farla sentire sicura e amata.
È il suo lavoro, così pressante, segreto, sempre urgente e improrogabile a tenerli distanti, o è qualcosa di più profondo? Sono questi i pensieri che si agitano nella testa di Mimo, mentre viaggia verso Genova per incontrare il suo collega.
L’autista slavo del lungo TIR non vede l’ora di arrivare a casa. Da giorni non sta con una donna e il pensiero di Irina lo eccita. Il suo collega dorme in cuccetta dopo aver guidato senza sosta da Tolosa a Nizza. Ora tocca a lui, e si annoia. Il motore del vecchio autoarticolato è affaticato. Non come me, pensa soddisfatto. A cinquant’anni compiuti si sente giovane come quando ne aveva trenta, orgoglioso della propria prestanza fisica. Con un gesto scaramantico tocca il sedere di una bionda, completamente nuda e fissata con lo scotch al tetto della cabina. Per abitudine cerca a tentoni lo slivovitz riposto nello stipetto del cruscotto. La bottiglia, però, non è dove dovrebbe essere e lui se la prende con il collega. «Al diavolo, Ivan. Non mette mai niente al suo posto! Se si è portato lo slivovitz in cuccetta, lo ammazzo!» Dà un’occhiata alla strada e ai retrovisori, tutto tranquillo. Quindi, tenendo con una mano il volante, si volta indietro.
«Ivan, figlio di un cane, passami la bottiglia! Ivan, non te la sarai mica scolata tutta?» Nessuna risposta.
Controlla di nuovo la carreggiata e gli specchietti. Stavolta si accorge di essersi spostato troppo a sinistra. Corregge l’andatura e in quel preciso istante si ricorda dove ha riposto la bottiglia. Ivan non c’entra nulla, è stato lui a incastrarla sotto il sedile. Abbassa il braccio e comincia a tastare con la mano, lanciando occhiate distratte alla strada davanti a sé. Più avanti c’è una curva in discesa, l’avvertono i segnali e le luci rosse delle auto che lo precedono, ma lui rallenta appena. Si piega ancora e finalmente trova la bottiglia.
«Cazzo, com’è stretta!» In effetti la curva è impegnativa e il TIR sta andando troppo veloce, ma ci vuol ben altro per mettere fuori gioco uno come me, pensa, lavorando di freno. “Ho il terzo occhio, vedo anche se non guardo” dice fra sé.
Si sbaglia. Durante i suoi contorcimenti per recuperare lo slivovitz, non ha notato i cartelli che segnalano un cantiere, né quelli che impongono di rallentare.
Li vede all’improvviso, i jersey bianchi e rossi, le strisce gialle e i fanali lampeggianti. E gli uomini al lavoro.
Bestemmiando, schiaccia a fondo il pedale del freno.
Mimo riprende la posizione sulla corsia di sinistra solo dopo il passaggio della moto e delle due auto che viaggiano alla stessa velocità, a pochi metri l’una dall’altra. Non riesce a leggere la targa del TIR, sporca di unto polveroso, ma la scritta sul fondo luccicante è in una lingua slava. Accelera per adeguarsi alla velocità delle altre vetture attaccate al camion, che non accenna a rientrare sulla corsia di destra.
Sulla sinistra del pendio si possono scorgere coltivazioni di ulivi e grandi serre, in basso a destra si vede scintillare il mare fra un capo boscoso e una stretta punta rocciosa, costellata di case multicolori, a picco su acque verdi-azzurre. “Che voglia di un bagno” pensa Mimo, subito prima di essere costretto a frenare. Il TIR è pochi metri più avanti.
Una serie di cartelli e di luci lampeggianti stanno segnalando che le due corsie si ridurranno a una sola. Rallenta, e attiva le quattro frecce. L’autotreno, invece, continua ad avanzare veloce. In questo tratto la strada scende bruscamente e, al fondo, si scorge una curva stretta che tira a destra. Il cantiere dev’essere subito dopo, riflette Mimo, allarmato per l’eccessiva velocità del bestione.
Comprende ciò che sta per capitare e frena d’istinto. Oltre la curva, già sbilanciato, il TIR sfugge al controllo dell’autista. L’uomo scala le marce e contemporaneamente schiaccia sul pedale centrale, ma è tutto inutile. Il traino si sgancia dalla cabina che, improvvisamente svincolata, prende a ruotare su se stessa come una trottola mentre il rimorchio, non più trattenuto dalla resistenza del motore, si ribalta e scivola sull’asfalto, rovinando verso il cantiere.
Abbatte i segnali, infrange i guard-rail, polverizza i jersey di plastica, schiaccia, sconvolge e frantuma tutto ciò che incontra. Non c’è scampo per gli operai, che hanno appena il tempo di intuire il loro destino. In preda al terrore, abbandonano i loro attrezzi e tentano la fuga, ma non riescono a evitare l’immensa massa che li travolge. Poco lontano dall’inferno, uomini in tuta arancione assistono al massacro con gli occhi sbarrati.
Ha premuto il freno con violenza. La Giulietta si è ribellata, ma il computer di bordo l’ha rimessa subito in assetto e Mimo ha riassunto il controllo, fino a fermarsi senza danni.
Il silenzio che piomba sulla piazzola sembra una massa solida, invalicabile. Altri come lui stanno uscendo dalle proprie auto, sconvolti e allo stesso tempo attratti dall’orrido spettacolo. Le loro ombre si allungano, tremolanti nella luce dorata del sole calante che le disegna sull’asfalto grigio, venato dal nero dei copertoni. Sulla terra è iniziato il tramonto, ma il cielo è lontano, ancora azzurro, senza una nuvola, solcato da scie silenziose di reattori distanti.
Accade sempre nelle catastrofi, il cervello fatica ad associare i pensieri alle immagini registrate dagli occhi: il rimorchio rovesciato su un fianco è fin troppo intatto per quello che ha subìto, una grossa ruota sta ancora girando su se stessa, una mano spunta immobile dalle lamiere contorte e ha le dita aperte, insanguinate. Il resto del corpo dev’essere tra quell’ammasso.
A Mimo sembra di stare sotto una campana: non coglie le voci lontane, i motori che rallentano, sente solo il gocciolio del carburante che cola dal serbatoio lacerato. Un odore ripugnante lo prende alla gola, un miscuglio di cherosene, gomma bruciata e sangue. Si ferma, gli altri lo imitano rimanendo alle sue spalle, troppo inorriditi per parlare.
Sa per esperienza che il silenzio durerà poco.
Quasi l’avesse evocato, il primo grido scuote tutti, e ha l’effetto di ridestare la folla. Esplodono urla, pianti, imprecazioni. Un uomo incita isterico a scappare perché il TIR può incendiarsi; un altro sta pregando, immobile davanti a ciò che resta di un essere umano. Mimo è una statua di marmo.
Scruta intorno a sé, alla ricerca di qualcosa che ha attirato la sua attenzione per un attimo, ma che non riesce più a individuare. Poi di nuovo: un movimento fra un mucchio di assi e sacchi di cemento, qualche metro più avanti.
«Andiamo!» ordina, e gli altri lo seguono, aggirando la cisterna. Raggomitolato per terra c’è un uomo privo di sensi. Al suo fianco, un operaio striscia a fatica, lasciandosi dietro una scia rosso sangue.
«Chiamate il 118! Non c’è tempo da perdere. Voi, datemi una mano!»
L’operaio adesso è immobile. Mimo gli tasta il polso, si assicura che possa respirare e che la lingua non lo soffochi, ma si astiene dal voltarlo. «Restate con lui, non muovetelo.»
Quindi raggiunge l’altro ferito e gli si inginocchia accanto. È vivo, però sembra conciato male. Ha il respiro debole ed è privo di conoscenza. Non si vede sangue, ed è un brutto segno, potrebbe avere un’emorragia interna. Mimo si guarda attorno, non c’è altro da fare che attendere i soccorsi.
Poco dopo si sentono le sirene che si stanno avvicinando. Aspetta che i due feriti ricevano le prime cure e torna alla macchina, seguita da una colonna di vetture di ogni foggia e nazionalità. Una folla eccitata, armata di cellulari, si accalca al bordo della scena per fotografare e filmare la morte in diretta. Sulla carreggiata opposta un gruppo si sta facendo un selfie proprio di fronte alla piazzola, costringendo i veicoli a rallentare.
Mimo, appoggiato all’auto, osserva la scena con distacco e valuta le opzioni possibili per non rimanere incastrato in quel casino.
Da ovest non riuscirebbe a passare neanche un motorino, tanto i mezzi sono incollati tra loro. Arrivano i primi pompieri e in un attimo la piazzola è inondata dalla schiuma antincendio. Una schiera di poliziotti e carabinieri inizia a formarsi a ridosso del nastro rosso e bianco che delimita il luogo della strage. Dal mare si è alzata una brezza leggera che non riesce a spazzare l’odore acre e disgustoso dell’incidente.
“Sarà meglio che avverta Malvina” pensa Mimo. Prova a chiamare, ma non c’è campo, troppi cellulari stanno facendo la stessa cosa e la rete non riesce a smaltire il traffico.
Mimo sa che avrebbe dovuto farlo subito, ora sarà agitatissima e ancora più arrabbiata di prima. Il loro rapporto è in bilico e lui è consapevole che ogni ostacolo aggrava la situazione. Sente di averla delusa ma non ha il coraggio di affrontare la verità e quindi ripiega su un terreno doloroso, ma paradossalmente per lui più facile da gestire: immagina un futuro senza di lei. Niente più casa dalle tegole rosse dove fare l’amore, niente più parole complici, niente più profumo di erbe e fiori che Malvina emana quasi fosse la sua natura. Niente di niente, insomma.
Risale in macchina, spossato. Il calo dell’adrenalina gli dà i brividi.
Si rassegna all’attesa, circondato da una massa eccitata che non sa ancora cosa accadrà nelle prossime ore. L’asfalto rilascia calore. Fuori e dentro l’abitacolo l’aria si è fatta irrespirabile. Malvina è lontana, irr...