I Visconti
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I Visconti

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Una dinastia, una città, un secolo: casata simbolo di Milano, i Visconti furono la famiglia che più di tutte riuscì a imporsi nella feroce lotta per la supremazia che imperversava nell'Italia del '300, dominandone la scena politica fino alla metà del secolo successivo. Grazie a un racconto in presa diretta, Daniela Pizzagalli - celebre autrice di biografie storiche e grande esperta di Medioevo e Rinascimento - dà voce ai protagonisti e fa scorrere davanti ai nostri occhi grandi eventi e aneddoti sconosciuti, momenti decisivi e storie private: dalle faide con i Torriani per il controllo della città meneghina alla discesa in Italia dell'imperatore Enrico VII, dai drammi familiari che colpirono i Visconti agli attacchi delle leghe antiviscontee che provarono a fermarne l'inarrestabile ascesa, fino agli anni di fulgore che portarono alla posa della prima pietra del Duomo. L'incalzante narrazione della Pizzagalli, primo volume di una trilogia dedicata alla dinastia milanese, rende più avvincente di un'invenzione romanzesca la spregiudicata corsa al potere che, tra battaglie e intrighi politici, permise ai Visconti di creare il più potente stato dell'Italia di allora proiettandoli al centro delle vicende europee.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2019
ISBN
9788858696910
Argomento
Storia
XII

Luchino e Giovanni

1339-1349
Azzone Visconti era stato il primo della famiglia ad aver goduto di un sincero consenso popolare, e per mantenere quel clima favorevole il primo atto dei nuovi signori fu un provvedimento di grazia: cancellarono tutte le pene pecuniarie dovute fino al 17 agosto 1339, a eccezione di quelle comminate per ribellione o per delitto di sangue.
Mostrarono poi subito di volersi suddividere i compiti: il governo a Luchino, a Giovanni il potere spirituale e le relazioni con la Chiesa.
Giovanni, che stava per raggiungere i cinquant’anni, aveva la capacità di mettersi al centro dell’attenzione, amava comparire in pubblico con grande apparato e si era conquistato il favore dei milanesi con accorta e affabile condotta, ma era anche acutissimo, determinato e lungimirante, pronto a cogliere al volo ogni occasione favorevole. Comprese che in quel momento era opportuno mantenere col fratello una rigida separazione di ruoli, intervenendo nelle questioni politiche al massimo con consigli e raccomandazioni fraterne.
Pochi mesi dopo la morte di Azzone, ebbe l’occasione di allestire un grande evento religioso cittadino: la traslazione del corpo di san Pietro martire nel nuovo imponente mausoleo, capolavoro dello scultore Giovanni di Balduccio. L’arca, un vero gioiello marmoreo, era sostenuta da otto pilastri a cui si appoggiavano altrettante statue raffiguranti le Virtù ed era circondata da quattordici scomparti a bassorilievo, fitti di ben centosettanta figure.
Aperto il sarcofago originario, che si trovava nella basilica domenicana di Sant’Eustorgio, il corpo del santo inquisitore fu ritrovato intatto, e così dritto che sembrava potesse stare in piedi. Giovanni lo fece esporre con solennità alla devozione dei milanesi, ma quando si dovette deporlo nel nuovo sepolcro, per lo sforzo di comprimerlo la testa si staccò. Il Visconti la fece portare all’arcivescovado: fosse pure un gesto di devozione, metteva in evidenza il suo ego irrefrenabile, che non fissava limiti ai propri desideri. Dopo meno di un anno, però, restituì la reliquia ai domenicani in una teca d’argento perché, si disse, era perseguitato da atroci emicranie.
Luchino, di un anno e mezzo più giovane del fratello, era rispettato come prode guerriero, sopravvissuto gagliardamente a battaglie e congiure. In apparenza non aveva ostacolato l’ascesa di Azzone, anzi si era schierato al suo fianco, disegnandosi un ruolo di valoroso braccio armato dello Stato. Se era stato impaziente di governare, l’aveva dissimulato abbandonandosi a una condotta dissipata, circondato da numerose amanti e figli illegittimi, almeno tre, di cui il prediletto era Brizio, guerriero e poeta dal carattere superbo e violento. Rimasto vedovo anche della seconda moglie Caterina Spinola, la donna che aveva amato in gioventù ma era morta dopo solo un anno dalle nozze senza avergli dato figli, nel 1331 si era nuovamente sposato. Per riavvicinare Milano all’alleanza con Genova e con una famiglia in passato ostile, aveva scelto d’impalmare la giovanissima Isabella Fieschi, di grande bellezza e di carattere orgoglioso.
Appena diventato signore, Luchino tolse la maschera gaudente e sfrenata che lo rendeva anche impopolare, rivelando un inaspettato piglio d’intransigente riformatore. Fra lo stupore generale instaurò un governo severo, estendendo le sue misure di disciplina e controllo dalla corte alla città e in tutto lo Stato, nell’intento di riformare i costumi, promulgando leggi contro il gioco d’azzardo, l’adulterio, i duelli. Rigoroso e imparziale nell’amministrazione della giustizia, istituì la figura dello sgravatore, un giudice cui potevano appellarsi tutti coloro che ritenevano di aver subìto prevaricazioni. Doveva essere celibe e forestiero, per evitare ogni tipo di collusione, e non aveva nemmeno il permesso di mangiare in casa altrui.
Per pacificare definitivamente le fazioni Luchino fece cadere i provvedimenti contro i fuorusciti – a eccezione dei Torriani – non solo autorizzandoli al ritorno, ma restituendo loro i beni confiscati. Fu una mossa opportuna sul fronte politico e con efficaci ricadute sull’ordine pubblico, perché contribuì ad alleviare la grave piaga del banditismo, che rendeva malsicure le strade del contado ed era incrementata anche dai malesardi impoveriti. Richiedevano maggiore sicurezza sulle strade soprattutto i commercianti che trasportavano derrate alimentari, costantemente preda di agguati. In particolare la campagna a sud della città, da dove giungevano con abbondante continuità latte e formaggi, era minacciata da una banda guidata da tal Vione Squilletti. Armigeri mandati da Luchino eliminarono il caporione in un luogo che da allora fu chiamato Morivione; i villici liberati festeggiarono i loro salvatori offrendo pane di miglio e panna fresca, un gesto che radicò una lunghissima tradizione milanese di degustare il pan meìn e pànera il 23 aprile, giorno di San Giorgio. Con astuto pragmatismo, ai banditi rimasti senza capo fu offerta la possibilità di arruolarsi nelle squadre punitive, per utilizzare proprio contro gli antichi compari l’esperienza di chi era disposto a rientrare nella legalità.
Luchino favoriva le iniziative degli emergenti ceti borghesi che intraprendevano nuove attività. Nel settore dei tessuti, già di primaria importanza nell’economia locale, si svilupparono manifatture di lusso come i broccati di seta e d’oro, grazie anche all’arrivo di artigiani tessitori di Lucca, esuli dalla loro sempre disputata città. La crescente prosperità dei milanesi era evidente anche nei cambiamenti della moda. Le donne abbassavano le scollature e ampliavano le maniche, disseminando i vestiti di frange e ornamenti preziosi, e gli uomini non erano da meno, mettendo in mostra le gambe con vesti corte e aderenti. Anche nelle acconciature si adottavano nuove fogge. Quelle femminili esibivano riccioli, quelle maschili accorciavano le chiome in tagli tondi a metà orecchio e in compenso sfoggiavano la barba, una moda che influenzò persino l’equipaggiamento militare con la creazione delle barbute, elmi che coprendo il volto lasciavano fuori la barba.
I nuovi modelli di armi e armature provenienti da Milano, principale centro siderurgico italiano, erano richiestissimi perché gli artigiani del settore – elemento trainante dell’economia cittadina grazie anche all’ottima qualità e resistenza dell’acciaio lombardo, ricco di un naturale apporto di manganese – avevano sviluppato una specializzazione e un virtuosismo senza pari in Europa.
La politica economica di Luchino non favoriva soltanto la città: anche nelle campagne si elevava il tenore di vita. Per favorire lo sviluppo dell’agricoltura, in crisi in quei tempi di ricorrenti carestie, eliminò le esazioni feudali, liberando i contadini dalle angherie dei proprietari terrieri, incentivò l’introduzione di nuove tecniche e lo scavo di canali d’irrigazione.
I suoi lungimiranti provvedimenti entravano però in conflitto con gli interessi delle famiglie aristocratiche abituate a spadroneggiare, che si diedero a congiurare per eliminarlo. A capo del complotto c’era la ricca e potente famiglia della Pusterla; in particolare Francescolo della Pusterla aveva un personale motivo di rancore nei confronti di Luchino: la sua bellissima moglie Margherita Visconti, figlia di Uberto fratello di Matteo, gli aveva riferito di essere stata corteggiata in modo importuno dal cugino Luchino, e poiché lo aveva respinto ne temeva la vendetta. Ma i risentimenti privati di una sola famiglia non avrebbero attirato tante adesioni: in realtà la congiura era l’estremo tentativo della nobiltà milanese di scuotere il giogo di una signoria che ridimensionava i suoi privilegi.
La catena di omertà che proteggeva la cospirazione si ruppe quando il fratello di Francescolo, Surleone della Pusterla, arruolò fra i congiurati Alpinolo da Casate, che a sua volta ne parlò col fratello Ramengo, per anni sostenitore delle lotte cittadine contro i Visconti. Ma Ramengo aveva cambiato opinione: convinto dal buon governo di Luchino, colse l’occasione per segnalarsi al signore e denunciò la congiura. Era il 20 luglio 1340. La macchina della giustizia s’avviò immediatamente: uscì un bando del podestà contro i colpevoli, ma Francescolo, che stava in allerta, riuscì a scappare con i figli e a rifugiarsi ad Avignone. La moglie Margherita e il fratello Surleone tentarono di seguirlo, però furono intercettati e arrestati poco fuori dalle mura cittadine.
Una raffica di pene severissime si abbatté non solo contro i congiurati ma contro chiunque fosse stato in relazione con loro. Fra i moltissimi nomi esalati sotto tortura dai cospiratori, alcuni furono suscitati a uso di Luchino, che ne approfittò per eliminare ogni possibile opposizione. Il sequestro dei beni dei colpevoli arricchì notevolmente il patrimonio del Visconti, che investì in acquisti di terre, assicurandosi una base economica che gli conferiva una certa indipendenza dalle casse statali. Incrementava i suoi acquisti man mano che grazie a lui s’ingrandiva lo Stato.
La narrazione di una prospera signoria non poteva dimenticare l’attenzione ai più poveri: ogni giorno Luchino dava da mangiare a trenta indigenti, e la mensa di Giovanni ne accoglieva sessanta.
Lo stile di vita di Luchino era improntato alla magnificenza, aveva immense scuderie e canili e una vera collezione di astori e falconi per la caccia. Si circondava di musici, giullari e letterati. Ospite fisso alla corte era un poeta toscano di non eccelsi meriti, Fazio degli Uberti, un fuoruscito discendente dal famoso Farinata, che introdusse a Milano la voga dei versi in volgare. Luchino stesso non era alieno dal partecipare a dispute poetiche tra il serio e il faceto. A Fazio, che lamentava in un sonetto l’esiguità dei compensi, rispose in certame con ironici versi: «Se stato fussi proprio quell’Augusto…».
Ma il poeta più quotato della famiglia era il suo figlio naturale Brizio, autore di canzoni e ballate e anche condottiero al fianco del padre. Personaggio contraddittorio, di vasta cultura e disordinati appetiti, era collezionista di libri e allevatore di cavalli da corsa, filosofo nei suoi versi ma scialacquatore e depravato nello stile di vita. Era stato a combattere in Germania e in Terra Santa e il padre nel 1336 lo aveva richiamato, nominandolo podestà a Lodi, dove si fece odiare: fu paragonato a Nerone perché alla vena poetica univa la più spietata crudeltà.
Brizio era tanto arrogante e invidioso che si permise di indirizzare un libello polemico a Francesco Petrarca, ridicolizzando la laurea poetica di cui era stato insignito a Roma nel 1341. Per viltà lo firmò con il nome di Lancillotto Anguissola, un amico del Petrarca che però dissipò l’equivoco. Il poeta rispose allora con un’epistola indirizzata a «un anonimo offensore che insulta facendosi scudo di un nome altrui», mostrando di sapere bene chi fosse il mittente, del quale con ironia tracciava l’oroscopo: Saturno gli aveva conferito ricchezza, cupidigia e stupidità, mentre lui, Francesco, era stato dotato da Mercurio di mezzi modesti, amore per la poesia, fervida mente. Consigliava quindi all’anonimo di godere dei piaceri che le sue ricchezze gli procuravano, ma di imparare a misurare le parole.
L’edilizia civile era in pieno sviluppo, dopo l’impulso dato da Azzone. Sorgevano imponenti palazzi privati non solo a Milano ma in tutto il territorio. Luchino, che grazie ai suoi investimenti aveva accumulato un ingente patrimonio, invece d’installarsi nel Broletto Vecchio preferì farsi costruire una sua dimora presso la chiesa di San Giorgio al Palazzo, sorta sulle rovine della domus imperiale romana. E dopo la congiura dei Pusterla, per maggiore sicurezza edificò un altro palazzo più grande e fortificato, un possente quadrilatero con quattro torri angolari, presso la chiesa di San Giovanni in Conca, che fece collegare al Broletto Vecchio mediante una loggia coperta lunga trecento metri, che passava sopra le case private.
Integrò inoltre il rafforzamento della capitale con una rete di castelli difensivi fuori Milano; il più grandioso fu quello di Vigevano, l’antico borgo fortificato di cui più volte era stato podestà. Nel 1341 vi innalzò una rocca che per la sua posizione elevata volle chiamare Belriguardo, e nel 1345 completò un nuovo castello sull’area del borgo comunale. Lì presso fece costruire un poderoso ponte di legno sul Ticino, munito di ponti levatoi, largo abbastanza da far passare tre carri affiancati e alto abbastanza da permettere il passaggio delle navi.
La navigazione fluviale era infatti importantissima e intensa. Dal 1177 Milano si era dotata di un canale navigabile alimentato dal Ticino, il Naviglio di Gaggiano, che Napo Torriani nel 1272 aveva prolungato fino in città. Più che un semplice aggancio alla rete idraulica per irrorare i campi, era divenuto essenziale per il controllo delle vie commerciali che dalla Lombardia portavano all’Adriatico, attraversando tutte le terre padane. Fin dall’inizio del millennio Pavia era il porto fluviale più importante, oltre che il cantiere più apprezzato di ottimo naviglio commerciale e militare, perciò la città era un nodo strategico fondamentale per i Visconti, che ne avevano sempre disputato il controllo.
I Beccaria, che governavano la città in accordo con Milano, nel 1341 sembrarono tentati da una lega con gli Scaligeri e Luchino, per stroncare ogni velleità di autonomia, fu pronto a concentrare sul Ticino forze terrestri e navali, costringendo i pavesi ad accettare dure condizioni per rientrare nell’alveo milanese: la distruzione della rocca che era stata costruita proprio da Matteo Visconti, la presenza di un presidio all’interno della città e la nomina del podestà, oltre all’obbligo di fornire armati a Milano in ogni guerra.
In quello stesso anno Giovanni riuscì a risolvere l’interminabile contesa con il papato riguardo ai processi d’eresia che avevano colpito i Visconti. Aveva mandato ad Avignone un’agguerrita squadra di giurisperiti che, dopo lunghi aggiustamenti, il 7 maggio 1341 ottenne finalmente una bolla pontificia che annullava i processi canonici contro Luchino e Giovanni. Dopo vent’anni si ammetteva che le condanne inflitte ai fratelli Visconti erano state inique. Benedetto XII non riteneva opportuno per il momento annullare anche i processi contro i defunti Matteo e Galeazzo, benché avesse incaricato alcuni cardinali di rivederli. Il distinguo aveva una motivazione politica, per non sconfessare apertamente il cardinale del Poggetto e gli illustri inquisitori coinvolti in quella massa di imputazioni.
In data 15 maggio partirono da Avignone le lettere che, in assenza di un imperatore riconosciuto dal papa, conferivano a Luchino e Giovanni i vicariati per Milano e per tutte le città viscontee che erano state gravate dagli interdetti: Piacenza, Lodi, Crema, Pavia, Novara, Cremona, Vercelli, Como, Bobbio, Borgo San Donnino, Soncino. Affinché non scomparisse la memoria della sua indulgenza, il papa volle legare l’assoluzione all’impegno solenne di costruire nelle cattedrali di ciascuna città una cappella in onore di san Benedetto. Ogni anno, nella festa del santo, doveva essere celebrata una messa e i Comuni dovevano distribuire un pane bianco del peso di dodici once a duemila poveri. Benedetto XII non volle però ratificare per il momento la nomina di Giovanni Visconti ad arcivescovo di Milano, perché gli premeva ribadire che la scelta del primate milanese spettava al papa.
In quel favorevole contesto, l’espansionismo visconteo era favorito anche dalla crisi del potere scaligero. Dopo aver perduto Brescia presa dai Visconti, Treviso conquistata da Venezia e Padova occupata dal Carrara, Mastino e Alberto della Scala possedevano in Veneto ormai soltanto Verona e Vicenza; rimanevano Parma e Lucca, ma isolate e minacciate da ingolositi vicini. Azzo da Correggio pensò fosse il momento propizio per riconquistare Parma, in passato dominata dalla sua famiglia, e chiese l’aiuto di Luchino. Se gli avesse fornito le truppe, giurò, dopo quattro anni gliel’avrebbe consegnata. Uno dei tanti incredibili patti che mascheravano altre convenienze, ma a Luchino al momento interessava togliere Parma a Mastino e mandò delle compagnie mercenarie con le quali il 22 maggio 1341 il Correggio entrò a Parma facendosi proclamare signore.
Per proteggere l’azione di sorpresa del Correggio su Parma, Luchino con gli alleati Gonzaga e Carrara compì una mossa diversiva contro Verona. L’attacco convinse Mastino della Scala, che ancora teneva Lucca a dispetto dei fiorentini, a offrire la città per duecentocinquantamila fiorini. L’accordo con Firenze fu firmato a Ferrara il 4 agosto 1341, e senz’altro ci fu chi ricordò che nel 1329 avevano rifiutato di acquistarla da Marco Visconti per ottantamila fiorini. Mastino per far salire il prezzo aveva offerto la città anche a Pisa, e quando seppero dell’accordo concluso con Firenze i pisani, considerandosi traditi, si rivolsero a Luchino Visconti, che vedeva malvolentieri i fiorentini installarsi in quel territorio che stava di guardia ai passi dell’Appennino.
Il 12 agosto a Pisa fu firmata un’alleanza che comprendeva anche il Gonzaga e il Correggio, e Lucca fu posta sotto assedio. L’accordo con Pisa consentì a Luchino il vantaggio collaterale di chiudere i conti con Francescolo Pusterla, rifugiato ad Avignone ma sempre controllato dalle spie viscontee. Vennero recapitate al Pusterla false lettere di Mastino della Scala con l’invito a raggiungerlo, perché ad Avignone sarebbe stato in pericolo. Francescolo, che non aveva trovato nel papa l’appoggio sperato, abboccò e l’8 agosto, appena sbarcato a Porto Pisano, fu riconosciuto e catturato dai pisani, che lo consegnarono al Visconti. La condanna a morte fu eseguita il 17 novembre davanti al palazzo del Broletto Nuovo: furono decapitati Francescolo, i suoi figli e la bella e virtuosa Margherita, oltre a numerosi fiancheggiatori. Un esempio raccapricciante per chi avesse osato ribellarsi al potere visconteo. La fedeltà di Pisa ai Visconti fu invece premiata perché Lucca, non ricevendo rinforzi da Firenze, il 6 luglio 1342 si arrese a pisani e viscontei.
In quella stessa estate Luchino otteneva un altro grande successo occupando Asti, presidio fondamentale sulla strada dei passi delle Alpi occidentali. Nel 1339 la città, che faceva parte dei possedimenti angioini in Piemonte, era stata occupata dal giovane marchese di Monferrato Giovanni II. Erano i giorni della morte di Azzone e del passaggio di potere, quindi i Visconti al momento non erano intervenuti ma nel 1342, sistemata la questione di Lucca, Luchino riprese l’espansione in Piemonte.
Prendendo al balzo l’opportunità di farsi mediatore in un conflitto tra il marchese di Monferrato e il principe di Savoia-Acaia, il Visconti seppe...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. I Visconti
  4. Premessa
  5. I. Il peso dei ricordi. 1302-1308
  6. II. Progetti di rivincita. 1308-1309
  7. III. L’imperatore Enrico VII in Italia. 1310
  8. IV. La fuga dei Torriani. 1310-1311
  9. V. Matteo Visconti vicario imperiale. 1311-1314
  10. VI. Le battaglie della vipera. 1314-1320
  11. VII. L’arma della scomunica. 1320-1322
  12. VIII. La fine di Matteo. 1322
  13. IX. Galeazzo al potere. 1322-1327
  14. X. Drammi di famiglia. 1327-1329
  15. XI. La signoria di Azzone. 1329-1339
  16. XII. Luchino e Giovanni. 1339-1349
  17. XIII. Giovanni arcivescovo e signore. 1349-1354
  18. Bibliografia
  19. Copyright