Ottobre 2017
Il corridoio si allunga freddo e mal illuminato. Corpi di varie dimensioni ricoprono il pavimento. Alcuni si muovono, altri no. Ogni tanto si leva il gemito di un bebè e nell’aria aleggia l’odore di corpi fradici e intirizziti. Corpi che sperano di essere al sicuro. Corpi che non osano crederci.
Ho vissuto quattro anni in India e pensavo di aver visto il meglio e il peggio dell’umanità. Mi sbagliavo.
«Bene» dice Giulia. «Fai tu i bambini maschi dagli undici ai quattordici anni?»
Mi allunga una borsa colma di vestiti appallottolati. La osservo senza fiatare. Alzo lo sguardo e incontro il suo. Ho paura, ma gli occhi di Giulia splendono incoraggianti. È la mia prima distribuzione di vestiti ai nuovi arrivati dal mare.
«Ci sei?» dice. «Ascolta, so come ci si sente. Ci sono passata anch’io, ma ora ho bisogno che tu sia presente. Abbiamo solo venti minuti.»
Mi riscuoto. Prendo la borsa. La borsa pesa e me la isso in spalla. Mi addentro nel corridoio, attento a dove metto i piedi: calpestare questa gente nella penombra è facilissimo. Dormono sul cemento, la coperta grigia con il marchio dell’Organizzazione a nascondere i loro tremori. La Gabbia, così la gente chiama questo posto.
La stagione delle piogge sferza il campo profughi. Un anziano siede appoggiato al muro, con una gamba zuppa. Il telone che copre il corridoio ha ceduto, e adesso in quel punto si è formata una pozzanghera. L’uomo pare svenuto, le labbra viola e le palpebre esangui. Potrebbe essere mio nonno. Poi apre gli occhi e guarda la mia borsa.
«Questi sono per bambini» dico, indicando i vestiti che trasporto. «I miei colleghi saranno presto da lei.» Lui tace. «Scusi» aggiungo.
Con il cuore che palpita, riprendo ad avanzare tra i corpi. Mi fermo, però, quando lo sento parlare.
«Cosa?» chiedo voltandomi.
«Ha detto: “Non siamo animali”» traduce un giovane alle mie spalle. Sta osservando la scena da dietro la rete che separa i nuovi arrivati dal resto del campo. Si passa la mano sul cranio rasato come in attesa di una mia risposta.
Io annuisco. Non so cosa dire.
«Muoviti» dice un poliziotto, «malàka.»
Riprendo a camminare. Mi accuccio quando scorgo una figura più piccola nel groviglio di gambe e braccia. Da come stanno vicini e rannicchiati, dev’essere una famiglia. Devo svegliarli, ma lo faccio con gentilezza. Di gentilezza, penso, qui ne troveranno poca.
«Ciao.» Poso la mano sulla spalla dell’uomo. Lui apre gli occhi. «Benvenuti in Europa» dico, e mi sforzo di sorridere.
Mi guarda con sospetto e ha un occhio strabico. Non dice nulla, non si volta nemmeno del tutto verso di me. Poi me ne accorgo: annidate sotto il suo braccio dormono tre bambine piccole. Dall’altro lato, quella che dev’essere sua moglie si è appena svegliata. Anche in lei scorgo diffidenza.
«Vestiti» dico, scuotendo la borsa. Accompagno alle mie parole i gesti. «Niente maschietti?»
«No.» L’uomo abbozza un sorriso.
Annuisco e faccio per rialzarmi quando vedo un bambino, gli occhi grandi e vispi, fissarmi da terra. Giace accanto alla famiglia ma, noto, senza toccarli. Provo a indovinare la sua età: dieci anni, dodici al massimo.
Lo indico e rivolgo il palmo della mano al soffitto in una muta domanda.
«Ah, sì» dice l’uomo, senza neanche guardarlo. «Lui.» Poi si volta e torna a dormire.
Mi accovaccio e il bambino si mette a sedere. Gli porgo la mano. Senza esitazione lui me la stringe. La sua pelle è gelida al tatto.
«Come ti chiami?» chiedo.
Scuote la testa. Non ha capito.
Annuisco e sorrido per incoraggiarlo. «Nicolò» dico, puntandomi il petto. Poi indico il suo. «Tu?»
Il suo volto s’illumina. «Hammudi» dice. Punta l’indice verso di sé. «Siria.» Lo rivolge verso di me. «Tu?»
«Italia.» Rido e pesco dalla borsa una maglietta a maniche corte, verde sgargiante. «Va bene?»
Hammudi allunga la mano, prende la maglietta e la stringe a sé. «Bene.» Mi rivolge un sorriso enorme. Parte del suo sorriso resta dentro di me.
Gli porgo un paio di pantaloni di seconda mano e una felpa troppo stretta per lui, ma Hammudi la indossa e smette di tremare. Mi guarda come se avessi altro da offrire.
«Vieni a lezione da me, domani» dico, ma lui mi lancia un’occhiata interrogativa. Un poliziotto urla un ordine in greco dall’altro capo del corridoio. «Madrasa» tento, con una delle poche parole arabe che so. «Quando ti lasciano andare, vieni a cercarmi. Ti insegnerò l’inglese.»
Hammudi annuisce. «Tamam.»
Insieme agli altri volontari distribuiamo indumenti asciutti a tutti i profughi approdati oggi sull’isola di Samos: quarantadue, stipati su un gommone. Per fortuna, nessuno ha perso la vita nella traversata.
«Tutti hanno ricevuto gli stessi vestiti?» chiede Giulia alla fine, sotto gli sguardi impazienti della polizia.
Mi volto. Ora l’oscurità avvolge il corridoio, nasconde questi esseri umani di cui l’Europa vorrebbe ci dimenticassimo.
«Sì» dico. «Diciannove uomini, quindici bambini e otto donne.»
«Bene.» Giulia si carica due borse in spalla. «Ricorda: quando vivi in un mondo ingiusto, mostrare equità è un atto di ribellione.»
Le sue parole mi danno la carica. A volte ho paura, è vero, ma sto facendo del mio meglio. Ci provo. Celebro la vita e cerco di farne il miglior uso possibile. A volte ci riesco e a volte imparo. Ma, facendolo, la paura mi passa.
Lancio un’ultima occhiata al corridoio, poi raccolgo le borse e seguo Giulia fuori di qui.
Quattro mesi prima
Per molti la causa scatenante fu Alan Kurdi, il bambino a faccia in giù sulla spiaggia. Per me fu il vuoto negli occhi di Omran Daqneesh, il bambino nell’ambulanza.
Vivevo in India quando vidi un soccorritore estrarlo da un edificio bombardato. Lo osservai sedere sul sedile arancione, i pantaloncini ingrigiti di polvere e il volto coperto di sangue. Solo, Omran si guardava intorno senza emettere suono. Indossava una maglietta con i personaggi dei cartoni animati e aveva cinque anni. Con calma apparente, si teneva le mani sulle cosce. Poi, l’occhio destro spalancato e il sinistro un po’ meno, Omran lanciò uno sguardo verso la telecamera e incontrò i miei occhi. Eccolo, il vuoto.
Avevo ventitré anni e mi ero trasferito in India per aiutare venti bambini in un orfanotrofio. Insegnavo in una scuola svantaggiata, studiavo giornalismo, raccoglievo fondi per i miei fratelli. Eppure, guardando quel video, realizzai che, mentre io mi facevo in quattro per aiutare chi amavo, milioni di altri bambini nel mondo soffrivano le pene dell’inferno senza nessuno che tendesse loro la mano. Pensavo di aver compiuto la mia missione, e invece ero solo all’inizio.
Il vuoto del bambino nell’ambulanza si conficcò nel profondo del mio essere.
L’anno seguente, dopo la laurea, trascorsi gli ultimi tre mesi in orfanotrofio, ogni giorno pervaso da gioia e da un presagio di addio. Ero partito per l’India con il fine d’insegnare ma, quattro anni dopo, sapevo di avere soprattutto imparato. Adesso avevo la possibilità di dare voce a chi ne era privo e sentivo di poter aiutare molti altri bambini nel mondo.
Tornai in Europa a luglio, dopo quattro anni di amore, speranza e profumo di gelsomino. Fu una scelta naturale, ma non per questo meno dolorosa. I miei bambini mi avevano insegnato chi ero e chi volevo diventare.
Trovai un’Europa un po’ più stretta e un po’ più cattiva, al mio ritorno. “Diventerò il cambiamento” mi ero ripromesso, ma da dove iniziare? E quando? E come? Concretizzare il mio desiderio si rivelò più difficile del previsto.
Mandai il mio curriculum ovunque potessi calarmi sul campo e aiutare chi soffre in Italia. Nulla. Avevo anni di esperienza alle spalle, ma ricevetti solo silenzio. Feci allora richiesta alle università che offrivano master in Cooperazione internazionale, ma anche in questo caso l’attesa si rivelò logorante e vana. Dopo quattro anni di crescita personale, mi sentii risucchiato in un buco nero che pensavo di aver tappato: la procrastinazione e la pigrizia, l’ego e la creatività soffocata. Mi sentivo scomparire.
Avevo un sogno. Avevo individuato l’obiettivo. La domanda era: come realizzarlo?
«Voglio solo essere utile» dissi un giorno.
«È pronta tra cinque minuti» rispose la nonna, rimestando la pasta. La nonna non ci sentiva granché.
«Grazie» dissi, i piedi nudi sotto la tavola come quando ero bambino. «Ma il problema è che non so da dove ini-
ziare.»
«Ci vuoi su il formaggio?»
«Ho imparato tante cose in India e pensavo di poterle mettere a frutto qui da noi, ma pare un vicolo cieco.»
La nonna apparve accanto a me. «Formaggio?»
«No, grazie» le dissi. Poi continuai: «Se voglio aiutare più persone devo rafforzare la mia voce, ma come continuare a salire da qui?».
«Vuoi un po’ di sugo con il pane?»
«Nonna, sto cercando di fare…» Mi fermai. «Sì, grazie.»
La nonna versò il sugo della sua conserva e appoggiò due fette di pane fresco nel mio piatto. Iniziai a mangiare e mi sentii subito meglio.
«Sai» disse lei, e io mi preparai a un aneddoto sulla sua gioventù, «quando ero ragazza, io e la mia famiglia abbiamo dovuto lasciare Milano per sfuggire ai bombardamenti. Ci siamo rifugiati in un piccolo paese non lontano da qui. L’ho odiato. Ci trattavano da stranieri, come se la nostra semplice presenza attirasse problemi. Doveva essere una soluzione temporanea, fino alla fine della guerra, ma poi mio papà è morto, e noi siamo rimasti bloccati qui.»
La nonna sbatté le palpebre e distolse lo sguardo. I capelli tinti di nero le ricadevano leggeri sulle spalle. Intinsi il pane nel sugo, senza però portarlo alla bocca.
«Ho dovuto lasciare la scuola e andare a lavorare» continuò, fingendo di avere qualcosa da fare sul piano cottura. «Pensavo fosse la fine dei miei sogni. Pensavo che perdere Milano e il papà fosse il capolinea. Ma qui ho incontrato tuo nonno.» Si voltò. «E poi è nata tua mamma.» Ora sorrideva. «E poi sei nato tu.»
Mi accarezzò il capo e si asciugò le lacrime. Addentai il pane. Sapeva d’infanzia, di pomeriggi umidi e di serate estive trascorse fuori a giocare con i cani, indosso un paio di mutande e nient’altro.
«A volte per salire bisogna scendere un po’.»
«In che senso?» chiesi.
«Formaggio?»
Qualche giorno dopo, arrivò la prima buona notizia: ero ...