È importante ritornare a essere consapevoli della qualità del tempo che viviamo, della qualità delle nostre relazioni e aumentare i momenti di consapevolezza, di silenzio e raccoglimento che ci permettono di non essere vittime della reattività. La meditazione qui proposta, ideata da un maestro buddhista americano, Lama Surya Das, ha proprio questo scopo. Ecco come praticarla.1
Fai un controllo ambientale della lista delle cose da fare. Trovo che questa sia una pratica importante da seguire quando mi sento fuori centro. Nella nostra cultura occidentale – che spesso misura la qualità e il successo in base alla quantità di cose che abbiamo fatto in una giornata, dal numero dei luoghi in cui siamo stati e dagli impegni che ci hanno occupato – trovo che sia molto benefico fare un passo indietro e riflettere. Riconsidera tutte le cose della tua lista che devi proprio fare e chiediti: «È proprio così?».
Quando ti è difficile trovare il tempo di fare quel che devi, limitati a fare il primo passo. È come guidare nella neve alta: metti una marcia bassa e avanza, lentamente, ben aderente a terra e con andatura costante. Spesso quando ti senti travolto o bloccato, ti basta fare un unico, singolo passo. Non ti mancherà mai il tempo per quel singolo passo. E poi per il successivo.
Quando ti senti schiacciato dalla mancanza di tempo e dalle troppe cose da fare, la tua mente può “spegnersi” e ti sembra di essere lasciato solo a cercare di svolgere tutti quei compiti. Ricorda, invece, che siamo tutti insieme su questa barca e che lungo il percorso ci aiutiamo sempre gli uni con gli altri. Nota che è proprio quando senti tutto il peso gravare per intero sulle tue spalle che provi la maggior sensazione di urgenza e di panico. Cerca invece di riconoscere la tua interconnessione: tu fai sempre parte di una squadra, che siano i tuoi collaboratori, la tua famiglia, i tuoi amici o l’universo di tutti gli esseri che hai attorno. Ognuno di loro ha provato quel che tu provi adesso. Cerca di dirti, con dolcezza: «Siamo tutti insieme su questa barca».
Il nostro ritmo forsennato può darci l’impressione che ogni cosa sia della massima urgenza. Sai che ti dico? Non è vero. Renditi conto che non bisogna per forza rispondere subito a ogni e-mail, anzi, non occorre neanche aprirla immediatamente. Fai un bel respiro e stabilisci le giuste priorità che ti metteranno in grado di fare le cose con calma. Stabilisci le cose che ci si aspetta da te e rifletti su quali siano fra loro le più importanti. Impara a dirti: «Questo può aspettare».
Il nostro percorso prevede ora l’esplorazione di quattro elementi – il silenzio, la solitudine, lo spazio e il tempo – che possono determinare l’esito della ricerca interiore. Sono quattro porte che ci consentono un contatto più profondo con la natura, con un modo di stare nel mondo più autentico, quattro indicatori che ci aiutano a comprendere quanto siamo vicini o distanti dalla felicità.
Qualche estate fa ero in vacanza nel Nord della Norvegia con mia moglie Monica. Un giorno ci imbarcammo sul traghetto che costeggia i fiordi fino al Circolo Polare Artico. Dopo alcune ore di navigazione, il capitano annunciò una fermata in un luogo dal nome impronunciabile. Dal finestrino si poteva scorgere solo un pontile in legno, due casupole in tipico stile scandinavo, una distesa di mare scuro come la pece e boschi di betulle a perdita d’occhio. Il fumo che usciva da un comignolo era l’unico segno di vita. Eravamo giunti a destinazione. Come moderni emuli di Marco Polo o Magellano, impiegammo pochi minuti a prendere confidenza con la landa brulla, senza rocce, con gli scogli che la foresta e il freddo ci concedevano di esplorare. Il menu del posto di ristoro per “turisti” prevedeva aringhe e pane nero, dolcetti alla cannella, caffè caldo e un dolce a base di una salsetta rossa e burro. Non c’era competizione: la sorte non ci aveva fatto affamati pescatori di balene e il richiamo del Polo all’orizzonte era irresistibile. Così, seduti con le gambe a penzoloni sulla banchina che cigolava e dondolava a ogni onda, sperimentammo una immersione negli elementi della natura e una pace che raramente avevamo provato prima. Mentre lo sguardo si perdeva lontano e il vento soffiava via i pensieri, con il mare antico sotto di noi, eravamo diventati parte di quel mistero. La solitudine silenziosa pronta a cogliere i suoni gentili della natura aveva eliminato il tempo e lo spazio. Incontrare Thor o un guerriero vichingo in viaggio verso il Valhalla non sarebbe stata certo una sorpresa.
IL SILENZIO
L’Antartide è il luogo più silenzioso in cui sia mai stato. Sono andato da solo al Polo Sud, e in quel paesaggio monotono che si stendeva innanzi a me a perdita d’occhio non si udivano altri rumori umani se non i miei. Da solo sul ghiaccio, circondato da un grande nulla bianco, riuscivo a sentire e percepire il silenzio.1
Questo silenzio di cui parla lo scrittore ed esploratore norvegese Erling Kagge è quel genere di esperienza che ci mette di fronte a noi stessi senza mediazioni, in un modo istintivo, primitivo, quasi animale. Allo stesso modo, mentre siamo intenti a riflettere sulla vita, a un tratto arriva una notizia inaspettata, e improvvisamente cambia la prospettiva, cambiano le priorità, veniamo letteralmente scaraventati in mezzo alla corrente di un fiume impetuoso. In quel preciso istante la vita smette di essere una teoria, una filosofia, e diventa realtà. Urgente, imminente, senza mediazioni. Accade, senza avvisare, senza appello, senza pietà. Ci lascia attoniti e nudi di fronte all’immensità del suo mistero, spazzando via in un sol colpo ogni difesa, ogni fortificazione, ogni punto fermo. In quel momento diventiamo noi stessi il mistero. Non c’è più la paura, non ci sono più passato e futuro, ci siamo solo noi, con la nostra umanità, la nostra fragilità. Come su quel pontile della Norvegia, in momenti come questi il mistero ci avvolge e spezza le catene del sogno, del sonno della mente, per farci risvegliare nel presente, per tornare all’esperienza e viverla. Stare costantemente sulla cresta dell’onda del mistero però non si può, si può soltanto viverne la momentanea “magia”.
Se fosse una condizione perenne, il silenzio perderebbe questa sua capacità generativa. Ma praticato in maniera episodica consente alla mente di esercitarsi ad andare oltre la routine e a favorire l’immersione nella realtà. Gli indiani d’America, ad esempio, quando dovevano prendere decisioni importanti, erano soliti sedersi intorno al fuoco, sotto il tepee, e dopo aver preparato la scena con tutti gli oggetti rituali, accendevano una pipa che si passavano l’un l’altro. La pipa era il solo oggetto parlante. La maggior parte di questi simposi avveniva senza che venisse pronunciata una parola, eppure alla fine gli anziani prendevano la decisione più adatta alla circostanza.
Nonostante questo suo valore creativo, il silenzio a volte ci sembra innaturale. L’essere umano, d’altronde, è fatto per comunicare: il linguaggio conferisce senso al nostro agire, rende possibile la reciproca comprensione. Tuttavia, il tipo di silenzio cui si fa riferimento nella pratica non è una semplice assenza della comunicazione verbale, piuttosto ha a che fare con ciò di cui abbiamo parlato nelle pagine precedenti, a proposito del racconto sul maestro Yue-shan: la sua potente risata non nasce da una battuta o da un episodio divertente, ma da un fatto quasi banale, dal guardare la luna che splende ogni notte e comprendere quanto gli accadimenti della vita siano, in fondo, una commedia ridicola. Senza bisogno di parole, senza la necessità di verbalizzare questa intuizione. La relazione con l’universo avviene a un livello più profondo, nasce dalla capacità di lasciarsi incantare dalla vita.
L’importanza che viene data al silenzio nella meditazione non è dunque volta a soffocare ogni forma di espressione umana o a far sì che ci si chiuda in una dimensione mistica. Al contrario, serve a valorizzare quei momenti di autenticità in cui siamo disponibili e liberi di aprirci e scherzare persino con la luna! Si tratta di un silenzio attento, un silenzio consapevole di ogni elemento che ci circonda.
LA SOLITUDINE
Il silenzio consapevole è simile a quella forma di solitudine di cui parlava lo scrittore francese Montaigne:
Non basta l’essersi allontanati dalla gente; non basta cambiar luogo, bisogna allontanarsi dalle inclinazioni comuni che esistono in noi; bisogna sequestrarsi e isolarsi da se stessi […] Ora, poiché ci accingiamo a vivere soli e a fare a meno della compagnia, facciamo sì che la nostra soddisfazione dipenda da noi. Sciogliamoci da tutti i vincoli che ci legano agli altri; conquistiamo davvero su noi stessi il potere di vivere soli e di vivere a nostro bell’agio.2
La solitudine, in questo caso, è una condizione che ci consente di individuare i meccanismi che impediscono le relazioni e favorisce, invece, la preparazione del terreno in cui esse possono prosperare.
In realtà possiamo quindi paradossalmente parlare di silenzio e solitudine “relazionali”, poiché qualsiasi relazione perché sia feconda deve essere il risultato di un processo di consapevolezza che parte appunto da una solitudine silenziosa.
Quest’ultima è la condizione necessaria per favorire lo stato di concentrazione e contemplazione, è una solitudine piena, ricca, è la solitudine della generosità, grazie alla quale facciamo spazio per noi stessi e per gli altri. Proprio per questo costituisce un elemento propedeutico, è una specie di incubatore della relazione. Non una relazione superficiale, ma una relazione che potremmo definire spirituale, resa possibile dal fatto che finalmente siamo riusciti a trovare lo spazio per guardarci nel profondo e mettere da parte per un po’ il peso e le ragioni del nostro io.
La solitudine così intesa è un luogo non vuoto di presenza ma pieno del mondo, in cui possiamo smettere di autodefinirci, di affermarci, uno spazio creativo e generatore.
Lo sostiene anche il rabbino Haim Fabrizio Cipriani che, in un post su Facebook, ha raccontato un’esperienza simile:
Ieri, in un luminosissimo pomeriggio di Shabbat autunnale, passeggiavo in un luogo che amo molto, l’animatissimo Naschmarkt di Vienna. Effluvi, aromi e colori di ogni tipo si contendevano la mia attenzione: glühwein, formaggi, carni, specialità russe, libanesi, polacche, coloratissime varietà di frutti canditi, strudel, knödel… Quasi stordito da queste sollecitazioni, mi sono recato nella parte finale del mercato, quella meno densa e frequentata, oltre che più luminosa e soleggiata. Prendendo un po’ di distanza, ho potuto allora vedere le cose diversamente. Essere immersi in quell’oceano di stimoli senza poterne approfittare davvero era un’esperienza estremamente interessante. Durante Shabbat, vige fra l’altro la proibizione di utilizzare denaro, che rende impossibile acquisti di qualsiasi genere… Questo mi ha fatto riflettere su un aspetto a mio avviso prezioso dello Shabbat, quello della pura contemplazione della bellezza e della varietà del mondo.
Insieme all’incanto, dunque, la ricerca della saggezza e il lavoro filosofico anticipano nel silenzio e nella solitudine il lavoro della pratica, che riguarda innanzitutto la costruzione della relazione. Ma questa relazione diventa possibile solo in mancanza di elementi che ne impediscano la realizzazione. Non si tratta quindi di liberare spazio nella mente per metterci altro. Al contrario, si rende la mente più aperta a ospitare ciò che la vita ci presenta, proprio perché non ci sono ostacoli per accoglierlo. Silenzio e solitudine sono i prerequisiti che permettono questo tipo di lavoro e si intrecciano quindi, nel percorso buddhista, con l’altro elemento importante per la ricerca della saggezza, ovvero lo spazio.
LO SPAZIO
È interessante a questo proposito notare la differenza nel modo di concepire lo spazio tra la cultura orientale e quella occidentale. Per noi occidentali, lo spazio è un luogo da riempire, essenzialmente una mancanza. Lo spazio per noi è un luogo vuoto, che non è completo finché non viene riempito da elementi, siano persone o oggetti. Per rendere l’idea, basti pensare a una frase del tipo: «C’è ancora spazio per i bagagli?».
Nella cultura orientale, al contrario, lo spazio è l’assenza di resistenza, l’assenza di ostacoli che ci permette di procedere sulla strada. Non è un luogo, ma una condizione in cui non c’è nulla che impedisca di andare dal punto A al punto B. Lo spazio non è separazione, è connessione, opportunità. Non c’è vuoto, non c’è solitudine, come normalmente li intendiamo. Piuttosto, come il silenzio e la solitudine, lo spazio è la condizione necessaria che permette la creazione di nuove situazioni e grazie alla meditazione possiamo sperimentarla e scoprire quanto il vuoto possa essere pieno di vita.
Nella lingua cinese, ad esempio, la parola tao significa sia “via” sia “percorso”, un’idea di spazio, dunque, inteso come possibilità di procedere sulla strada. La stessa cosa vale per l’inglese way, che significa sia “strada” sia “modo”. La strada e il modo di percorrerla sono dunque un’unica cosa: non si danno né una strada preesistente né una specifica maniera di procedere, ma una via in costante trasformazione che, pur aprendosi in ogni direzione, fa continuamente ritorno a sé. Il Tao è uno dei più importanti concetti del pensiero cinese: il passaggio, lo spazio così inteso, più che un sentiero fisico, reale. Più che un luogo da riempire, è lo spirito del mutamento cosmico, una spirale, simbolo caro alla tradizione taoista.
Il buddhismo introduce un’idea simile legata al concetto di spazio, che è la vacuità. Si tratta di un termine oscuro, spesso frainteso e altrettanto di frequente associato alla mancanza, al vuoto, all’assenza.
In realtà, la vacuità ha due risvolti, uno psicologico e l’altro fisico. Ci aiuta a capirlo una mente brillante e dissacrante, un filosofo buddhista indiano di nome Nāgārjuna che visse nel secondo secolo dopo Cristo, il quale definiva la vacuità in due modi: prima di tutto come il momento in cui si lasciano andare tutte le opinioni e dunque si fa spazio ne...