Joy Division. Autobiografia di una band
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Joy Division. Autobiografia di una band

  1. 400 pagine
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Joy Division. Autobiografia di una band

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«Voglio solo continuare a essere così come siamo. Vogliamo suonare quel che ci piace suonare. E quando smetterà di piacerci… Be', sarà il momento di chiudere la baracca. Sarà la fine.» Così diceva Ian Curtis il 28 febbraio del 1980, nel corso di un'intervista radiofonica. Neanche tre mesi dopo, la fine sarebbe arrivata davvero, per colpa di un suicidio annunciato. La morte di Curtis chiuse la storia dei Joy Division per consegnarli alla leggenda.
Una leggenda che ritroviamo intatta in questo libro che Jon Savage ha realizzato raccogliendo e intrecciando trent'anni di confessioni dei protagonisti della scena post-punk: dai membri della band ai gruppi con cui hanno condiviso il palco (Buzzcocks, Cabaret Voltaire, A Certain Ratio…), dal produttore Tony Wilson al grafico Peter Saville, dai fotografi che li hanno immortalati ai tecnici che ne hanno plasmato il suono.
La foto di gruppo di una generazione che ha riscritto le regole della musica.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788858696552
CAPITOLO DIECI

novembre 1979 / febbraio 1980

Ian Curtis ai Pennine Sound Studios, Oldham, 8 gennaio 1980 (Daniel Meadows)
Ian Curtis ai Pennine Sound Studios, Oldham, 8 gennaio 1980 (Daniel Meadows)
Bernard Sumner: Ero… boh, suppongo che oggi sarei definito come un pigro talentuoso, ma a quei tempi mi davano dello stronzo scansafatiche. Non riuscivo a convincermi di essere diventato un musicista professionista. La mia unica ambizione era di fare qualcosa che mi piacesse, ma mica di lavorarci seriamente. Aspettavo che l’ispirazione mi attraversasse – ah! –, volevo diventare il medium della musica degli spiriti che mi possedevano. Pensavo che bastasse starmene sdraiato lì e la musica mi sarebbe uscita dalle dita, perché credevo che l’arte fosse questa cosa qui.
Non so se posso dirlo anche a titolo degli altri, ma secondo me una delle cose più divertenti è che non parlavamo mai della nostra musica. Avevamo, tra di noi, questo sentire comune che non abbiamo mai dovuto comunicarci. Sentivo che c’era questa via alternativa per arrivare alla musica, che era nell’aria e che noi la stavamo cogliendo. Sapevamo che se ci fossimo fermati a teorizzare la musica che facevamo, questo avrebbe ucciso ogni ispirazione. Per lo stesso motivo, non abbiamo mai parlato dei testi o delle esibizioni di Ian. Sapevo che se avessi riflettuto allora su quello che stava facendo, lo avrei fermato. Mi fulminò questo pensiero: «Sta succedendo qualcosa di eccezionale, ma tu non fissare il sole, non fissare mai il sole».
Peter Hook: Rob aveva avuto la visione giusta, la lungimiranza di capire che dovevamo mantenere noi il controllo di tutto. Con le diecimila copie di Unknown Pleasures avevamo fatto un bel po’ di soldi, quanti Siouxsie and the Banshees o gli altri gruppi, tipo i Cure, ne facevano con dieci milioni di copie vendute. Stavamo facendo un sacco di soldi rispetto alle vendite e questo perché avevamo gestito tutto come gruppo: avevamo mantenuto il controllo totale su quello che avevamo fatto, avevamo fatto cose molto originali, di quelle che non fai solo per i soldi, perché tutto quello che guadagnavamo dai nostri dischi era nostro.
Avevamo potuto fare le cose in modo diverso perché avevamo questo splendido accordo con la Factory. Non c’è dubbio su questo: siamo stati liberi di fare quel cazzo che volevamo. Avevamo potuto scegliere e decidere perché avevamo fondamenta solidissime. E dobbiamo ammetterlo, sono stati Rob e Tony a costruirle.
Jon Wozencroft: Prendi alcune di quelle canzoni che hanno registrato tra Unknown Pleasures e Closer, molti gruppi avrebbero potuto costruirci intere carriere intorno a una sola di esse. Pezzi come “The Only Mistake”, “Something Must Break”… voglio dire, sono pezzi incredibili, eppure i Joy Division stavano solo sperimentando, nemmeno le hanno incluse nel secondo album. La mia sensazione è che la band stesse registrando canzoni per i posteri, e che quelle canzoni fossero i passi necessari per arrivare rapidamente alla fase successiva.
Questa fase successiva furono, naturalmente, le registrazioni per la fanzine «Sordide Sentimental»: “Atmosphere” e “Dead Souls”. Rob le aveva consegnate a una piccola azienda di Rouen, in Francia, che ne stampò un singolo 7 pollici in 1578 copie. È straordinario: sono atti di generosità come questo che mantengono in vita le fanzine underground fai da te e i piccoli editori, nella speranza di competere con le grandi compagnie, grazie al supporto delle band che sono in classifica, come lo erano i Joy Division all’epoca.
  • 12 ottobre 1979: uscita del 12 pollici Earcom 2, Fast Product Records
  • Ottobre/novembre 1979: registrazione di “Atmosphere”, “Dead Souls”, “Ice Age” presso i Cargo Studios
  • 16 novembre 1979: uscita del 7 pollici “Transmission”, Factory Records
Stephen Morris: Avevamo appena registrato “Transmission”, Unknown Pleasures era uscito da qualche mese e stavamo facendo un tour nelle Highlands. I ragazzi venivano da noi e ci chiedevano: «Quando esce “Transmission”?». Come facevano a sapere che stava per uscire il singolo “Transmission”? Chi glielo aveva detto? Fu una rivelazione, all’improvviso capimmo che le persone erano molto interessate al gruppo, che il nostro pubblico stava crescendo e che la gente voleva comprare i nostri dischi.
Volevano comprare “Transmission” prima che uscisse e questo mi fece provare empatia per loro, perché anch’io ero un po’ così con le band che mi piacevano. Andavo al negozio di dischi e chiedevo: «Allora ce l’hai? Ti è arrivato?». Quando doveva uscire The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars, andavo continuamente al negozio di dischi: «Non è ancora arrivato? Allora oggi ce l’hai?». «No, non è ancora uscito.» Li capivo perché lo avevo provato anch’io, ma il fatto di vedere che le altre persone provavano questo per te, be’, è stato incredibile.
Quando è uscito il singolo “Transmission”, ho pensato che fosse il primo disco pop dei Joy Division, perché parlava di radio e quindi non poteva non passare in radio (quanto piace a quelli che lavorano in radio…). Ha avuto una vita propria perché era una canzone pop; ma poi non era davvero una canzone pop, era distante un milione di miglia dalla musica pop. La gente comune ascolta tanta musica di merda, ma poi c’è l’altra musica, quella su cui devi riflettere un bel po’ perché ti piaccia, quella che devi essere strano un bel po’ perché ti piaccia.
Peter Hook: Con i Joy Division non abbiamo mai avuto blocchi di scrittura, non abbiamo mai avuto un periodo meno fertile. È stato molto facile scrivere perché in pratica avevamo tutto il mondo di fronte. Ogni volta che scrivi una canzone, la realtà si restringe, vero? Fino a quando diventa davvero difficile. Ma per noi la realtà era sempre lì, come un libro aperto, quindi scrivere ci veniva facile. Scrivevamo due canzoni al mese. Siamo stati davvero prolifici come gruppo e abbiamo sempre lavorato duro; niente chiacchiere, andavamo e provavamo, bang, bang, bang. Con i Joy Division abbiamo sempre lavorato molto duramente.
Ian Curtis (intervista a Radio Lancashire): Quando abbiamo iniziato a suonare abbiamo fatto qualche data con i Rezillos. In quel periodo il loro manager era Bob Last e ci aveva accennato al fatto che stava fondando una nuova etichetta discografica, la Fast Product Records. Voleva che facessimo un singolo per loro. Ma alla fine non se ne è fatto niente, perché è arrivata la Factory e lui ha fatto altre cose, come produrre i Gang of Four e gli Human League, di cui era anche diventato il manager. Oggi mi sembra che gestisca un altro gruppo.
Quando abbiamo registrato l’album ci erano avanzati un bel po’ di pezzi. Nell’album ne abbiamo messi sedici in tutto e ne abbiamo scartati dieci. Il nostro manager, Rob Gretton, si era sempre tenuto in contatto con Last, erano ancora in buoni rapporti. Quando Last gli ha parlato del suo progetto Earcom, gli abbiamo subito proposto due canzoni per un singolo. Perché per noi è importante che venga diffuso, in un modo o nell’altro, tutto ciò che registriamo. Adesso stiamo realizzando una cosa, come quella che abbiamo fatto per Earcom, con «Sordide Sentimental», che è una rivista francese a tiratura limitata.
Ci sono due tracce sul singolo che uscirà allegato alla rivista, assolutamente inedite. È che ci piace fare uscire il più possibile delle cose che facciamo, in una forma o nell’altra. Sai, non possiamo pubblicare tutto con la Factory perché ci sono ovviamente dei limiti finanziari. Voglio dire, non puoi pubblicare un disco, così, quando hai altre cose in programma. Quindi, se non c’è più spazio sull’lp, cerchiamo altri supporti dove pubblicare i nostri pezzi.
Stephen Morris: “Autosuggestion” l’abbiamo praticamente improvvisata. Eravamo solo io e Hooky e stavamo facendo il soundcheck, mentre aspettavamo che Martin finisse quello che stava facendo. Se non ricordo male “Candidate” l’abbiamo fatta allo stesso modo. Stavamo suonando solo io e Hooky e poi si è aggiunta una linea di chitarra. Cantarci sopra dei versi è stato naturale, è andata così: una cosa improvvisata, ma comunque è venuta bene. È così che componevamo; ci veniva molto più facile farlo in quel modo. È strano pensare che, per la maggior parte di quello che abbiamo fatto, i Joy Division sono esistiti solo nelle nostre teste.
Dalla fanzine «The Story So Far», numero 3, ottobre 1979
Gli chiedo che spazio pensano di dare, in futuro, ai sintetizzatori nella loro scrittura musicale.
Ian: «Tutte le volte che penseremo che le tastiere siano necessarie, le useremo. Non è che prendiamo dall’inizio la decisione consapevole di scrivere una canzone con il sintetizzatore».
Non pensate vi serva un tastierista nella formazione?
Ian: «Credo di no… dovrebbe essere qualcuno che non sa assolutamente suonare, in modo che possa imparare a suonare come noi. È impossibile».
In realtà i Joy Division hanno appena registrato un singolo per l’etichetta Sordide Sentimental con il sintetizzatore di Bernard che la fa da padrone su un pezzo assolutamente pop intitolato “Atmosphere”. Secondo il loro manager e parrucchiere Rob Gretton («A mio parere, si sta avventurando nelle terre dell’idiozia!» dice Stephen Morris) è probabilmente una delle cose migliori che hanno fatto in vinile. Rob spera di portare presto la band in studio per registrare il secondo album, ma prima hanno un tour in Olanda, Belgio, Germania e, probabilmente, in America. Siete avvisati.
Bernard Sumner: “Atmosphere” è la mia canzone preferita dei Joy Division. Ritengo che sia incredibilmente emotiva, cupa e potente, e la produzione è perfetta. Mi piace anche “Transmission” perché è un pezzo eccitante, ma solo la versione live.
Peter Hook: “Dead Souls” l’abbiamo composta direttamente nei Cargo Studios, molto più velocemente di tutte le altre. Rispetto a oggi, allora facevamo tutto con un’immediatezza incredibile. “Dead Souls” l’abbiamo registrata mentre la componevamo, e ne è venuto fuori comunque un buon singolo. Quello che mi piaceva dei Joy Division era questa facilità d’improvvisazione collettiva, e “Dead Souls” ne è il prodotto perfetto, lo è veramente. Quella melodia in particolare è, più di ogni altra cosa, opera di tutto il gruppo.
Bernard Sumner: Ho sempre desiderato fare musica innovativa. Non mi piacciono i nostalgici. Quando ero bambino, i miei familiari non facevano che lamentarsi: «Oooh, gli anni Cinquanta e i vecchi gruppi rock’n’roll» e io li odiavo e pensavo: «Be’, ma era un’altra epoca, noi viviamo adesso». Quando sono entrato nel gruppo, non sapevo neanche cosa fossero i sintetizzatori o gli strumenti elettronici, ma poi Ian mi ha fatto ascoltare i Kraftwerk. Faceva sempre mettere “Trans Europe Express” prima che noi salissimo sul palco e da allora l’ho adorata. Non l’avevo mai sentita prima. Conoscevo “Autobahn”, ma “Trans Europe Express” aveva questi ritmi che, istintivamente, mi sembravano musica dance, e queste tastiere incredibili che mi facevano pensare: «Wow, questi fanno roba davvero interessante». Quindi ho deciso di imparare qualcosa, visto che per la tecnologia ero abbastanza portato: avevo una buona manualità e mio nonno era un ingegnere. Non avevamo soldi. Volevo un sintetizzatore, non potevo permettermelo e ho deciso di costruirmene uno da solo, partendo dai componenti elettronici. Avevo trovato un kit base per costruirne uno. Fin dai primissimi giorni con i Joy Division ero diventato fondamentalmente un insonne e me ne stavo seduto tutta la notte a guardare film come 2001: Odissea nello spazio e Arancia meccanica, e li guardavo e li riguardavo perché allora non c’erano trasmissioni televisive fino a notte fonda. Leggevo una rivista che si chiamava «Electronics Today» e ci avevo trovato la pubblicità di questo sintetizzatore. Così mi sono detto: «Questo è davvero economico, costa solo 200 sterline, quanto può essere difficile costruirlo?». Dovevo solo saldare a mano tra loro i componenti. Ci sono voluti circa due mesi per farlo, e direi che non ha funzionato molto bene. Aveva tutte queste manopole che non sapevo a cosa servissero, come l’oscillatore a bassa frequenza o i filtri per la frequenza di risonanza e quella di campionamento. Allora pensavo: «Sembra fantastico, sembra davvero interessante, ma cosa ci faccio?». Poi ho imparato un po’ di cose base sui sintetizzatori e ho iniziato a usarlo durante i concerti dei Joy Division. In effetti, se recuperi qualche filmato di quando suoniamo con i Buzzcocks all’Apollo, puoi sentirmi mentre lo uso. Ho imparato a usarlo davvero e ho scoperto che ci si poteva tirar fuori effetti davvero stranianti. “Atmosphere” l’abbiamo registrata con un sedici piste, e ci ho usato il mio primo sintetizzatore polifonico, un Solina String Synthesizer, insieme a un organo Bontempi comprato da Woolworths. Li suonavo insieme, e quasi non ci credevo che stavo suonando dei sintetizzatori che riuscissero a produrre più di una nota alla volta. Fu una rivelazione eccitante. Abbiamo avuto poco tempo per registrarla, e io e Hooky eravamo certi che Martin facesse le sue cose migliori quando doveva farle in fretta e non aveva troppo tempo per pensarci.
Peter Hook: Per fare il tour con i Buzzcocks avevamo lasciato i nostri rispettivi lavori e, finito il tour, eravamo rimasti senza nulla. Avevamo lasciato le nostre vite di ogni giorno, passando dall’eccitazione per le prove a quella per il tour con i Buzzcocks per poi, appena tornati a casa, ritrovarci senza lavoro a chiederci quando saremmo riusciti a fare i prossimi concerti. Rob non riusciva a trovarci altri ingaggi. Dopo quel tour ho passato un sacco di tempo seduto a non fare nulla, fino a quando improvvisamente non abbiamo iniziato a fare altri concerti e abbiamo cominciato a diventare famosi.
Daniel Meadows: La prima volta che mi hanno coinvolto credo sia stato il novembre 1979. Tony sapeva che ero un fotografo. Lavoravo come fotografo per il college Nelson and Colne, a Burnley, nel nord-est del Lancashire. Uno dei miei committenti era l’agenzia Mid Pennine Arts, ma non mi pagavano abbastanza, quindi avevo iniziato a lavorare come freelance per giornali e riviste, e una delle storie che avevo pubblicato sul supplemento domenicale dell’«Observer» riguardava il trattamento degli schizofrenici degenti a lungo termine in una sezione dell’ospedale psichiatrico di Prestwich chiamata Clayton Ward.
Ero andato a vivere con questi pazienti per due settimane in circostanze difficili e avevo fatto queste fotografie, battendo sul tempo World in Action, il programma di giornalismo investigativo di Granada, che voleva fare la stessa inchiesta. Quindi quelli di Granada mi chiamarono per un’intervista e mi offrirono un lavoro in redazione. Il mio contratto al college stava per scadere e io mi stavo guardando attorno. A quei tempi in tv avevano circa tremila risposte per ogni offerta di lavoro: se ti veniva fatta una simile proposta, dovevi valutarla molto seriamente. Non c’erano molte possibilità di entrare a lavorare nei media.
Avevo terminato il mio percorso controculturale alla scuola d’arte alla fine degli anni Sessanta. Avevo vissuto per quattordici mesi in un autobus a due piani, facendo ritratti fotografici alle ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. I PROTAGONISTI
  4. INTRODUZIONE
  5. JOY DIVISION
  6. CAPITOLO UNO. le città parlano
  7. CAPITOLO DUE. 1966 / 1976
  8. CAPITOLO TRE. giugno 1976 / giugno 1977
  9. CAPITOLO QUATTRO. luglio 1977 / aprile 1978
  10. CAPITOLO CINQUE. maggio / giugno 1978
  11. CAPITOLO SEI. giugno / dicembre 1978
  12. CAPITOLO SETTE. ottobre 1978 / maggio 1979
  13. CAPITOLO OTTO. giugno / settembre 1979
  14. CAPITOLO NOVE. ottobre / novembre 1979
  15. CAPITOLO DIECI. novembre 1979 / febbraio 1980
  16. CAPITOLO UNDICI. febbraio / marzo 1980
  17. CAPITOLO DODICI. aprile / maggio 1980
  18. CAPITOLO TREDICI. maggio 1980
  19. LE FONTI
  20. RINGRAZIAMENTI
  21. Copyright